La possibilità che l’Angelo, invece di indurre, possa finire sedotto, corre, come un basso continuo, oscuro e minaccioso, lungo tutto l’itinerario dell’angelologia. Fin dal suo apparire l’uomo è un bivio, un passo carraio per l’Angelo: l’ordine originario della Corte celeste ne è da subito sconvolto. Il primo Angelo ad essere creato (prima dello stesso Michele, «ut Deus»), capo dei dodici Angeli difensori del Trono, non può piegarsi – lui, fatto di fuoco – ad adorare quel grumo di polvere e terra, che il Signore ha impastato (Vangelo di Barnaba). Questa decisione, questo «maladetto superbir» lacerano per sempre la precedente armonia. Tragica appare la divisione irreversibile del coro angelico, e non tanto il destino di quel singolo principe e del suo seguito.
In Berešit Rabbâ, 8: 5, gli Angeli stanno ancora discutendo tra loro, incerti tra la misericordia che invita a creare l’uomo e la verità che vuol dissuadere dal farlo, quando il Signore decide (archetipo di Sovrano che decide sullo stato di eccezione!): «Che cosa discutete? L’uomo è già creato». Si dimostra così che nessun Angelo poteva esser davvero convinto della bontà di tale creazione. Alcuni obbediscono al nudo fatto della decisione divina, altri, invece, vi si ribellano. Nella forma che la loro ribellione assume, questi ultimi vendicano la lacerazione dell’ordito celeste (e, in fondo, dello stesso rapporto tra l’Angelo e il suo Principio ineffabile) che la creazione dell’uomo ha provocato: come tale ordito è stato «sedotto» dalla sua perfetta orbita circolare intorno al Trono, così ora l’Angelo caduto tenterà con ogni mezzo di sedurre l’uomo dal fare opera di bene e di pace: «io tutti li sedurrò – salvo quelli di loro che sono i Tuoi servi puri» (Corano, 38: 82-83), «io mi apposterò sulla Tua Via Diritta – e apparirò loro davanti e di dietro, e a destra, e a sinistra!» (Corano, 7: 16-17). Le seduzioni che operano l’Iblîs islamico, il Samael talmudico, Angelo della morte, capo dei Satanim, sono perciò riflesso e supplicium dello scandalo che l’uomo ha rappresentato per l’intera corte del Cielo. […]
L’altra grande crisi che l’Angelo subisce a causa dell’uomo, vagamente allusa in Genesi (6: 1-4), è narrata nel Libro dei Vigilanti, primo tomo di quel Libro di Enoch, che ebbe importanza enorme nella Chiesa dei primi secoli. Per unirsi alle figlie degli uomini, alcuni degli Angeli, creature del primo giorno, rinunciano al loro stato e scelgono liberamente di abbandonare il Cielo. L’Angelo si innamora della donna, si reca da lei e genera con lei Giganti che tormentano la terra e ne divorano le creature. Enoch, la cui figura apparirà angelicata negli Hekhaloth (la stessa mistica di Metatrone vi gravita attorno), è inviato da Dio presso di loro per accusarne l’empietà ed annunciarne la pena. Erano «spirituali, viventi la vita eterna che non muore mai», avevano «in cielo la loro sede», ma la bellezza delle figlie degli uomini li ha fatti cadere; per questa colpa saranno tenuti in eterno in un luogo tremendo, in una prigione di grandi colonne di fuoco, e le donne con loro.
Il racconto del Libro dei Giubilei, pur fondandosi anch’esso su Enoch, accresce il ruolo della creatura umana nell’opera di seduzione dell’Angelo. Mentre nel Libro dei Vigilanti la bellezza della donna è semplicemente veduta e l’intenzione dell’Angelo si muove da sola al male, nei Giubilei, invece, Dio manda l’Angelo sulla terra, che già conosceva il peccato, ed è sulla terra che l’Angelo infrange la propria legge. Qui è l’uomo che insegna all’Angelo a peccare. Ancor più tremenda dovrà essere la vendetta che l’Angelo caduto o i suoi demoni cercheranno di prendersi su di lui. […]
Ogni tradizione fa dunque emergere una forza gravitazionale che mette in pericolo il Giro angelico. Forza – si badi – essenzialmente diversa da quell’impulso narcisistico irrefrenabile che colpisce l’Anthropos ermetico, figlio del Padre, e lo condanna a precipitare nell’unione con la Natura (Poimandres, in Corpus Hermeticum, 1: 12-14). L’Anthropos insegue la propria immagine, che vede riflessa sull’acqua della Terra, dopo che è giunto a oltrepassare anche il cerchio della Luna; l’Angelo, invece, è raggiunto dall’onda dell’invocare dell’uomo, è afferrato e costretto oltre la propria misura da un’altra voce, da un’altra immagine.
