Negli occhi opachi di Tiresia, nell’oscuro nulla del suo sguardo, nell’alone nero che essi proiettano sul mondo, si specchia il sangue nero e raggrumato del sacrificio, l’ombra di terribili e sconvolgenti accadimenti. Ifigenia, Edipo, Penteo, Narciso…
È Tiresia, infatti, che annuncia il destino di Narciso: il giovane sarebbe vissuto fino a tarda età «si se non noverit», se egli non avrà conosciuto se stesso, e dunque se, paradossalmente, non avrà obbedito all’imperativo del dio del vaticinio, che portava iscritto sul frontone del suo tempio la parola contraria e terribile: «Conosci te stesso!».
Narciso sfugge ad un primo pericolo, all’amore di Eco, che forse l’avrebbe irretito nel destino, raccontato in un mito parallelo, quello di Ermafrodito che, mescolandosi alle acque della fonte della ninfa Salmakis, scopre in sé una nuova natura, strana, mista, paurosa.
Narciso sfugge alle seduzioni della ninfa, che lo chiama struggente con la sua stessa voce e, alla fine, si abbandona vicino a delle acque, desideroso di acquietare la sua sete. E lì egli è afferrato da ciò che da lui fuggiva, dall’immagine di sé, forma, «speranza senza corpo». Egli dapprima stupisce. È invaso da uno stupefatto furore. Cerca di ingannarsi affermando che non sa quel che vede, ma alla fine deve cedere all’evidenza. «Iste ego sum! sensi; nec me mea fallit imago / quod cupio mecum est»: «Questo sono io. Lo avvertii. La mia immagine non m’inganna. Ciò che desidero è presso di me». Ora solo un velo d’acqua separa Narciso da sé (exigua prohibemur aqua), ed è il desiderio lacerante di staccarsi dal proprio corpo.
L’acqua s’intorbida per le lacrime. L’ultima invocazione di Narciso è che essa torni limpida, che possa dunque offrire ancora una volta alimento alla sua strana follia. E infine la morte chiuse gli occhi che miravano la forma che lo dominava. Rimane la voce di Eco, mentre la fama di Tiresia si sparge meritatamente per l’Ellade intera (Ovidio, Metamorfosi).
Le fonti del mito, così come esso è conosciuto, sono tarde. Ma del mito possiamo dire quello che Corbin afferma della «topica dell’immaginazione»: in esso i «nodi» valgono da «intersegni», che ci permettono di riconoscere «costellazioni» più o meno stabili in una moltitudine di eventi. Il mito di Narciso è anch’esso una «costellazione di eventi», e attraverso i suoi nodi è possibile individuare alcune «linee di forza spirituale», che risalgono al di là della sua comparsa storica, e che si prolungano ai nostri giorni.
È Rohde che, con intuizione geniale, parla di un «Narciso orfico», connettendo questo mito a quello di Dioniso e dando così ragione a una affermazione enigmatica di Marsilio Ficino: «crudelissimum apud Orpheum Narcissi fatum».
Il corpo è prigione dell’anima, la sua tomba. La liberazione dal corpo è la liberazione dell’anima. Dioniso Zagreo è attirato dai Titani con l’inganno dei giocattoli, che rappresentano le cose del mondo, e di uno specchio. E mentre egli fissa la sua immagine avviene l’indicibile sacrificio. Il Dio è smembrato e mangiato. Il suo corpo è dunque distrutto e il dio è pronto alla serie infinita delle sue reincarnazioni.
Lo specchio è centrale in tutta la speculazione orfica e nella tradizione neoplatonica, a partire da Plotino (Enneadi, 4: 3.12). Infatti, come dice Proclo, «lo specchio è stato tramandato anche dai teologi come simbolo dell’adeguatezza alla perfezione intuitiva dell’universo, e il dio, guardandosi dentro e contemplando la sua immagine, si getta a cercare tutta la pluralità». E Nonno: «Con spada orrenda i Titani violarono Dioniso, che guardava fissamente l’immagine mendace dello specchio straniante» (Orphica, B 40a).
I due frammenti sono solo apparentemente in contraddizione. E il mito stesso è lo specchio che contiene e riflette questa polarità. Dioniso nello specchio scopre sé, e dunque la «vera» pluralità del mondo, ma anche il mondo apparente e ingannevole verso cui viene straniato dalla scoperta della sua duplicità. E Zagreo, «il secondo Narciso» (Rohde), conosce dunque lo stesso furore che aveva condotto Narciso alla consunzione e alla morte.
