SECONDO MESSAGGERO – O casa un tempo felice agli occhi della Grecia, casa del vecchio di Sidone, che disseminò per la terra il seme del serpente, il seme del drago che in terra era nato. Io non sono che un servo, ma ora piango per te.
CORO – Cosa c’è? Che novità ci porti delle Baccanti?
SECONDO MESSAGGERO – È morto il figlio di Echione, Penteo.
CORO – O Bromio, signore, ti riveli un grande dio!
SECONDO MESSAGGERO – Cosa dici? Che parole tiri fuori? Come puoi, donna, gioire per le sventure dei miei padroni?
CORO – Grido una gioia straniera con canti barbari: non tremo più, non mi fanno più paura le catene.
SECONDO MESSAGGERO – Credi Tebe così povera di uomini…?
CORO – No, non Tebe, ma Dioniso ha potere su di me.
SECONDO MESSAGGERO – Capisco, donne: ma non è bello rallegrarsi quando succede una sventura.
CORO – Raccontami, parla: di che morte è morto quell’uomo ingiusto che ingiustizie tramava?
SECONDO MESSAGGERO – Ci eravamo lasciati alle spalle le case di Tebe e avevamo già guadato le correnti dell’Asopo: ci stavamo inerpicando su per le pendici del Citerone, Penteo e io, che seguivo il mio sovrano, e davanti lo Straniero che apriva la processione. Ci fermammo dapprima in una valle verdeggiante: camminavamo piano, in silenzio, badando a non far rumore, per vedere senza essere visti.
Era una valle scoscesa, percorsa da torrenti, ombreggiata da pini. Là sedevano le Baccanti, immerse in piacevoli fatiche. Alcune incoronavano con nuovi ciuffi d’edera un tirso morto; altre – come puledre liberate dalla stretta dei gioghi policromi – cantavano, a voci alterne, un inno a Bacco.
Ma Penteo, l’infelice, non scorgeva questa massa di donne e disse: «Straniero, da qui dove siamo adesso i miei occhi non scorgono quelle false Baccanti: ma se salissi più su, dalle rocce, in cima a un abete, potrei vedere con chiarezza le loro immonde azioni».
E allora assisto a un miracolo dello Straniero: afferra il ramo, alto fino al cielo, di un abete, e lo piega, lo piega, e lo piega sino a fargli toccare la nera terra; si curvò come un arco, come il legno che il tornio ruotando veloce foggia a forma di ruota. Lo Straniero con le mani tirò giù sino al suolo quel tronco montano, facendo cosa che non è da mortale. Poi sistemò Penteo sui rami dell’abete, e lentamente lasciò andare il tronco, dritto, lassù, ma senza scosse, per non disarcionare Penteo: si stagliò alto contro il cielo l’albero, col mio padrone in cima.
Allora sì che le vide, le Baccanti, o piuttosto, furono esse a vedere lui. Quando ormai lo si poteva distinguere lassù, lo Straniero era scomparso, e subito nell’etere echeggiò una voce, la voce – credo – di Dioniso: «Giovani donne, ecco: vi ho portato l’uomo che si fa beffe di voi, di me e del mio culto: orsù, vendicatevi!».
E mentre risuonavano queste parole, tra cielo e terra sfolgorò una luce di fuoco, un bagliore divino: l’aria si fece silenziosa, tacquero nel fitto bosco le foglie, non si udiva un grido di animale.
Alle orecchie delle Baccanti quella voce era suonata oscura: si drizzarono in piedi, e si guardarono attorno perplesse. Il dio allora le chiamò una seconda volta; non appena intesero chiaramente l’ordine di Bacco, le figlie di Cadmo come colombe volarono rapide, accorrendo eccitate al richiamo: Agave, la madre, con le sue sorelle di sangue, e le Baccanti tutte: balzarono attraverso la valle, tra torrenti e dirupi, invasate dallo spirito del dio.
Non appena scorsero il mio padrone appollaiato sull’abete, cominciarono a gettargli contro dei sassi con estrema violenza e, salite su una rupe, una sorta di torre d’assedio, di lassù lo tempestavano con rami d’abete. Altre, invece, lanciavano tirsi per l’aria contro quel misero bersaglio di Penteo. Ma non riuscivano a colpirlo. L’infelice, infatti, era fuori della portata dei loro tiri, se pur prigioniero della sua impotenza. Alla fine, schiantando come folgori dei rami di quercia, cercarono di svellere l’abete dalle radici con quelle leve che non erano di ferro. Ma, per quanto si sforzassero, non ci riuscivano.
