Heidegger – Il bagno nel fiume Lete

Alla fine del dialogo platonico sull’essenza della πόλις, si parla di un δαιμόνιος τόπος… di una «località insolita», di un «dove» entro i cui siti e percorsi l’in-solito risplende Yarmoliuk-angeli-demoniespressamente, e in cui l’essenza dell’essere è essenzialmente presente in un senso eccellente.

La località nominata nel mito conclusivo della Politeia di Platone non si trova né in «terra» né in «cielo». Al contrario, in tale località si mostra solo ed esclusivamente qualcosa che rinvia sia a ciò che appartiene alla terra, il sotterraneo, sia al sovraterreno. Il sotterraneo e il sovraterreno sono i luoghi da cui il «demonico», o dal basso o dall’alto, risplende sulla terra. Sono i luoghi degli dèi. Nella località dell’in-solito si incontrano coloro che provengono dal sotterraneo e dal sovraterreno, allo scopo di attraversare questo δαιμόνιος τόπος prima di compiere un nuovo viaggio mortifero sulla terra. Durante l’itinerario attraverso la località dell’in-solito i luoghi di questa vengono percorsi secondo soste e tempi di migrazione espressamente stabiliti.

L’ultimo luogo nella località dell’in-solito, che è anche il luogo in cui i viandanti debbono sostare immediatamente prima del transito al nuovo viaggio mortifero, e τό Λήθης πεδίον, la pianura della Lete, del velamento sottraente nel senso dell’oblio.
In questa pianura della λήθη si raccoglie l’intero itinerario. Qui il «demonico» dell’intera località è essenzialmente presente in senso estremo e supremo.
Il guerriero Er racconta che la via verso la pianura della λήθη passa attraverso braci che bruciano tutto e un’aria che soffoca ogni cosa: «Infatti, anche questa pianura del velamento sottraente è spoglia di piante, ed è in generale vuota di tutto ciò che la terra lascia schiudersi».

La pianura del velamento è contro ogni φύσις. La λήθη non consente alcun φύειν, alcuno schiudersi e venire fuori: essa appare come l’opposizione essenziale alla φύσις.
Ma se intendiamo φύσις come la «natura» e λήθη come il «dimenticare», non potremo mai capire né perché φύσις e λήθη debbano contrapporsi, né perché debbano in generale pervenire a una particolare relazione reciproca. Viceversa, se le pensiamo entrambe in modo greco, diviene chiaro che la λήθη, intesa come un sottrarre e velare essenziale, mai e in nessun luogo lascia schiudersi qualcosa, e si rivolge quindi contro il venir fuori in quanto tale, cioè contro la φύσις.

Folck-Lete

La pianura della λήθη impedisce ogni svelamento dell’ente, e quindi del solito. In quel luogo essenziale che essa stessa è, la λήθη fa scomparire tutto. Eppure questo luogo non è caratterizzato solamente dalla compiutezza della sottrazione, cioè, per così dire, dalla supposta quantità del velamento.
È importante notare piuttosto che il «via» a ciò che viene sottratto è esso stesso presente nell’essenza della sottrazione. Il «via» al sottratto e al velato non è affatto «niente», anzi, il far scomparire che tutto sottrae è la sola cosa che in questo luogo si verifica e si manifesta. Il luogo rimane vuoto, in esso non vi è assolutamente niente di solito. Ma proprio il vuoto è qui ciò che rimane ed è presente. La nientità del vuoto è il niente della sottrazione. La vuotezza del luogo è lo sguardo che guarda entro di esso e lo «riempie». Il luogo della λήθη è quel «dove» in cui l’in-solito è essenzialmente presente in un’esclusività caratteristica, sicché la pianura della λήθη è «demonica» in un senso eminente.

Eppure, nella misura in cui tale luogo lascia comunque apparire ed essere presente qualcosa al suo interno, questo qualcosa che appartiene alla pianura della λήθη deve Jensen-fiume-Leteesserle essenzialmente affine.
L’unica cosa che i viandanti incontrano in tale luogo è un fiume. Tuttavia già il suo nome preannuncia che esso è conforme al luogo, cioè è soggetto all’essenza della λήθη. Il fiume che scorre nella pianura della λήθη si chiama ἀμέλης, che significa: «Noncuranza».

Il guerriero che narra il μῦθος del δαιμόνιος τόπος dice: «Allora, dopo che già era spuntata la sera, si accampano sulle sponde del fiume “Noncuranza”, la cui acqua nessun recipiente può rinchiudere, cioè mettere al riparo».
Quest’acqua non si dà cura (Sorge) di ciò che si contrappone alla scomparsa, allo sfuggire, e quindi al velamento sottraente. Quest’acqua, che, essendo il puro sfuggire in quanto tale, non si lascia rinchiudere in nessun recipiente, non conosce la cura della svelatezza (ἀλήθεια), cioè la cura affinché l’ente sia messo al riparo nello svelato, sia costantemente in esso e vi rimanga.

