Ci sono nel violino – se, non vedendo lo strumento, non si è in grado di rapportare quel che si sente alla sua immagine, la quale modifica la sonorità – accenti così affini a certe voci di contralto, da creare l’illusione che una cantante si sia aggiunta al concerto.
Alziamo gli occhi, non vediamo che gli involucri, preziosi come scatole cinesi, ma ci lasciamo ancora ingannare, a tratti, dal richiamo fallace della sirena; qualche volta crediamo anche di sentire un genio dibattersi prigioniero in fondo al dotto astuccio, stregato e fremente, come un diavolo in un’acquasantiera; qualche volta, infine, è come se un essere puro e sovrannaturale trascorresse nell’aria srotolando il suo messaggio invisibile.
Come se i concertisti, più che suonare la piccola frase, eseguissero i riti richiesti perché questa apparisse, e procedessero agli incantesimi necessari a ottenere e prolungare per qualche istante il prodigio della sua evocazione, Swann, il quale non poteva scorgerla più che se fosse appartenuta a un mondo ultravioletto, e assaporava quasi il refrigerio di una metamorfosi nella cecità momentanea da cui era colpito approssimandosi a lei, Swann ne avvertiva la presenza, come quella di una divinità tutelare, una confidente del suo amore che per poter giungere fino a lui davanti alla folla e condurlo in disparte per parlargli, avesse assunto il travestimento di quell’apparenza sonora.
E mentre trascorreva lieve, rassicurante e sussurrata come un profumo, dicendogli il messaggio che aveva da dirgli e di cui egli scrutava una per una le singole parole, col rimpianto di vederle svanire così in fretta, Swann compiva, involontariamente, con le labbra il movimento di baciare, al suo passaggio, un corpo armonioso e fuggitivo.
Non si sentiva più esiliato e solo, giacché lei gli si rivolgeva parlandogli sottovoce di Odette. Non aveva più, infatti, come un tempo, l’impressione che Odette e lui fossero degli sconosciuti per la piccola frase. Era stata così spesso testimone delle loro gioie! Non meno spesso, è vero, l’aveva avvertito della loro fragilità.
E, di più, mentre allora egli indovinava una sofferenza nel suo sorriso, nella sua intonazione limpida e disillusa, oggi vi rintracciava piuttosto la grazia di una quasi lieta rassegnazione.
Delle pene di cui gli parlava un tempo, dandogli la sensazione di trascinarle via con sé, sorridente, nel suo corso rapido e sinuoso, senza che lui ne fosse coinvolto, di quelle pene che adesso erano diventate sue e di cui non poteva sperare d’essere mai liberato, sembrava gli dicesse, come in passato della sua felicità: Che cos’è tutto questo? non è più nulla.
E, per la prima volta, il pensiero di Swann andò, in uno slancio di pietà e tenerezza, a quel Vinteuil, a quel fratello ignoto e sublime che, anche lui, doveva aver tanto sofferto; che vita poteva essere stata la sua? nel fondo di quali dolori aveva attinto quella forza divina, quell’illimitata potenza creativa? Quando a parlargli della vanità delle sue sofferenze era la piccola frase, Swann trovava dolce quella stessa saggezza che solo un attimo prima gli era sembrata intollerabile, quando presumeva di leggerla nei volti degli indifferenti che consideravano il suo amore come una divagazione insignificante.
Era perché la piccola frase, invece, qualunque opinione avesse sulla labilità di tali stati d’animo, vi scorgeva non, come tutta quella gente, qualcosa di meno serio ma, al contrario, di così superiore alla vita positiva, che ad esso e solo ad esso valeva la pena di dare espressione.
Erano proprio questi incanti di una segreta tristezza che la piccola frase si sforzava di imitare, di ricreare, giungendo a captare, a rendere visibile la loro essenza che, per altro, è d’essere incomunicabili e di sembrare frivoli a chiunque non sia la persona che li prova.
