Sono sempre stato sorpreso da questa ostinazione della mente a voler pensare in dimensioni e in spazi, e a fissarsi su certi stati arbitrari delle cose per pensare, a pensare in segmenti, in cristalloidi, e che ogni modo dell’essere resti fisso su un cominciamento, che il pensiero non sia in comunicazione continua e ininterrotta con le cose, ma che questa fissazione e questo gelo, questa specie di messa in monumenti dell’anima, si produca per così dire PRIMA DEL PENSIERO. È evidentemente la condizione buona per creare.
Ma sono ancor più sorpreso da questa instancabile, da questa meteorica illusione, che ci insuffla queste architetture determinate, circoscritte, pensate, questi segmenti d’anima cristallizzati, come se fossero una grande pagina plastica e in osmosi con tutto il resto della realtà. E la surrealtà è come un restringimento dell’osmosi, una specie di comunicazione ribaltata. Lungi dal vedervi una diminuzione del controllo, ci vedo piuttosto un controllo più grande, ma un controllo che, invece di agire diffida di se stesso, un controllo che impedisce gli incontri della realtà ordinaria e permette incontri più sottili e rarefatti, incontri sottili fino alla corda, che prende fuoco e non si rompe mai. Immagino un’anima travagliata e come solforosa e fosforosa di questi incontri, come il solo stato accettabile della realtà.
Ma è non so quale lucidità innominabile, sconosciuta, che me ne dà il tono e il grido e me li fa sentire a me stesso. Io li sento a una certa tonalità insolubile, voglio dire sul sentimento della quale nessun dubbio mi morde.
E io, rispetto a questi incontri rimescolanti, sono in uno stato di minima scossa, vorrei che s’immagini un niente bloccato, una massa di spirito interrata da qualche parte, divenuta virtualità. […]
Si deve comprendere che tutta l’intelligenza non è che una vasta eventualità, e che la si può perdere, non come l’alienato che è morto, ma come un vivente che è nella vita e che ne sente su di sé l’attrazione e il soffio (dell’intelligenza, non della vita).
Le titillazioni dell’intelligenza e questo brusco rovesciamento delle parti.
Le parole nel mezzo del cammin (à mi-chemin) dell’intelligenza.
Questa possibilità di pensare all’indietro e di lanciare improvvise invettive al proprio pensiero.
Questo dialogo nel pensiero.
L’assorbimento, la rottura di tutto.
E all’improvviso questo rivolo d’acqua su un vulcano, la caduta sottile e rallentata dello spirito.
Ritrovarsi in uno stato d’estrema scossa, schiarita d’irrealtà, con in un angolo di sé dei brandelli del mondo reale.
Pensare senza la minima rottura, senza il calzascarpe per infilare il pensiero, senza nessuno di quei subitanei escamotage a cui il mio midollo s’è assuefatto come a postazioni-emittenti di correnti.
Il mio midollo a volte si diverte con questi giochi, si compiace di questi giochi, si compiace di questi ratti furtivi a cui la testa del mio pensiero presiede.
Non mi servirebbe che una sola parola a volte, una semplice piccola parola senza importanza, per essere grande, per parlare nel tono dei profeti, una parola testimone, una parola precisa, una parola sottile, una parola ben macerata nel mio midollo, uscita da me, per slanciarsi all’estremo confine del mio essere,
e che, per tutto il mondo, non sarebbe niente.
Io sono testimone, io sono il solo testimone di me stesso.
Questa scorza di parole, queste impercettibili trasformazioni del mio pensiero a voce bassa, di questa piccola parte del mio pensiero che pretendo essere già formulata, e che abortisce, io sono il solo giudice in grado di misurarne la portata.
Una specie di perdita costante del livello normale di realtà. […]
Il difficile è proprio trovare il proprio posto e ritrovare la comunicazione con sé. Il tutto è in una certa fluttuazione delle cose, nell’ammasso di tutta questa petraia mentale attorno a un punto che è per l’appunto da trovare.
Ed ecco quel che penso, io, del pensiero:
CERTAMENTE L’ISPIRAZIONE ESISTE.