La «cura» qui non indica affatto una preoccupazione o un’afflizione qualsiasi riguardo a una qualche situazione esteriore del mondo e dell’uomo. È invece unicamente cura per la svelatezza e rientra nell’ambito del δαιμόνιον, cioè nell’evento dell’essenza dello svelamento e del velamento.
In questo senso, la «noncuranza» che le corrisponde non è né una semplice assenza di preoccupazione per qualcosa né solo una peculiarità dell’uomo: piuttosto, la «noncuranza» è esclusivamente il «non curarsi» della ἀλήθεια, giacché essa procura il dominio della λήθη, cioè del velamento sottraente; perciò anche tale non-curanza rimane un δαιμόνιον. Dunque, nella misura in cui nell’ambito del pensiero essenziale, laddove cioè vengono pensate l’essenza dell’essere e la svelatezza, si parla della «cura», questa non va pensata come lo stato di insofferenza di un «soggetto» umano che vagola nel «niente in sé», cioè come un’«esperienza vissuta» oggettivatasi in vuota nientità.

L’acqua del fiume che scorre nella pianura della λήθη sfugge a ogni recipiente e attua di per sé soltanto quell’unica sottrazione che lascia sfuggire tutto e dunque vela tutto. Ma tutti coloro che, dopo essere passati attraverso il δαιμόνιος τόπος, dovranno entro breve tempo ricominciare un viaggio sulla terra, debbono prima bere l’acqua del fiume Schot-Lete«Noncuranza», e precisamente in una quantità determinata: «Ora, però, tutti sono obbligati a bere una quantità determinata di quest’acqua».

Ogni uomo che compie il viaggio mortifero sulla terra permane su di essa e in mezzo all’ente in modo che, in virtù della bevanda, dominano un velamento e una sottrazione dell’ente, cosicché l’ente «è» soltanto se, in contrasto con tale velamento e con tale fuga, domina al tempo stesso una svelatezza in cui lo svelato è contenibile e resta contenuto.
Grazie alla bevanda bevuta in giusta misura l’uomo che ritorna sulla terra reca con sé un’appartenenza essenziale all’ambito essenziale del velamento. In verità, tutti stanno fino a un certo grado nell’ambito essenziale del velamento, «ma coloro che non sono salvati dalla saggezza bevono più della misura».

Qui la saggezza (φρόνησις) è quel «vedere comprendente» che prende visione di ciò che è svelato e può propriamente essere scorto.
Tale «presa di visione» è il guardare dello sguardo essenziale, cioè della «filosofia»: φρόνησις significa qui lo stesso che «filosofia», una denominazione che vuol dire «avere lo sguardo per l’essenziale».
Colui che sa guardare così è un salvato, vale a dire «salvato» nel riferimento dell’essere all’uomo. […] Colui che in tal modo salva (conserva e trattiene) nella svelatezza ciò che appare, è egli stesso un salvato (quindi un conservato) per lo svelato. Viceversa, coloro che non lo sono, e cui manca quindi lo sguardo essenziale, sono «senza filosofia».

La «filosofia» non è dunque un mero indaffararsi del pensiero con concetti generali, un’occupazione a cui ci si può dedicare o meno senza che altrimenti accada qualcosa di essenziale. La filosofia è il venire interpellati dall’essere stesso. È in sé il modo fondamentale in cui l’uomo, in mezzo all’ente, si rapporta ad esso. I senza-filosofia sono i «senza-visione». Essi si abbandonano a ciò che appare immediatamente e che altrettanto immediatamente torna a scomparire, sono cioè alla mercé dello sfuggire e del velarsi dell’ente. Bevono oltre misura l’acqua del fiume «Noncuranza» e sono dunque i noncuranti, coloro che si sentono a proprio agio nella spensieratezza sottrattasi a ogni pretesa dei pensatori. I noncuranti sono ben felici di essersi lasciati alle spalle la cura di un’appartenenza a un popolo di poeti e pensatori. […]

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Intesa dunque come il prestare attenzione all’appello che l’essere rivolge all’uomo, la «filosofia» è anzitutto la cura dell’essere, e non è mai una questione di «cultura» e di conoscenza. Si può anche, perciò, possedere un’enorme quantità di conoscenze erudite sulle idee filosofiche senza mai essere «filosofici» e senza mai «fare filosofia».
Viceversa, si può anche essere raggiunti dall’appello dell’essere senza sapere di che cosa si tratta, e quindi senza essere in grado di rispondere con un pensiero adeguato.