D’altronde la poesia orfica è poesia dell’ambiguo. È in essa che emerge la divinità di Fanes, dio maschio e femmina, dio della luce e della rivelazione che sta «nel santuario della notte», nel mezzo del quale è la notte stessa, «che profetizza per gli dèi» (Orphica, B 70). E non appartiene forse ad Orfeo stesso l’esperienza dell’ombra vana dello specchio? A Orfeo che è ingannato dal «fantasma di una donna» sulle soglie dell’Ade?
Tiresia, veggenza e cecità. Fanes, luce e ombra. Lo specchio, la trasparenza del sapere e la superficie opaca che solo riflette «spem sine corpore». Orfeo sulle porte dell’Ade, la vita e la morte. «Chi sa se il vivere non sia morire e il morire invece vivere?» (Orphica, A 23).
Questi sono alcuni dei nodi dell’«intersegno» del mito di Narciso. A ribadirli esistono altri segni, altre tracce. Secondo la tradizione orfica e secondo gli Inni omerici, che su questo punto convergono, Persefone è rapita da qualcosa di altrettanto incorporeo dell’immagine: dal profumo di narciso. È presa da stupore, avvinta (Narciso, narke, stupore) dal profumo che s’addensa, e mentre vuole strappare il fiore, «proprio allora si dice che la terra si spalancasse» (Orphica, B 21).
Le due tradizioni attestano l’antichità del mito, anche se esso prenderà corpo in una versione diversa, e il legame di questo mito con due elementi che tornano costantemente: l’inganno dei sensi (immagine, profumo…) e la morte.
La divinazione è legata alla divinità solare di Apollo. Ma Apollo, il Lossia [l’Obliquo, l’Ambiguo], come è costantemente definito da Euripide, è ambiguo, obliquo. Non è nella luce e nella trasparenza che ha luogo il vaticinio, ma immersi nell’opaco fumo del tripode, attraverso il quale si intravede la pietra nera, oscurata dal sangue dei sacrifici. Ed è l’ultimo difensore, forse, della grandezza dell’oracolo, Plutarco, che afferma che il dio si presenta talvolta come unico, e «altre volte si moltiplica in ogni sorta di forme, di proprietà, di stati». Apollo, allora, rivela «i simboli della lacerazione e dello smembramento» e «con i nomi di Dioniso, Zagreo» apre «al regno della parvenza oscura e instabile», alla mutazione, alla trasformazione, alla metamorfosi. E se noi cerchiamo di comprendere questo regno delle ombre con il pensiero «è come l’acqua premuta con forza dalla mano. Mentre si cerca di trattenerla fugge via… e così la ragione, quando cerca una assoluta chiarezza in ciascuna delle cose soggette ad alterazioni e mutamenti, si inganna volgendosi ora verso la nascita ora verso la morte di esse, senza riuscire ad afferrare nulla di stabile né di realmente esistente» (Plutarco, Opere morali).
«Se si conoscerà» perirà. Il vaticinio è confermato dal tipo di morte e dalla stranezza della follia che la precede (letique genus novitasque furoris, Ovidio, Metamorfosi). Conoscere se stessi è dunque entrare nella follia di una «parvenza oscura e instabile», nelle mutazioni del mondo, nel mutamento di sé, lo sguardo fisso su una figura che si consuma come la brina avvolta nei raggi del sole, come la cera alla calda luminosità della fiamma. E nella mutazione, la morte: nec corpus remanet. E non rimane nemmeno il corpo.
E qui si potrebbe aprire la lunga fila, che ossessiona Euripide, delle vittime della trasparenza: di coloro che hanno cercato presso il dio la veggenza e hanno trovato invece l’oscuro regno delle tenebre.
«Molte vie percorrono gli uomini», dice Novalis, attraverso un mondo variegato di figure. Ma alla fine del viaggio iniziatico scopriremo che la natura si espande dentro di noi, come in un centro armonico del tutto. E il discepolo di Sais che giunge davanti alla dea e solleva il velo che la copre, l’esigua opacità che ci separa dalla verità, «vede, miracolo dei miracoli, se stesso».
Ma ancora una volta il mito rivela la sua duplicità. Accanto alla lettura neoplatonica di Novalis abbiamo, con L’immagine velata di Sais di Schiller, l’altra faccia del mito. Il giovane spinto dalla sete di sapere, e dunque incolpevole, scopre la dea, si specchia in essa e rimane folgorato dalla visione sacrale. Visione di sé? Visione del corpo della dea, come Atteone?