Né quello dell’Angelo è mai sicuro viaggio di intercessione. Ogni suo viaggio «imita» sempre, in qualche modo, quelle sue archetipiche cadute. Né è mai «pura» l’invocazione dell’uomo: l’invocazione è pregna sempre del suo «sapore», seducente per l’Angelo. Da qui differenze e dissonanze, fraintendimenti ed equivoci, un gioco irrisolvibile di affinità e distanza, la possibilità di un confondersi dei ruoli, di uno scambiarsi delle maschere.
I luoghi dell’incontro con l’Angelo non appartengono mai alla perfetta cecità di Samael («Dio dei ciechi»), mai al trionfale ingresso nel regno della Luce. In questi luoghi l’uomo oscilla tra l’Angelo e la bestiale figura dei Giganti, l’Angelo tra massima vicinanza alla Presenza (Metatrone è a volte identificato con la stessa Shekînah) e le idolatriche immagini degli arconti, di cui narra la straordinaria imaginatio della Pistis Sophia e di altri testi gnostici, tra visio facialis e demone dell’aria. Un infinito numero di enti intermedi può essere chiamato a coprire queste distanze: spazio immenso e così densamente abitato da rendere affatto problematica la sua compiuta esegesi, da rendere, cioè, la figura stessa dell’Angelus Interpres un telos irraggiungibile della creazione. […]
Una delle ultime «stazioni» dell’Angelo è disegnata da Klee. Egli ne moltiplica i nomi; ne coglie ormai l’intrico con demoni ed anime; ne comprende il dramma con disperata ironia. Il nostro «sapore» ha qui ri-velato l’Angelo per sempre; invano egli cerca di districarsene. «Stazione» successiva, ma profondamente affine a quella di Rilke. L’Er-innerung ha dissipato quella distanza che risuonava, tremenda, all’inizio delle Duinesi, ed ora essa si rifrange in impercettibili differenze, in variazioni minime sul tema della creaturalità piena dell’Angelo: i nomi di Klee sono quelli dell’Angelo-solo-creatura. La nostra lotta con lui, la nostra Er-innerung l’hanno trasformato nel più intimo della creatura: i beniamini, i «viziati della creazione» (Rilke, Seconda Elegia, 10) ora sanno che cosa il loro privilegio celasse – dover attingere il cuore della creatura, doversi internare in esso.
I segni della pianta – radici, rami, linfa – avviluppano ormai l’Angelo da ogni parte. Ancora egli sembra poter custodire (cfr. la serie di disegni sul tema della Engelshut, del 1931), ma le ampie ali, il passo, gli occhi formano ormai un solo labirinto con le figure che in sé comprende. È diventato impossibile distinguere a chi appartenga quell’andare, se sia dell’Angelo quell’ala […]
Un vortice che lo costringe a fuggire dal macrospecchio angelico afferra l’Angelo di Klee. Una potenza centrifuga, che muove dal suo stesso interno, lo strappa allo «affocato amore» dei Serafini (Paradiso, 28: 45), dalla rossa intelligenza dell’Angelo ermeneuta di Sohrawardî, dal cielo blu intenso del coro cherubinico (simbolo, per Dionigi, dell’attitudine a conoscere e a contemplare) ai nostri (per citare Rilke e non Heidegger!) «chemins qui ne mènent nulle part».
Le grandi catastrofi della corte angelica hanno finito col porre ogni Angelo in crisi (disegni a matita del ’39), in dubbio (Angelus dubiosus, acquarello del ’39).
In questi fogli, l’Angelo si ritrae come un uccello notturno atterrito; troppo inesperto per poter custodire o guidare, egli cerca invano rifugio nel grembo delle sue stesse ali.