E c’è un punto fosforoso in cui tutta la realtà si raccoglie, ma mutata, metamorfosata, – e perché? ? – un punto di magico utilizzo delle cose. E credo agli aeroliti mentali, a delle cosmogonie individuali. […]
Tutti i termini che scelgo per pensare sono per me dei TERMINI nel senso proprio della parola, delle vere terminazioni, degli sbocchi miei mentali, di tutti gli stati che ho fatto subire al mio pensiero. Io sono davvero LOCALIZZATO dai miei termini, e se dico che sono LOCALIZZATO dai miei termini, è perché non li riconosco come validi nel mio pensiero. Io sono veramente paralizzato dai miei termini, da una sequenza di terminazioni. E per quanto ALTROVE sia in quei momenti il mio pensiero, io non posso che farlo passare per questi termini, per quanto contraddittori per esso, per quanto paralleli ed equivoci possano essere, a rischio di arrestarmi in quei momenti del pensiero.
Se solo si potesse gustare il suo niente, se si potesse riposare nel suo niente, e se questo niente non fosse una certa maniera d’essere ma neanche la morte stessa.
È così duro non esistere più, non essere più in qualcosa. Il vero dolore è di sentire in sé lo smarrimento del proprio pensiero. Ma il pensiero come un punto non è certo una sofferenza.
Sono al punto in cui non tocco più la vita, ma con in me tutti gli appetiti e la titillazione insistente dell’essere. Non ho più che un’occupazione, rifarmi.
Mi manca una concordanza delle parole con la minuta dei miei stati.
«Ma è normale, ma a tutti mancano le parole, ma voi siete troppo difficile con voi stesso, ma a sentirvi non sembrerebbe, ma voi vi esprimete perfettamente in francese, ma voi date troppa importanza alle parole».
Siete dei coglioni, dall’intelligente all’ottuso, dal penetrante alla testa dura, siete dei coglioni, voglio dire che siete dei cani, voglio dire che scortecciate l’esterno, che vi accanite a non comprendere.
Io mi conosco, e tanto mi basta, e tanto deve bastare,
io mi conosco perché mi assisto, assisto ad Antonin Artaud.
– Tu ti conosci, ma noi ti vediamo, noi vediamo bene ciò che fai.
– Sì, ma voi non vedete il mio pensiero.
A ciascuno degli stadi della mia meccanica pensante, comprendetemi bene, nel tempo, voglio dire in una certa sorta di spazio (io mi comprendo); non voglio dire un pensiero in lunghezza, un pensiero in durata di pensieri, voglio dire UN pensiero, uno solo, e un pensiero INTIMO; ma non voglio dire un pensiero di Pascal, un pensiero di filosofo, voglio dire la fissazione avvolta su se stessa, la sclerosi di un certo stato. E fermo là!

Io mi considero nella mia minuzia. Metto il dito sul punto preciso della piaga, dello slittamento non dichiarato. Ché la mente è più rettilinea di voi, Signori, si srotola come i serpenti, si insinua fino ad attentare alle nostre lingue, voglio dire a lasciarle in sospeso.
Io sono colui che ha meglio sentito lo scompiglio della sua lingua nelle sue relazioni col pensiero. Colui che ha meglio repertato la minuta dei suoi più intimi, dei suoi più insospettabili slittamenti. Io mi perdo nel mio pensiero in verità come si sogna, come si rientra subitaneamente nel proprio pensiero. Io sono colui che conosce gli angoli reconditi della perdita.
Tutta la scrittura è porcheria.
Quelli che escono dal vago per provare a precisare checchessia di ciò che succede nel loro pensiero, sono dei porci.
Tutti gli uomini di lettere sono dei porci, e specialmente quelli di questi tempi.
Tutti quelli che hanno dei punti di riferimento nello spirito, voglio dire d’un certo lato della testa, su posizioni ben localizzate del loro cervello, tutti quelli che sono padroni della loro lingua, tutti quelli per i quali le parole hanno un senso, tutti quelli per i quali esistono delle altitudini nell’anima, e delle correnti nel pensiero, quelli che sono lo spirito del tempo, e che hanno nominato queste correnti di pensiero, penso ai loro bisogni precisi, e a questo cigolio d’automa che ai quattro venti diffonde il loro spirito,
– non sono che porci.