Bloch, commentando il testo schilleriano, parla dell’«impulso della luce», che porta il discepolo «all’apparizione angosciata del suo doppio», all’abisso da cui guarda la testa della Gorgone. Dunque visione di sé e del corpo sacro. Lo specchio e il sesso divino. Come Dioniso, il discepolo di Sais è avvinto e folgorato dal «giocattolo rotante e rombante, lo specchio e il vello» (Orphica, B 37). E dunque, come afferma questo testo di Clemente Alessandrino, dall’insistente ronzio del mondo, dall’incessante movimento e dall’incessante rumore, dallo specchio e dal doppio – la pluralità di sé –, e infine dal vello, l’esiguo velo che copre l’ultima nudità.
Iside, l’Afrodite egizia. Afrodite: «il nome della dea – dice Euripide (Troiane, 989-990) – corrisponde a quello di follia» – novitas furoris. Aphrodite-Aphrosine. E Afrodite è raffigurata in una statuetta del VI sec. (Monaco, Museum der Staatlichen Antikensammlungen), con un grande specchio bronzeo, che essa sostiene sopra la testa con l’aiuto di due sfingi. L’amore: specchio ed enigma.

E ancora un elemento: l’acqua. I tritoni e i mostri di Böcklin, i centauri che corrono sulla spiaggia di Klinger, e sempre di Klinger la fanciulla distesa di Sulla spiaggia, dopo essere emersa dalle acque, dopo aver scoperto ciò che ora, nella memoria, arrossa il suo viso.
L’acqua, il suo movimento e la medusa. Nessuno, dice Valéry, ha saputo «esprimere l’offerta imperiosa del sesso, l’appello mimico del bisogno di prostituzione come quella grande medusa, che a scatti ondulatori del suo flutto di gonne a festoni… si trasforma nel sogno di Eros; e all’improvviso, rimboccando tutti i suoi falpalà vibratili, le sue vesti di labbra troncate, si rovescia e si espone, furiosamente aperta».
Sentimenti, desideri, moti dell’animo sono nebbia, nient’altro che nebbia. Questa è la risposta di Mefistofele a Faust, che vuole vincere questa opacità perché, se illimitato è il sentire, illimitata dev’essere anche la capacità di sapere, la penetrazione dello sguardo umano nel tutto.
Ma questo sguardo frantuma, riduce tutto a un desolato e smisurato deserto. Questo sguardo uccide, e Donna Anna è la vittima sacrificale di un possesso impossibile. E Don Giovanni, che Grabbe ha posto idealmente accanto a Faust, vittime e complici di uno stesso destino? Don Giovanni si specchia nello specchio di Afrodite, nei mille sguardi delle donne, nelle mille voci che rispondono alla sua voce, riportandogli frammenti della sua immagine, come le onde dello stagno che rifrangono e ricompongono i tratti che lì si riflettono. Don Giovanni seduce facendosi specchio della donna (così Johannes specchio, in Enten-Eller, della virtù della donna). Ma la donna si fa specchio di Don Giovanni che cerca anch’egli, per quella via, la conoscenza di sé: quasi una risposta, nell’incertezza del mondo e dei casi, ad un imperativo che presenta una forza e un’aura quasi upanisadica: «Ciò che sono rimango. Don Giovanni se non è se stesso non è nulla».
E alla fine Don Giovanni precipita nell’abisso infernale. La conoscenza di sé, il sapere sé come la via della morte.
Sul tempio islamico sta scritto «chi conosce se stesso è deificato». «Conosci te stesso» è il detto di Delfi. «Non conoscere le cose nascoste», noli altum sapere, dice S. Paolo. Sono i contraddittori imperativi del sacro. Adamo scopre la nudità vergognosa del corpo per aver voluto sapere d’un tratto quello che avrebbe dovuto conoscere attraverso la faticosa interpretazione dei simboli, che dicono e al contempo proteggono dal sapere.
Il mito cruento di Zagreo si presenta nella versione tarda, tragica ma incruenta, di Narciso. L’acqua e la consunzione del corpo (nec corpus remanet) quasi a cancellare la memoria del sangue, che è però evocato dagli occhi ciechi di Tiresia. Ma c’è un altro elemento, oltre a questo tentativo di esorcizzare il sangue, nella nuova versione mitica. C’è la sopravvivenza di Eco, nella voce, in cui si riflette, come una risonanza lontana, ancora, «il chiaro dissolto Narciso».