Un simile pensiero pensante implica ovviamente un sapere e un’accuratezza della meditazione e della parola che superano essenzialmente ogni pretesa di esattezza meramente scientifica. Secondo l’esperienza dei pensatori greci, questo pensiero rimane sempre un salvare lo svelato dal velamento inteso nel senso della sottrazione occultante. Tale sottrazione viene esperita nel pensiero più originariamente che in qualsiasi altro ambito.
È in particolare il pensatore che deve avere bevuto l’acqua del fiume «Noncuranza» in giusta misura. Infatti, il «vedere» inteso nel senso dello sguardo essenziale del pensiero autentico non è certo di se stesso, bensì, diversamente dal «vedere» e dall’«osservare» abituali, è minacciato da ogni parte dalla possibilità d’ingannarsi.

(Heidegger, Parmenide)

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… il velo che tutto sottrae allo sguardo, l’oscurità che tutto impedisce alla visione, l’oblio che tutto strappa alla memoria – questo è il fiume Lete che scorre nell’arida Demaison-velataPianura del Demonico: non vi cresce nessuna pianta, non vi spunta nessun «segno», nessun abbozzo di una sia pur minima «arborescenza» semantica. Niente ne «viene fuori», niente vi «sboccia» o «fiorisce». Per quanti «semi» vi getti, nessuno «fruttifica». Perciò, dov’è la λήθη, la φύσις è improduttiva – così in cielo come in terra è linguisticamente sterile.

Tutto ciò che dal cielo o dalla terra, dal sovraterreno o dal sotterraneo, entra nel «demonico» è dunque sotto la minaccia di un annichilimento. Tutto – tranne l’Umano, il linguaggio umano, a cui è data in sorte una chance di non annegare nelle acque del Lete, di non lasciarsi «velare» del tutto la «visione» del suo proprio avvenimento natio.
Tutto precipita nell’annientamento, e annientato permane. Solo l’Umano, del suo proprio «niente» può mettere in salvo qualcosa, appena un brandello di quanto gli è «svelato» nel momento trascendentale della ἀλήθεια – allorché esce, tutto grondante, dalle acque della λήθη.

Il «solito» che scende dal cielo e il «solito» che emerge dalla terra – sono egualmente condannati a rimanere «velati». A oscurarli è l’unica forza in campo: quella che fa tutto scomparire. Essa non è il niente. Il niente è semmai ciò che essa «produce»: ovvero la cancellazione di ogni traccia dell’Essere. Il niente, diceva Parmenide, è annientato dall’Essere. Perciò se la rideva di quanti, pur tra i pitagorici suoi compagni di avventura, pensavano l’Essere come ciò che sorge ex nihilo.
L’Essere è. È il «solito», così in cielo come in terra. È il «velato» che si oscura a se stesso, nel suo essere immediato. È l’«immediato» che si s-cancella a ogni segno o traccia – a ogni mediazione. L’Essere è… dimentico di se stesso – è la forza stessa del suo proprio oblio. E là dove questa forza «agisce», è quello che Platone chiama il «luogo demonico», la Pianura dell’Oscuramento.

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È nel Fiume che scorre in questa Pianura, che il «solito» Essere – come al solito – si getta via o, come dicono le favole, si dà in pasto all’Orco che tutto divora. Si dà alla sua stessa forza annientante. All’abitudine e alla ripetizione del «solito» sottrarsi a ogni «memoria». L’Essere si bagna nella sua propria perpetua dimenticanza.
Tutto si dimentica, si perde, si getta via – ma questo non è niente. È l’Essere in piena attività.

Ora, però, se questa «sottrazione» continua per cui l’Essere «si vela» a se stesso fosse «perfetta», se il Velo in nessun modo «si svelasse», va da sé che noi non ne potremmo avere nessuna «visione». Se il suo oscuramento non fosse «difettivo», non ci sarebbe niente di «in-solito», niente di «nuovo» sotto il sole – ma solo la perpetua routine inconscia dell’Essere.
Heidegger qui ci invita però a meditare, non tanto sulla quantità o sulle percentuali di questo «velamento», ma sulla Presenza in esso di una «forza che si sottrae». Essa è. Si sottrae. Leonor-Fini-cerimoniaSi getta via. Si assenta. Si svuota. Si guarda per riempirsi di vuoto.

Il «luogo», il τόπος, da cui l’Essere «passa» per venire a svuotarsi è il Paese dei demoni. È dunque sulla strana «proprietà» di questo «luogo», sulla sua «esclusività caratteristica», che Heidegger ci esorta a meditare – perché proprio là dove l’Essere scarica la sua forza a sottrarsi e svuotarsi, proprio da quelle «acque del perpetuo oblio» in cui viene solitamente a bagnarsi, può emergere l’in-solito e, con esso, venire a galla l’Umano, il propriamente umano.
Là, infatti, l’Essere si guarda nell’atto stesso di annientarsi. Esso si annienta e si guarda di uno sguardo che riempie di vuoto tutto ciò che «vede». Là l”Essere solitamente si contempla mentre come al solito si getta via.