Disse allora Agave: «Forza, disponetevi tutte in cerchio e afferrate il tronco, Menadi: catturiamo la belva arrampicata lassù, perché non vada a svelare in giro le danze segrete del dio».
E quelle mille mani tesero insieme a ghermire l’abete, e lo sradicarono dal terreno: Penteo sbalzato dal ramo precipita al suolo dall’alto tra mille lamenti: aveva capito, ormai, di essere vicino alla fine.
Per prima gli piombò addosso la madre, come sacerdotessa fu lei a dare inizio allo scempio. Penteo si strappò la mitra dai capelli, perché la povera Agave riconoscesse suo figlio, non lo uccidesse. Toccandole le guance, la supplicava: «Madre, sono io, tuo figlio Penteo, il figlio che hai partorito nella casa di Echione: abbi pietà, madre, non uccidere tuo figlio per punire le mie colpe».
Ma quella aveva la bava alla bocca e roteava le pupille stravolte, incapace di pensare i pensieri che avrebbe dovuto pensare, era posseduta da Bacco, e il figlio non la convinse. Afferratogli il braccio sinistro e, facendo leva col piede sui fianchi di quell’infelice, gli strappò una spalla: ma non era sua la forza, era il dio che le infondeva nelle mani tutto quel vigore. Ino, dal lato opposto, completava l’opera infausta, dilaniando le carni, mentre Autonoe e tutta la folla delle Baccanti gli si buttavano addosso.
Era tutto un unico grido: l’urlo di dolore che lui cacciò fino all’ultimo respiro, si confuse coi loro canti ebbri di esultanza. Ed ecco: una brandiva un braccio come trofeo, un’altra un piede ancora stretto nel calzare. Le costole nude erano state spolpate, a strappi: con le mani insanguinate, le Baccanti giocavano a palla con le carni di Penteo.
Ora, giace il suo corpo, disseminato qua e là: un pezzo sotto una scarpata, un altro nel fitto profondo del bosco: non sarà facile rintracciarli. La misera testa la tiene la madre tra le mani: l’ha conficcata sulla punta di un tirso, e la porta in giro giù per il Citerone, come fosse la testa di un leone di montagna. Ha lasciato le sorelle a danzare con le altre Menadi, e ora s’avanza, fiera della sua caccia infausta, verso le porte della città, invocando Bacco, suo compagno di caccia, compagno nello stanare la preda, il dio della vittoria, a cui porta in dono un trofeo fatto di lacrime.
Ma io mi allontano da questa sventura prima che Agave arrivi alla reggia. Avere senno, venerare gli dei, ecco la cosa più bella: la sapienza, credo, più alta e utile per quanti di noi, condannati a morire, sanno farne tesoro.
(Euripide, Baccanti, 1024-1152)
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… e mentre risuonavano queste parole, tra cielo e terra sfolgorò una luce di fuoco, un bagliore divino.
(Baccanti, 1082-3)
Il «testo», qualcuno l’ha già detto e molti l’hanno perfino scritto! – sì, il testo è il corpo doloroso da smembrare. E una volta smembrato, Penteo è da disseminare. Perché da un suo frammento risuoni tra cielo e terra, unica terribile chance di ricongiunzione, il grido di dolore del seme originario – il grido che in illo tempore lacerò in due Dioniso, il Corpo Glorioso del bambino.
È quello che prova a fare Euripide del «testo» della Tradizione. Lo smembra, lo fa a pezzi, in tanti pezzi, fino a trovare quello che risponde testualmente al suo bisogno di una via di fuga dal racconto tradizionale e dalla sua interpretazione corrente. Fino cioè a trovare nel testo stesso del Racconto un pre-testo per uscire dal Racconto. O anche: lo spunto per un «fuori testo». Non una nota a piè di pagina della letteratura «dionisiaca», ma piuttosto il gusto «dionisiaco» di evadere da ogni pagina letteraria – di uscire dalla pazziella del Libro per rientrare nella pazzia linguistica che l’ha generata.
Proviamo a seguire Euripide.