Chi ascolta la propria voce che ritorna nelle parole di Eco, ascolta, senza saperlo, Narciso: la tensione verso di sé. Così nella propria immagine, riflessa nello specchio, nella propria immagine che permane per un attimo nello specchio, si insinuano a volte i tratti di Narciso.
(Rella, Percorsi)
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Chi ascolta la propria voce che ritorna nelle parole di Eco, fa quello a cui invece Narciso si rifiuta.
La voce, non solo quella di Narciso, ma qualunque voce, è destinata – inviata cioè all’Altro, verso un Dove, alla volta magari di un Buco Nero. La voce è «destinale», dice Derrida. Anche in assenza di un destinatario, essa si dà sempre una destinazione. Questo è il suo destino. I latini lo chiamavano fatum – letteralmente: il «detto». Ciò che è stato detto, è stato destinato, inviato a…
Si è infans fino al giorno, all’ora e al momento in cui un fatum, un «detto» o, più propriamente, un «sillabato», non ritorna all’emissario della voce. Fino a quando la «lettera», dopo aver vagato per il mondo o, forse, giaciuto in un qualche ufficio postale, il postino non la riporta al mittente.
Ma bisogna che questi, il mittente, il «vociante», l’accetti – che riconosca come sua la «scrittura» della lettera. Finché la rifiuta, ed è quello che fa Narciso, non «conosce se stesso», non nel modo del linguaggio. Ha di sé solo una «conoscenza» speculare (io-tu), e non raggiunge il punto trascendentale in cui abdicando a questo linguaggio duale tra lui e la sua immagine lascia parlare la Langue e il suo Racconto – Egli, il Terzo.
Perciò chi ascolta l’eco della propria voce – ascolta sì il proprio Narciso, ma lo ascolta (anziché insistere a cercarlo allo specchio) proprio di quell’ascolto che Narciso non ha dato a Eco, per pro-gettarsi invece nel culto della sua sola immagine.
Chi ascolta l’eco della propria voce «guarisce» del narcisismo proprio per ammalarsi del narcisismo altrui. Chi nel ritorno d’eco della propria voce fa quel che Narciso si rifiuta di fare, cioè si ascolta e si risente, conosce se stesso nel modo linguistico di Apollo (Freud lo chiama «narcisismo secondario»): egli ama se stesso credendo di amare l’altro, parla a se stesso convinto di parlare all’altro, e dunque conosce se stesso solo conoscendo l’altro. Quell’altro che lui stesso è diventato rinascendo dall’Utero (Delfi questo significa) della Langue (ce l’hai presente la «matrigna» delle favole?).
Non a caso il Racconto dice che a Delfi Apollo fa i conti con Dioniso, e con lui condivide l’Oracolo. Come lui, Apollo a Delfi, rinascendo, diventa ambiguo, obliquo, traverso. Narcisismo rifatto, truccato, imbellettato… per poter essere «profetizzato».
Il primo Narciso – quello che ama solo la sua immagine, e che solo alla sua immagine rivolge la voce – quello là è morto.
Narciso è morto, eppure Narciso è risorto. Non è più Narciso, ma è pur sempre Narciso. È morto ma è nato una seconda volta nel modo ambiguo del linguaggio che si spartisce e si con-tende, si contorce in una doppia opposta e simultanea tensione, tra l’apollineo e il dionisiaco, per dirla con Nietzsche. Tra l’Apollo, non più però l’ingenuo che abbocca alla seduzione del suo proprio volto, ma quello, il «nuovo», che se pure ancora si cerca nel Volto altrui, intanto però «suona» (la lira) e «parla» (dall’Oracolo) – e il Dioniso, non più il dio «tebano» barbaro e selvaggio, ma il Personaggio del Teatro «ateniese», l’«ultimo» Dioniso, il più recente, l’appena nato a un compromesso tra la sua selvaggia analfabetica follia e la follia «democratica» di una Città e del suo linguaggio artistico.
Narciso è morto – perché dal profumo dei suoi petali nascesse ad arte, grazie alla pazziella dell’Arte del linguaggio, l’«Apollo e/o Dioniso» di Delfi («l’Utero» della seconda nascita, qui in luogo della «coscia di Zeus» o del «ginocchio» di Kmúkamch).