Quelli per i quali certe parole hanno un senso, e certe maniere d’essere, quelli che fanno così bene delle maniere, quelli per cui i sentimenti hanno delle classi e che discutono su un qualunque degrado delle loro esilaranti classificazioni, quelli che credono ancora a dei «termini», quelli che rimescolano ideologie che hanno preso posto nell’epoca, quelli di cui le donne parlano così bene e queste stesse donne che parlano così bene e che parlano delle correnti dell’epoca, quelli che credono ancora a un orientamento dello spirito, quelli che seguono delle vie, che agitano dei nomi, che fanno gridare le pagine dei libri,
– quelli là sono i peggiori porci.
Giovanotto, lei è abbastanza gratuito!
No, io penso a delle critiche barbute.
E ve l’ho detto: niente opere, niente lingua, niente parola, niente spirito, niente.
Niente, se non un bel Pesa-Nervi.
Una sorta di stazione incomprensibile e tutta dritta al centro di tutto nella mente.
E non sperate che io vi nomini questo tutto, in quante parti si divida, o che ve ne dica il peso, che io m’incammini, che mi metta a discutere di questo tutto, e che, discutendo, mi perda e mi metta così senza saperlo a PENSARE – e che s’illumini, e viva, e si procuri una moltitudine di parole, tutte lucidate a senso, tutte diverse, e capaci di chiarire tutte le attitudini, tutte le sfumature d’un sensibilissimo e penetrante pensiero.
Ah questi stati che non si nominano mai, queste situazioni eminenti dell’anima, ah questi intervalli mentali, ah questi pasticcini che sono il pane quotidiano delle mie ore, ah questo popolo formicolante di dati – sono sempre le stesse parole che mi servono e davvero non ho l’impressione di muovermi di molto nel mio pensiero, eppure mi ci muovo assai più di voi in realtà, barbe d’asini, maiali pertinenti, maestri del falso verbo, corteggiatori di ritratti, autori di feuilleton, gente del pianterreno, erbivendoli, etimologisti, piaga della mia lingua.
Ve l’ho detto, non ho più una lingua, e questo non è una ragione perché voi persistiate, perché vi ostiniate nella lingua.
Andiamo, sarò compreso fra dieci anni da persone che faranno oggi quel che fate voi. Allora si conosceranno i miei geyser, si vedranno i miei ghiacci, si sarà appreso a snaturare i miei veleni, si sveleranno i miei giochi d’anime.
Allora tutti i miei capelli saranno colati nella calce, tutte le mie vene mentali, allora si percepirà il mio bestiario, e la mia mistica sarà diventata un cappello. Allora si vedranno fumare le giunture delle pietre, e bouquet arborescenti d’occhi mentali si cristallizzeranno in glossari, allora si vedranno cadere degli aeroliti di pietra, allora si vedranno delle corde, allora si comprenderà la geometria senza spazi, e si apprenderà che cos’è la configurazione dello spirito, e si comprenderà com’è che io ho perso lo spirito.
Allora si comprenderà perché la mia mente non è là, allora si vedranno tutte le lingue prosciugarsi, tutti gli spiriti seccarsi, tutte le lingue indurirsi, le figure umane si appiattiranno, si sgonfieranno, come aspirate da ventose essiccanti, e questa lubrificante membrana continuerà a svolazzare per aria, questa membrana lubrificante e caustica, questa membrana di due spessori, di molteplici gradi, di infiniti crepacci, questa malinconica e vetrosa membrana, ma così sensibile, così pertinente anch’essa, così capace di moltiplicarsi, di raddoppiarsi, di rivoltarsi nel suo rispecchiamento di crepe, di sensi, di stupefacenti, d’irrigazioni penetranti e viranti.
… allora tutto questo sarà ben trovato,
e io non avrò più bisogno di parlare.
(Artaud, Il Pesa-Nervi)
***
Prima del PENSIERO, prima di giungere al cogito (voglio insistere: tra i tre e i quattro anni), l’anima del bambino si è già disseminata in chissà quante e quali «passioni». Di queste, le più sono andate disperse nella Terra Infeconda del Solito. Alcune, però, certe eccezioni, si sono «cristallizzate» sottraendo all’abitudine (per grazia della sua stessa ridondanza) una sintesi – un «segmento» dice Artaud, un’immagine, una meteora, su cui lo sguardo del bambino si fissa come sul proprio «cominciamento» (autobiografico) – alias Narciso.
