«Quando verrà la morte, non mi vedrà.
«Così non saprà mai se era lei in ritardo sull’ora o io in anticipo sul mio destino», scriveva un saggio.
E aggiungeva, rivolto ai discepoli:
«Solo voi mi troverete, poiché le mie radici sono nel vostro libro».
«Il libro non appartiene a nessuno – gli rispose un altro saggio. – Appartiene solo ai vocaboli dai quali via via si libera. E di questi che cosa ne è, quando sono restituiti alla loro erranza? La nostra indigenza, come la loro, è infinita.
«Un giorno mi resi conto che nessun libro fu davvero mio, poiché si trattava sempre, ahimé, del libro incompiuto che le parole mi strappavano senza alcun rimorso».
E aggiungeva: «Dio ha mentito. Non ci ha mai trasmesso il Libro. Ce ne ha solo lasciato il gusto».
(Jabès, Il libro dell’ospitalità)
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Per Jabès, il libro non è nel mondo, bensì il mondo nel libro. «Il mondo esiste perché esiste il libro… il libro è l’opera d’arte del libro… il libro moltiplica il libro». Essere significa essere-nel-libro, anche se l’essere non è quella natura creata che il medioevo spesso chiama il Libro di Dio. Dio stesso nasce nel libro che collega così l’uomo a Dio e l’essere a sé.
«Se Dio esiste, è soltanto perché Egli sta nel libro». Jabès sa che il libro è investito e minacciato, che la sua «risposta è ancora una interrogazione, che quella dimora è senza fine minacciata». Ma il libro non può essere minacciato se non dal nulla, dal non-essere, dal non-senso. Se la minaccia giungesse ad essere, essa sarebbe – come in questo caso – confessata, detta, addomesticata. Farebbe parte della casa e del libro. […]
Per Jabès, l’essere è una Grammatica, e il mondo per intero è un crittogramma da costituire o da ricostituire per mezzo di un’iscrizione o di una decifrazione poetiche; il libro è originario, e ogni cosa sta al libro prima di essere e per venire al mondo, che non può nascere se non approdando al libro, non può morire se non arenandosi in vista del libro. La sponda impassibile del libro è fin dal principio.
Ma se il Libro fosse solo, in tutti i sensi dell’espressione, un’epoca dell’essere (epoca morente che permetterebbe d’intravedere l’Essere nei bagliori della sua agonia o nell’allentarsi della sua stretta, e che moltiplicherebbe, come un’ultima malattia, come l’ipermnesia loquace e ostinata di certi moribondi, i libri sopra il libro morto)? Se la forma del libro non dovesse più essere il modello del senso? Se l’essere fosse in modo radicale fuori del libro, fuori della sua lettera? Di una trascendenza che non si lasciasse più toccare dall’iscrizione e dalla significazione, che non si adagiasse nella pagina e che anzi si levasse prima di quella? Se l’essere si perdesse nei libri? Se i libri fossero la dissipazione dell’essere? Se l’essere-mondo, la sua presenza, il suo senso d’essere, si rivelasse soltanto nell’illeggibilità, in una illeggibilità radicale che non fosse complice di una leggibilità perduta o cercata, di una pagina ancora intonsa in qualche enciclopedia divina? Se il mondo non fosse neppure, come dice Jaspers, il «manoscritto di un altro», ma fin dal principio l’altro di ogni manoscritto possibile? E se fosse sempre troppo presto per dire che «la rivolta è una pagina sgualcita nel cestino della carta»…? Sempre troppo presto per dire che il male è solamente indecifrabile, a causa di un lapsus calami o di una cacografia di Dio e che «la nostra vita, nel Male, ha la forma di una lettera rovesciata, esclusa, in quanto illeggibile dal Libro dei Libri? E se la Morte non si lasciasse inscrivere, neppure essa nel libro in cui il Dio degli Ebrei inscrive tutti gli anni solo il nome di coloro che potranno vivere? E se l’anima morta fosse qualcosa di più o qualcosa di meno, un’altra cosa in ogni caso, della lettera morta che dovrebbe essere sempre in grado di essere risvegliata? Se il libro non fosse che la dimenticanza più certa della morte? L’occultamento di una scrittura più vecchia o più giovane, di una età diversa dal libro, dalla grammatica e da tutto quello che in esso si annuncia sotto il nome di senso dell’essere? di una scrittura ancora illeggibile?