Scomparso Dioniso – ci dice – venuto a mancare il Corpo Glorioso, una volta estratto il seme alla sua «Terra Madre» [Semele], e una volta disseminato a caso nella Terra dei Nomi [Zeus, la «coscia del Toro»], non resta che una voce ad attendere che esso (!) fecondi. Resta la voce del Grido Infantile – la Sua voce destinata a disseminare l’orfano (il corpo nuovo che si ritrova a essere) in quella che sarà per lui Terra Straniera, Tebe dalle Sette Porte, le Sette Stelle dell’Orsa, questo Cielo, questo Libro, questo Linguaggio, questo Teatro e… queste Facoltà del nuovo corpo, questi nuovi Organi, queste Baccanti «fasulle» quali sono le «sorelle» di Semele: Agave, Ino e Autonoe. Quelle che non impazzirono di amore per la Luce senz’ombra dei loro desideri, e perciò sono tuttora «assetate di crudeltà».
Riproviamo.
Scomparso Dioniso… si udì una voce e, mentre la voce lanciava il suo «grido» barbaro [balbettato, analfabeta], d’un tratto un bagliore di fuoco illuminò la terra e il cielo. Letteralmente: sprizzò la luce di un fuoco σεμνός, «notevole», o ancor più alla lettera: di un fuoco «semantico», creativo cioè di «segni». Fuoco di un nuovo linguaggio immaginale, di un’immaginazione accesa dalla voce in uno dei suoi picchi d’intensità, in uno degli strilli eccitati del suo «io voglio!».
Dalla voce si sprigionò dunque una potenza di luce. La voce scaricò sulle immagini (e sul loro linguaggio duale) la sua potenza (di Terza Persona), le investì del suo grido dopo averle partorite una seconda volta dal suo dolore, e disse loro: giovani donne, immagini nuove, fresche, recenti, forme presenti – orsù, vendicatevi di questo dolore «miscredente» che non si dà pace, e che insiste a voler vedere il segreto di Dioniso, invece di dare «ascolto» alla Sua voce. Perché, scomparso Dioniso si udì solo una voce – altro di Lui non rimase. Rimase solo una voce che «maledisse» le immagini, facendone «segni» che prima non erano.
Non c’era bisogno di aprire questa parentesi nel racconto. Eppure, Euripide lo fa. Lo fa ogni volta che lo prende la passione dionisiaca di fare a pezzi un pezzo del Racconto tradizionale. Per seguirlo, è perciò necessario seguirlo in queste sue escursioni fuori testo. Perché, lui lo sa, è fuori dal testo, solo là, che il devoto può vivere Dioniso, rivivendo la propria «esperienza» infantile della «scomparsa» del suo Corpo senz’organi.
Se apre parentesi, è per farci accomodare, di straforo, il suo Dioniso rivissuto. Perché Dioniso è avvenimento… non narrazione, non spettacolo, se non agli occhi di chi, nel suo proprio corpo doloroso, nel dolore della carne dei suoi organi, pretende di vedere ciò che nessun teatro può mai mettere in scena.
Dioniso può stare, e di traverso, solo in un buco del Racconto – solo in una metafora che alluda al Buco Nero del linguaggio. Solo in quell’«è a me che è successo» che è troppo «proprio» per lasciarsi espropriare dalle parole, e che paradossalmente più volentieri si lascia sedurre dalle immagini che lo dissemineranno in tante fantasie quanti sono i pezzi del suo corpo di carne.
Dioniso non è un dio del palcoscenico – se non agli occhi di chi, come Penteo, vuole vedere i «segreti» del dio. Lui invece è nel «fuori testo», fuori dalla grafia, alluso senza essere scritto – Significante non soggetto a nessuna immagine (perciò, se lo catturano, le immagini si vendicheranno) – è là che Euripide sottintende: è successo a me. Dioniso non è un dio soggetto alla capacità del mio linguaggio, poetico o non, di rappresentarlo. È il dio che mi è avvenuto, e che avvenendomi mi ha dato (anche) «da teatrare». È la voce che ha scatenato e sostenuto le immagini della mia presente messinscena: quella della Vendetta.
Dei simulacri sulle immagini, delle copie sui modelli, delle trascrizioni e delle traduzioni sugli originali, delle mediazioni sul realissimo immediato – la Vendetta succede in una tale confusa successione e sovrapposizione continua di segni che si richiamano all’infinito tra loro, che più non se ne riesce a intravedere una gerarchia, anzi saggiamente ci si è rassegnati a dubitarne, e fino al punto da scuotere ogni teologia, e come a destare la metafisica dal suo letargo millenario, si odono perfino in giro sempre più voci dionisiache che strillano ciascuno il suo fuori testo: sta’ attento, Penteo, ché non ci sono mai stati né modelli né originali… c’è stato solo l’effetto (e il contro-effetto d’eco) di una voce. Era il grido di Dioniso… dello Straniero disseminato nella Terra del Racconto.