Prima del Cogito, si è dunque spezzato il continuum «patetico», per fare spazio a certi «discreti» emotivi – a quelli che Artaud chiama i «monumenti» (funebri) del Passato dell’anima, di quando l’anima era in «comunicazione continua e ininterrotta con le cose», ignara di iati, fratture e scissioni «tra sé e sé».
Prima del PENSIERO, l’anima del bambino è dunque già passata per estatici momenti di fissazione, e ha già saggiato il gelo e la paralisi: ha già incontrato il no e la morte. E questo l’ha messa nella «condizione ideale» per creare pensiero. Il PENSIERO nasce dalle ceneri della fenice. Nasce pensando d’essere Lui la FENICE. Nasce rincorrendo questa «meteorica illusione» sul proprio conto.
È per via di questa ILLUSIONE che nell’anima del bambino vengono «insufflate» le ARCHITETTURE DEL PENSIERO, cioè le strutture già «determinate, circoscritte e pensate» dalla Sintassi di un linguaggio che s’illude di essere «in osmosi con la realtà», e tanto più S’ILLUDE quanto più dichiara guerra al suo proprio essere SURREALE. Tanto più Narciso s’illude, quanto meno è capace di riconoscere il suo volersi illudere.
È per una falla, per una breccia nel muro del linguaggio, per una via stretta (dice il Vangelo), per un restringimento della (presunta) «osmosi» tra il LINGUAGGIO DELL’ILLUSIONE e la REALTÀ – che si entra nel Regno dei cieli, nel SURREALE degli «incontri sottili» (con l’Angelo o col Demone).
Solo la ridondanza dell’illusione ci può far «udire» l’ILLUSIONE e ricondurci a quei suoi presunti «cominciamenti», a quei «segmenti» che si sono «cristallizzati» (in cristalli sempre più freddi) sulla soglia tra la SPENSIERATEZZA e il PENSIERO.
Immagino un’anima travagliata e come solforosa e fosforosa di questi incontri, come il solo stato accettabile della realtà.
Il solo dato «reale», il solo appiglio di «realtà», che all’anima resta – è la puzza di zolfo (c’è stato un «incendio», una vampata, la fenice è passata per il rogo!) e la fosforescenza dell’abbaglio che lo sguardo ha preso nell’imboccare la strettoia tra i due mondi.
È stata incontrata una morte. Dopo, solo questo ambiguo sulfureo brillante «niente di che» rimane. Al primo sorso di Lete, tutto si cancella. Rimane solo una traccia di luce e una puzza di zolfo. C’è stata una guerra, forse anche un lungo assedio, e poi la Vecchia Troia (del non-dove) è stata messa a ferro e fuoco.
Credo a delle cosmogonie individuali… da un lato le potenze delle tenebre, i demoni bui e puzzolenti, e dall’altro le potenze della luce che risplendono, gli angeli che illuminano, i miraggi e le apparizioni. Credo alla Guerra che Potenze tra loro incompatibili si combattono nel LINGUAGGIO DELL’ILLUSIONE. Ogni bambino ne è il campo di battaglia. Ogni bambino in questa eterna battaglia deve venirci a morire. Ogni narcisismo deve sbattere il muso contro la sua IRREALTÀ, se vuole sopravvivere al rogo della fenice.
Ma in questo viaggio PENSATO all’indietro nel PENSIERO, la cosa difficile è sfuggire ai suoi «automatismi» indotti, che glissano, dirottano, divertono, si accaniscono a non comprendere, e a tenere a ogni costo in vita l’ILLUSIONE che li alimenta. Essi si rifiutano di «sciogliere» i cristalli della propria illusoria autobiografia. Essi si compiacciono a giocare coi «segmenti» sopravvissuti all’incendio.
Perciò in questo viaggio a ritroso, è difficile ritrovare la comunicazione con sé. Di mezzo, d’intralcio, a difesa dell’ILLUSIONE, ci sono parole, ci sono pietre che la recingono. E in questo muro di cinta c’è solo una fessura, appena un piccolo foro per far passare la voce.