Essa induceva così a riconoscerne il pregio, ad assaporarne la divina dolcezza, tutti quegli ascoltatori – se appena s’intendevano un po’ di musica – che poi li avrebbero misconosciuti nella vita, in ogni singolo amore sbocciato accanto a loro.
Certo, la forma nella quale la piccola frase li aveva codificati non poteva tradursi in ragionamenti. Ma da quando, più di un anno prima, l’amore per la musica era nato in lui, almeno per qualche tempo, rivelandogli tante ricchezze della sua stessa anima, Swann considerava i motivi musicali come vere e proprie idee, appartenenti a un altro mondo, a un altro ordine, velate di tenebre, ignote, impenetrabili all’intelligenza, ma non meno perfettamente distinte le une dalle altre, non meno differenziate fra loro per valore e significato.
Quando, dopo la serata dai Verdurin, facendosi eseguire di nuovo la piccola frase, aveva cercato di discernere come, al modo di un profumo, di una carezza, essa lo circuisse, lo avvolgesse, si era reso conto che questa impressione di dolcezza contratta e freddolosa era dovuta all’esiguo scarto fra le cinque note che la componevano e al costante richiamo di due di loro; ma, in realtà, sapeva di ragionare così non sulla frase stessa, ma su semplici valori, sostituiti per comodità della sua intelligenza alla misteriosa entità percepita, prima di conoscere i Verdurin, la sera in cui aveva ascoltato la sonata per la prima volta.
Sapeva che il solo ricordo del pianoforte poteva falsare ulteriormente il suo modo di vedere i fenomeni della musica, che il campo dischiuso al musicista non è una meschina gamma di sette note, ma una tastiera incommensurabile, quasi del tutto ancora sconosciuta, dove qua e là, separati da dense tenebre inesplorate, soltanto alcuni dei milioni di tasti di tenerezza, di passione, di coraggio, di serenità che la compongono, ciascuno diverso dagli altri come un universo rispetto a un altro universo, sono stati scoperti da alcuni grandi artisti che, ridestando in noi il corrispettivo del tema rinvenuto, ci rendono il servigio di mostrarci quale ricchezza, quale varietà celi a nostra insaputa la grande notte impenetrata e scoraggiante della nostra anima che noi scambiamo per un vuoto, per un nulla.
Vinteuil era stato uno di questi musicisti.
Nella sua piccola frase, che pure presentava alla ragione una superficie oscura, si avvertiva un contenuto così consistente, così esplicito, cui essa conferiva una forza così nuova e originale, che chi l’aveva sentita la custodiva dentro di sé sullo stesso piano delle idee razionali.
Swann vi si riferiva come a una concezione dell’amore e della felicità di cui richiamava a se stesso la particolarità con la stessa immediatezza che per “La Princesse de Clèves” o per “René”, appena i loro nomi gli si affacciavano alla memoria.
Persino quando non ci pensava, la piccola frase esisteva latente nel suo intelletto allo stesso titolo di certe altre nozioni che non hanno equivalente, come quelle della luce, del suono, del rilievo, del piacere fisico, ricchi possessi nei quali si diversifica e dei quali si fregia il nostro regno interiore.
Forse li perderemo, forse si cancelleranno, se è vero che torniamo al nulla.
Ma, finché viviamo, non possiamo comportarci come se non li conoscessimo più di quanto ce lo consentano gli oggetti reali, più di quanto, per esempio, possiamo dubitare della luce della lampada che viene accesa davanti agli oggetti metamorfosati della nostra camera da cui è svanito persino il ricordo dell’oscurità.
In tal modo, la frase di Vinteuil come, poniamo, un certo tema del “Tristano”, che rappresenta a sua volta, per noi, un determinato acquisto sentimentale – si era coniugata alla nostra condizione mortale, aveva assunto qualcosa di umano, e questo era abbastanza commovente. La sua sorte era legata al futuro, alla realtà della nostra anima, di cui costituiva uno degli ornamenti più peculiari, meglio differenziati.