Aveva tre, o al massimo quattro anni, quando è «morto». Sennonché la musica, la poesia, l’incantesimo e il teatro (strumenti e generi dell’Arte) gli hanno però dato una seconda vita. Evoè… evoè… E U O E… basta che una «vocale» ritorni, basta una piccolissima ridondanza per incantare il bambino piagnucolone: si scelga pure la «lettera» che vuole, e la invii pure a chi desidera. Il desiderio, la Langue non fa che rinviarlo in eterno. Il desiderio che con Narciso è morto e sepolto, risorge come la fenice dalle sue ceneri. Risorge nell’Ambiguo «dire» dell’Oracolo apollineo-dionisiaco, nel «dire» che è risonanza e ridondanza del già «detto», risorge camuffato nella fabula che del fatum è soltanto una ripetizione possibile – tra le infinite che l’Arte del Linguaggio Umano può estrarre dalla Necessità del suo «buco nero».
Ma non è il caso di tirarla ancora per le lunghe. Non è il caso, e Ovidio ci mette in guardia, di sprecare altro tempo a dipanare la matassa delle metamorfosi che dal «defunto» portano al «redivivo» Narciso, deificato dai Greci nel loro delfico «Apollo e/o Dioniso».
Ovidio non poteva dircelo più chiaramente: il reale «autore» di tutte le metempsicosi per cui ci trasformiamo – se non l’ideatore, quantomeno colui che in battere e/o in levare porta il tempo di tutte le metamorfosi di cui siamo capaci… è il vate Tiresia, è la voce di un cieco che invasato dalla sua cecità ha avuto in illo tempore il «privilegio» di fare da arbitro in una disputa «sessuale» tra Giove e Giunone, insomma in un pour parler tra i Celesti, eccolo il «trascendentale», che grazie a lui e alla sua cecità viene assunto a Prefazione del linguaggio umano.
Perché tutto comincia da lì. Anche nei racconti delle Pianure nordamericane si raccontava di un «Prologo in cielo», di una disputa tra gli astri (Sole e Luna) smaniosi di fare all’amore con le femmine umane. Chi l’ha detto che gli Angeli non hanno sesso? o che i pianeti non c’entrano con la nostra «libido»? come? non sono loro a spargere la voce che altro modo non c’è di ricomporre la congiunzione di cielo e terra? Belli a vedersi, quanto terribili nella parola delle loro sentenze di sesso e di morte. Sono loro, astri angeli dèi, i «demoni» antichi, loro le Potenze invisibili nascoste nel linguaggio – ma sì, le Potenze inconsce che ci padroneggiano solo dacché parliamo.
E dal momento che «parliamo» siamo chiamati in causa dalla Terza Persona «pronominale», chiamati ad assentarci al linguaggio immaginale «io-tu» per presentarci a Lui o Lei – lasciando che sia Lui o Lei (il Nome del Padre o la Madrelingua) a fare così di noi, linguisticamente, gli «oggetti» dei suoi desideri, lasciandoci possedere, invasare, illuminare o trascinare nel suo inferno, lungo la via di fuga che il suo linguaggio ci destina.
Sentirsi destinatari di una voce errante tra i Celesti e i Terricoli – è il passo obbligato, la soglia tra il «defunto» e il «redivivo» Narciso. Senza la voce di un cieco come Tiresia, senza la risonanza di un ricordo «senza corpo», di un nome «senza significato e senza concetto», senza quell’orecchiabile non si entra nella Pazziella umana.
Che se poi valga o meno la pena di «diventare uomini», è anche questa una questione peregrina. La realtà è che parliamo, e l’ultimo orizzonte che il nostro linguaggio può «dire», è il buco nero del suo «sé». Quel buco nero di cui non più la pazziella, ma solo sua sorella la Pazzia, quella degli Angeli ribelli, ma sì per es. la «perversione» linguistica di un Don Giovanni che si prostituisce a tutti i desideri che lo «cogitano», può tentare di «dire».
Non dire, perché il buco nero, nessuna arte, neanche la più artistica, e nemmeno la più ribelle, lo vede, perché se lo nasconde nelle pieghe della sua stessa rappresentazione. Ma tentare di dire, sognare a occhi chiusi di riuscire un giorno finalmente a dire – questo sì che è pazzia. La pazzia che musici e poeti invidiano ai pazzi. La pazzia, non della falena che si getta nella luce di cui è mortalmente innamorata, ma della lingua che si getta all’indietro nelle vive disputazioni del suo stesso oscuro, ambiguo, prologo celeste.