Solo l’ILLUSIONE DELLE ILLUSIONI – non l’illusione riguardo a questo o quell’«ente», ma l’illusione che s’illude di rispondere all’appello dell’Essere – solo l’illusione esaltata al secondo grado, l’ILLUSIONE CHE SI CONTEMPLA nelle sue stesse ripetizioni, e che si rifiuta all’illusione di una sua origine, di un suo cominciamento, di un suo inizio, per scrutarsi nell’eterna ripetizione, nell’eterno ritorno, nell’eterno annientamento dell’Essere, e nel mistero del suo essere ogni volta differente…
– solo l’ILLUSIONE CHE SI TRASCENDE fino all’«invettiva» contro se stessa può illudersi che c’è ancora altra terra da viaggiare, e ancora altro mare da navigare al di là del muro del linguaggio.
Per esempio questa illusione che arriva a dire a grosse lettere – CERTAMENTE L’ISPIRAZIONE ESISTE.
Per poi aggiungere subito dopo che sono le parole a terminarla. Che sono i TERMINI a spaesarla, a traslocarla nel linguaggio e a paralizzarla.
C’è un’ILLUSIONE più antica del linguaggio. L’illusione madre, quella da cui l’illusione del linguaggio. L’illusione che ispira il linguaggio. Incontenibile in sé, essa al linguaggio chiede: Contienimi! Se pure muoio sul rogo, tu salva almeno mio figlio. Portalo nel Paese dei Nomi. Strappalo all’oblio!
E così l’illusione stessa si destina a terminare nei termini del linguaggio. E per quanto l’ispirazione madre venga sempre dal suo anonimo ALTROVE, dal suo introvabile NON-DOVE, il figlio ispirato non può fare a meno di farla passare per le vie del linguaggio – di passare lui stesso in quest’altro Paese, e di farsi così LOCALIZZARE in un dialetto, in una storia, in una Tribù.
Come impedito di «gustare» l’annientamento a cui è come al solito votata ogni ispirazione – il figlio è dannato a cercare l’impossibile «concordanza» della sua MUSA con le parole. È costretto a passare per le stazioni della via crucis del linguaggio.
Oh no, la Guerra non è finita. La Guerra tra la MENTE e il LINGUAGGIO continua. È la ripetizione di un’altra Guerra – come al solito per il territorio – che da sempre si combattono sulfurei demoni e arcangeli fosforescenti, gli uni agli altri irriducibili, ostili, polemici, furiosamente avversi, gli uni e gli altri egualmente fissati nella loro propria ILLUSIONE. Santi e diavoli, martiri della fede e campioni della miscredenza, da sempre si contendono la resistenza al NIENTE.
Al NIENTE «fermo là, non ti muovere!», al PARALIZZATO, al NIENTE bloccato nella sua vuotezza, nella sua insignificanza – che è il solo che realmente si ripete a ogni vanire d’illusione. La sola surreale vertigine di un insolito splendore e odore di zolfo emanato da una casuale ridondanza del non-senso dell’esistenza.
Ancora una volta! – bloccato là, nel solito Vuoto sulfureo e fosforescente, quel PENSIERO che ancora ha da nascere. Quell’UNICO INTIMO PENSIERO INDIVISO, ignaro di fratture o di fessure per cui spiarsi o confessarsi tra sé e sé.
Sono pochi i pazzi, si contano sulle dita d’una mano i viandanti che si sono avventurati in questo viaggio all’indietro – dallo SCISSO all’UNICO: a ritroso dal volere diviso, dal volere straziato, tirato di qua e di là da potenze di desideri tra loro incompatibili – al Volere dell’Uno, al Volere che l’Uno volle PRIMA DEL PENSIERO – PRIMA DELLE PAROLE.
Solo pochi pazzi, per fortuna, si gettano nell’impresa. Una volta impazziti, essi hanno solo da impazzire una seconda e una terza e una quarta volta – perché questa è la PAZZIA che la MENTE scarica sul LINGUAGGIO: Contienimi! – gli comanda. – Tienimi stretta a te, non lasciarmi ubriacare di oblio e di annientamento, ché io sono interminabile… e ho la vocazione a perdermi.