Forse, l’unica verità è il nulla, e tutto il nostro sogno è inesistente, ma se è così noi sentiamo che anche queste frasi musicali, queste nozioni che esistono in quanto esso esiste, dovranno non esser più nulla.
Periremo, ma teniamo in ostaggio queste divine prigioniere che seguiranno la nostra stessa sorte. E congiunta a loro la morte ha qualcosa di meno amaro, di meno inglorioso, forse di meno probabile.
Swann, dunque, non aveva torto a credere che la frase della sonata esistesse realmente.
Certo, umana da quel punto di vista, essa apparteneva per un altro verso a un ordine di creature sovrannaturali, da noi mai vedute, e che tuttavia riconosciamo, estatici, quando qualche esploratore dell’invisibile riesce a catturarne una, conducendola, dal mondo divino dov’egli ha accesso, a brillare per un istante sul nostro.
È quanto Vinteuil aveva fatto con la piccola frase.
Swann sentiva che il compositore s’era limitato, con gli strumenti della sua musica, a svelarla, a renderla visibile seguendone e rispettandone il disegno con mano così tenera, così prudente, così delicata e così sicura, che il suono s’alterava di continuo, si smorzava per indicare un’ombra, si ravvivava dovendo seguire le tracce di un contorno più ardito.
E la prova che Swann non s’ingannava quando credeva all’esistenza reale della frase è che ogni intenditore un po’ fine si sarebbe immediatamente accorto dell’impostura se Vinteuil, mancandogli la potenza necessaria a vederne e renderne le forme, avesse cercato di dissimulare, aggiungendo qua e là tratti di sua invenzione, le lacune della visione o le improvvise incertezze della mano.
Era scomparsa, ora.
Swann sapeva che sarebbe riapparsa alla fine dell’ultimo movimento, dopo un lungo brano che il pianista di Madame Verdurin saltava regolarmente.
C’erano, là dentro, idee mirabili che Swann non aveva afferrate al primo ascolto e che percepiva adesso, quasi si fossero liberate, nello spogliatoio della sua memoria, del travestimento uniforme della novità.
Ascoltava tutti i temi sparsi, destinati a entrare nella composizione della frase come le premesse nella conclusione necessaria: assisteva alla sua genesi.
Che audacia, si diceva, è mai questa: non meno geniale forse, di quella di un Lavoisier, di un Ampère: l’audacia di un Vinteuil che sperimenta, che scopre le leggi segrete di una forza sconosciuta, guidando attraverso l’inesplorato, verso la sola meta possibile, i destrieri invisibili nei quali confida e che non potrà mai scorgere! Ah, la bellezza del dialogo che Swann intese fra pianoforte e violino all’inizio dell’ultimo brano! L’eliminazione di ogni parola umana, lungi dal lasciarvi regnare la fantasia, come si sarebbe potuto supporre, l’aveva messa al bando; mai linguaggio parlato fu espressione di una necessità così inflessibile, né conobbe a tal punto la pertinenza delle domande, l’evidenza delle risposte.
Dapprima il pianoforte si lamentò solitario, come un uccello abbandonato dalla compagna; il violino lo sentì, gli rispose come da un albero vicino.
Era come agli albori del mondo, ancora non c’erano che loro due sulla terra, o meglio in quel mondo chiuso a tutto il resto, costruito dalla logica di un creatore, dove sarebbero sempre stati soli insieme: il mondo della sonata.
Era un uccello, era l’anima ancora incompleta della piccola frase, era una fata, quest’altro essere invisibile e gemente di cui il pianoforte ripeteva poi con tenerezza il lamento? Le sue grida erano così improvvise che il violinista doveva precipitarsi sull’archetto per raccoglierle. Sembrava che il violinista volesse ammaliarlo, quell’uccello meraviglioso, addomesticarlo, accattivarselo.
Già si era insinuato nella sua anima, già la piccola frase evocata agitava come quello di un medium il corpo realmente posseduto del violinista.