Se questo gettarsi via fosse «perfetto», se alla solita Regola non ci fosse un’insolita eccezione, se l’abitudine, la ripetizione, la ridondanza all’opera nel «solito» non facessero mai una «piega», non c’è bisogno del filosofo per capire che non ci sarebbe nessuna lettera di nessun alfabeto umano.
La ripetizione del solito, la sottrazione che tutto sottrae allo sguardo, proprio essa «produce» linguaggio. Ciò che nella ripetizione si sottrae due volte, è il primo abbozzo di in-solito: la prima ricorrenza «semantica», il ritorno di un segno, di una traccia già cancellata che viene a cancellarsi una seconda volta, ecc…

La ridondanza, la risonanza, l’eco, il solito ritornello dell’Essere genera così le sue «strofe», le sue vie di fuga nell’In-solito, le lettere dell’alfabeto del Nuovo, del (presunto) Originale che appare o apparirebbe nelle sue «epifanie» a uno sguardo già avvezzo a «riempire» di vuoto tutto ciò che «vede».
Quando questo sguardo «vede» l’in-solito richiamo di un «vuoto» già svuotato al «vuoto» che sta svuotando un’altra volta – ecco che nel «solito» si fa avanti una «differenza» in-solita: che differisce dalle solite differenze, fino al punto di staccarsi, di mettersi in evidenza, nella solita Indifferenza, nella routine della Noncuranza, nel trantran «che non Scott-Leteprende a cuore», «che non si commuove» dinanzi a questo gettarsi via dell’Essere.

Solo l’Umano insorge dal solito «non-dove» in cui l’Essere si vela e si annienta a se stesso… auto-sacrificio «divino». Anche i Celesti si gettano nelle acque del Lete, anche le bestie, le pietre, le stelle. Tutti gli enti assecondano questo «delirio» auto-annientante dell’Essere. Affogano nella cecità alle sue teofanie. Restano sordi al suo appello. Bevono, e bevono. Bevono fino a ubriacarsi di «noncuranza». Solo l’Uomo ha «cura» dell’Essere. Anzi, solo chi si prende «cura», ascolta e vede il «sacrificio» dell’Essere, è «uomo».

Solo l’uomo «fa filosofia». Solo l’uomo ha tempo da perdere appresso agli echi e alle risonanze da cui il Ridondante gli rivolge la parola.
Solo l’uomo osa «spiare» negli squarci di «debolezza» dell’Essere, che poi sono (e non è un paradosso) gli effetti della sua sovrabbondanza, del suo spreco, del suo tesoro nascosto.
Solo l’uomo eleva a una seconda potenza la ripetizione «auto-annientante» dell’Essere. La ripetizione del solito, solo all’uomo, schiude le porte di un linguaggio costruito tutto quanto sull’articolazione delle ridondanze. Tale che queste, richiamandosi tra di loro, tessono una tela di memorie. Sia dunque reso onore ad Aracne o ad Amaterasu – alla «divina» Tessitrice delle nostre prime «sillabe espressive».

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Tutti quelli che si bagnano nel Lete devono bere, dice Platone, «una certa quantità di Noncuranza». La noncuranza è «demonica» né più né meno della Cura. Solo il Demone dell’Uomo [altri direbbero: solo l’Angelo dell’Umanità] beve una «giusta misura», una «metrica» con cui scandire intervalli, ritornelli e strofe nell’avvenimento della sua stessa Noncuranza.
Eccezione alla Regola: udite! udite! l’Uomo ha udito il richiamo di un incantesimo. Eccezione umana. Noncurante come gli dèi, indifferente come tutte le bestie – egualmente «dominato» dall’oscuramento e dall’oblio che nega l’«essere» a ogni «ente» gettandolo via da sé, l’uomo soltanto si oppone alla sua propria spensieratezza per darsi «da pensare», per costringersi (cogo) a pensare (cogito). Chi è che m’incanta?

Solo l’uomo filosofeggia. Solo chi filosofeggia è «umano». Perfino il cane che si ricorda del «padrone» grazie alla ridondanza del suo odore, fa filosofia. E facendo filosofia, quel suo «ricordo», non lo getta via, ma gli resta fedele. Così fa essere l’«ente» che noi diciamo essere il suo «padrone». Se avesse la parola, forse anche lui farebbe «essere» l’Essere, e allora sì che sarebbe «uomo».
Il cane risponde solo alla chiamata dell’«ente» che lo tiene al guinzaglio. L’uomo invece risponde all’appello, al «grido di dolore», dell’Essere. Di quanti «cadono» nelle acque del Lete, nessuno è infatti così pazzo da articolare la «metrica» di un incantesimo, da cui s’aspetta che… sia l’Essere stesso a togliersi la museruola.