Lo sorprendiamo a sostare nell’Anticamera della schiera degli Angeli (come suona il titolo di un disegno del ’39): Angelo-aspirante o ex Angelo, che aspira a fare ritorno nel suo Paese-del-non-dove, ha il volto malinconicamente illuminato da una pallida falce di luna (Engel-Anwäter): Angelo-Pierrot. Povero è quest’Angelo, pur nella mania che ancora, a volte, improvvisamente, lo fa praedicare verbum: frammenti, tracce, scintille del Messaggio che avrebbe dovuto significare. Perciò la sua stessa forma è mancata (Unfertiger Engel): egli partecipa in toto all’incompiutezza dell’intera creazione. […]
Ma una figura, sopra tutte, sembra raccogliere, in Klee, i diversi nomi dell’Angelo: quella dell’Angelus Novus.
L’Angelo Nuovo è, per così dire, l’immagine dell’Angelo immanente all’individualità più singola e irrepetibile della creatura – anzi: l’Angelo Nuovo è il nome della forza che rende irrepetibile ed unico questo singolo esserci.
Giunti a questa «stazione», il simbolismo dell’Angelo non è più districabile da quello della creatura. Il simbolismo del passaggio, essenziale in ogni angelologia, viene qui a coincidere con la stessa icona dell’Angelo. Non più l’Angelo «passa», trasmette, intercede, ma egli stesso è passaggio: icona dello stesso in-stante. L’Angelo Nuovo, sospeso nel suo essere-istante, pazienta in esso, come il giorno del Signore, attento all’attimo irrepetibile del suo inno […] Ma proprio questo – l’inafferrabile – è ciò cui l’Angelo Nuovo fa cenno. Inafferrabile è quella singola forza che muove questo singolo, unico ente; inafferrabile è il soffio minimo di cui pure ogni voce è composta; inafferrabili gli spiriti che pure animano ogni spazio e si congiungono ad ogni elemento.
L’Angelo Nuovo è la realtà inafferrabile di cui vive l’esserci individuo. Perciò la forza individuale si dice Angelo, cioè: invisibile e inafferrabile. La caduta di quest’Angelo (che, nel disegno di Klee, ci sta dinanzi, di faccia, e porta sulla fronte i rotoli della Legge) rinnova la nostra: la ri-crea. La sua figura esprime la forza di pensare e lodare l’istante, di dipingere icone dello stesso passaggio e della stessa povertà.
Si danno autentiche icone della miseria. Occorre dire all’Angelo le cose – ma occorre dirle all’Angelo Nuovo, poiché soltanto questo, tra tutti i suoi nomi, esprime il massimamente passeggero e caduco (che è delle cose nostre, dell’esserci-qui) come il realissimo.
Meditando-interiorizzando (er-innern) la propria caducità, l’uomo incontra l’Angelo Nuovo, che ne è figura. L’Angelo è figura della forza dell’istante caduco, della forza che fa stare l’istante nella sua irrepetibile singolarità, che lo libera dal continuo della successione dei momenti.
L’Angelo Nuovo non è dunque semplicemente l’Angelo inesperto o incompiuto, poiché egli sta nel nunc del suo attimo. Nel suo spazio egli ha forse davvero assorbito quella «calda, fuggitiva onda del cuore» che noi siamo, per esprimerne, finalmente, il presente irrevocabile:
Ma questo
essere stati una volta, anche solo una volta:
essere stati terrestri, irrevocabile sembra.
(Rilke, Nona Elegia, 14-16)
Il suo inno che dura un istante, non dis-corre, non pone suono dopo suono e parola dopo parola, sulla linea-freccia dell’irreversibile consumo. L’Angelo Nuovo è infante: non pretende, non chiede, non interroga. È schuldlos [«senza colpe»]. Appare, a volte, «felice» di questa sua impotenza ad essere-mezzo, ad essere-causa, ad essere-fine. È «semplice» come il suono dei campanelli (Schellen-Engel, disegno del ’39). È il più giovane tra gli Angeli musicanti: non grava su di lui l’armonia delle sfere; ma non per questo il suo canto è meno chiaro, la sua mania meno intensa. L’Angelo Nuovo abita il giardino dell’infanzia (Engel im Kindergarten, del ’39): è qui che la nostra invocazione lo raggiunge, qui riconosce la cosa che gli lodiamo, qui lottiamo con lui.
(Cacciari, L’Angelo necessario)