Swann sapeva che essa avrebbe parlato ancora una volta. E si era a tal punto sdoppiato che l’attesa dell’attimo imminente in cui se la sarebbe ritrovata di fronte lo scosse con uno di quei singhiozzi che un bel verso o una triste notizia provocano in noi, non quando siamo soli, ma nel riferirli ad amici nei quali ci rispecchiamo come un’altra persona la cui probabile emozione sta per commuoverli.
Riapparve, ma, questa volta, per librarsi nell’aria e giocare solo un momento, come immobile, e subito svanire.
Swann, dunque, non perdeva un solo istante del tempo brevissimo per cui si protraeva.
Era ancora là, simile a una sospesa bolla iridata. Come un arcobaleno il cui splendore s’affievolisce, s’attenua, poi si ravviva e, prima di spegnersi, s’esalta per un attimo più che mai, ai due colori esibiti fino allora la piccola frase aggiunse altre corde iridescenti, tutte quelle del prisma, e le fece cantare.
Swann non osava respirare e avrebbe voluto che anche le altre persone rimanessero immobili, come se il minimo movimento potesse compromettere il prestigio sovrannaturale, fragile e delizioso che era prossimo a dileguarsi.
Per la verità, nessuno si sognava di aprir bocca.
La parola ineffabile di un solo assente, forse di un morto (Swann non sapeva se Vinteuil fosse ancora vivo), aleggiando sui riti di quegli officianti, bastava a tenere in pugno l’attenzione di trecento persone, e faceva di quella pedana, sopra la quale un’anima veniva in tal modo evocata, uno dei più nobili altari consacrati al compimento di una cerimonia sovrannaturale.
(Proust, Dalla parte di Swann)
***
C’erano, là dentro, idee mirabili che Swann non aveva afferrate al primo ascolto e che percepiva adesso, quasi si fossero liberate, nello spogliatoio della sua memoria, del travestimento uniforme della novità.
Swann l’aveva già sentita, la frase. È nel risentirla che gli succede qualcosa. È la ridondanza, il bis, ad aprirgli una via di fuga. A condurlo altrove, spaesato in un Paese a lui forse troppo prossimo per non essere il più remoto – un Paese che, per essere percepito, pretende una «distanza» tra il primo e il secondo «tempo». Un Paese che, forse, può essere solo rivisto o riascoltato. Ma che proprio perciò si offre come un «universo diverso», un SURREALE dove andare a mettersi al riparo, un ALDILÀ ospitale solo verso i fuggiaschi.
Swann che fugge Odette (primo tempo). Odette che fugge Swann (secondo tempo). Anche questa è una ridondanza. Un’ordinaria quotidiana ridondanza di quel «buco nero» che si chiama amore, passione, desiderio, ma anche rabbia, rancore, gelosia e vendetta.
Tristano ama Isotta. Isotta ama Tristano. Sempre la stessa ridondanza: il desiderio dell’uno risuona sulla bocca dell’altra. Andata e ritorno – sempre a nascondersi, sempre a sottrarsi al «buco nero»: ma tu, chi sei?
Quella della piccola frase di Proust, invece, è una ridondanza un po’ speciale che vive, palpita di vita propria – trascendentale (?), sovrannaturale (?) – al di là del quotidiano rimpallo tra il Tristano e l’Isotta di turno.
Qualcosa di «inaudito» era sfuggito all’orecchio di Swann la prima volta: coperto com’era della «veste uniforme della novità» (tutte le «novità» non sono che ridondanze mascherate, ripetizioni non riconosciute), bisogna che sia data a Swann una seconda occasione perché possa riprenderlo dal «guardaroba della memoria», del «già udito», del «già sentito».
E qui Proust si avventura nell’analisi della piccola frase.
A suscitare in Swann, dice, «questa impressione di dolcezza contratta e dolorosa… è l’esiguo scarto fra le cinque note» della frase e, soprattutto, «il costante richiamo di due di loro».
Due note si richiamano: Swann, nel risentirle, scopre il Richiamo all’opera nelle corde del violino e, insieme, nei suoi nervi. Scopre l’Incantesimo: di cinque note, due si «ripetono», si fanno eco. Vinteuil non ha raccolto che un frammento, una molecola del Richiamo all’opera nel linguaggio.
L’Angelo ha due ali – appello e risposta, necessità e contingenza, santità e diavoleria. L’Angelo è una «misteriosa entità», è qualcos’altro, non è nessuna delle due ali, ma un altro mondo, un universo diverso. Perché ci sono universi diversi, specie di incorporei, creati da artisti come Vinteuil. E perciò Swann, cioè Proust, li prende così come sono. Non sono degli ineffabili. Sono e restano «inauditi», è vero. Suonano sempre «nuovi» e si annientano la prima volta. Salvo poi a tornare. Non tornano tutti. Ne bastano due perché l’Angelo spieghi le sue ali, e porti in salvo un’eco.
Proust «sperimenta», Swann non è che un «dilettante» (poiché l’uno è dell’altro la riproduzione inversa): insieme là dove l’uno nell’altro si dissolvono, l’uno all’altro offrendosi come la sua «seconda volta» – invece del «buco nero» in cui cadrebbe ogni rappresentazione di questo «incestuoso» irrappresentabile connubio tra lo scrittore e lo scritto – Proust azzarda: è Lei, la «piccola frase», il Soggetto che rimane allo scoperto quando tra noi due ci oscuriamo.
Rimane l’Arte, rimane il Linguaggio, farmaco e veleno – per «rimediare» al male che produce. Rimane l’Incantesimo prodotto dalla ridondanza. Semplice mistero del linguaggio: arte della ridondanza, ridondanza dell’arte.
Si può mai «dubitare dell’esistenza della luce della lampada che accendiamo»? si può negare l’Incantesimo se bastano solo due note di violino a stregarci? e si può soprattutto non sentire l’Angelo, se viene pure la seconda volta a manifestarsi, insieme, «antico e nuovo», necessario e contingente?
Swann, il «dilettante allo sbaraglio» (erotico, estetico, ecc.), sta per perdere Odette. Quella Odette che prima gli si offriva e che ora lo fugge. Swann che prima la fuggiva, ora forse la rincorrerebbe, se questo non lo precipitasse nel refrain quotidiano: Tristano ama Isotta, Isotta ama Tristano.
No, è proprio ciò da cui Swann è in fuga. Swann cerca una via di fuga da questo «buco nero» che è la sua passione tardiva per Odette, ovvero nient’altro che la risonanza invertita della passione anticipata di Odette per lui. No, Swann vuole fuggire. Ed ecco, provvidenziale, la «piccola frase» che gli ispira una via. Una via che lo porti lontano dal quotidiano, dal ridondante «danzare» sulle parole e sui gesti, solo per cadere ancora una volta, per l’ennesima volta, nel «buco nero»: ma tu, dimmi, chi sei?
Se tutt’a un tratto sotto la penna di Proust, non più Swann, non più Odette, ma finalmente, per così dire, è la frase che diventa il Soggetto «umano-angelico» del Libro in corso di scrittura, se è la Frase, a questo punto, a farsi da sé avanti, a imporsi all’ascolto, a parlare e guardare, se non negli occhi, quantomeno nel cuore di chi l’ascolta, se è Lei che giudica e si fa perfino un’opinione sulla nobiltà o la miseria degli stati d’animo di chi l’ascolta, se insomma è Lei a indurre emozioni e a riorganizzare la soggettività di tutti i suoi «lettori», se è Lei a invocare una risposta – c’è poco da fare: o il nostro logos prende coscienza di nascere e rinascere sempre «orfano» della sua prima volta, oppure si condanna, a sua insaputa, a macchiarsi come Edipo di parricidio.