L’illeggibilità radicale di cui parliamo non è l’irrazionalità, il non-senso disperante, tutto quello che può suscitare l’angoscia di fronte all’incomprensibile e all’illogico. Una simile interpretazione – o determinazione – dell’illeggibile fa già parte del libro, è già coinvolta nella possibilità del volume.
L’illeggibilità originaria non è un momento semplicemente interno al libro, alla ragione o al logos; non è neppure il loro contrario poiché non ha con essi alcun rapporto di simmetria, ma è incommensurabile ad essi. Anteriore al libro (in senso non cronologico), essa dunque è la possibilità stessa del libro e, in esso, di una contrapposizione, ulteriore ed eventuale, del «razionalismo» e dell’«irrazionalismo». L’essere che si annuncia nell’illeggibile sta al di là di queste categorie, al di là, pur scrivendosi, del proprio nome.
Sarebbe ridicolo accusare Jabès per il fatto che queste interrogazioni non vengono formulate nel suo Libro. Queste interrogazioni possono solo dormire nell’atto letterario che ha bisogno nello stesso tempo della loro vita e del loro letargo. La scrittura perirebbe in una vigilanza pura come nella semplice cancellazione dell’interrogazione.
Scrivere, non significa confondere ancora l’ontologia e la grammatica? Quella grammatica in cui si inscrivono ancora tutte le dislocazioni della sintassi morta, tutte le aggressioni della parole contro la Langue, tutti i problemi che la lettera pone? Le interrogazioni scritte, rivolte alla letteratura, tutte le torture che le si infliggono, sono sempre per mezzo di essa e in essa trasfigurate, snervate, dimenticate; diventate modificazioni di sé, attraverso sé, in sé, mortificazioni, vale a dire, come sempre, astuzie della vita. La vita non nega se stessa nella letteratura, se non per sopravvivere meglio. Per meglio essere. Essa non si nega più di quanto si affermi: si differisce e si scrive come differance.
I libri sono sempre libri di vita (l’archetipo sarebbe quel Libro della Vita redatto dal Dio degli Ebrei) o di sopravvivenza (i cui archetipi sarebbero i Libri dei Morti redatti dagli Egizi).
Quando Blanchot scrive: «L’uomo è capace di un’interrogazione radicale, cioè, in fin dei conti, l’uomo è capace di letteratura?», partendo da un certo pensiero della vita si potrebbe anche dire «incapace» una volta su due. Ammettendo però che la letteratura pura è la non-letteratura, o la morte stessa.
La domanda sull’origine del libro, l’interrogazione assoluta, l’interrogazione su tutte le interrogazioni possibili, l’«interrogazione di Dio» non farà mai parte di nessun libro. A meno che essa non dimentichi se stessa nell’articolazione della sua memoria, nel tempo dell’interrogazione, nel tempo e nella tradizione della sua frase, e che la memoria di sé, sintassi che la collega a sé, non ne faccia un’affermazione mascherata. Già un libro d’interrogazione che si allontana dalla sua origine.
Allora, perché Dio fosse appunto, come dice Jabès, una interrogazione di Dio, non occorrerebbe trasformare un’ultima affermazione in interrogazione? Allora la letteratura risulterebbe forse soltanto lo spostamento sonnambolico di questa affermazione:
«C’è il Libro di Dio, per mezzo del quale Dio si interroga, e c’è il libro dell’uomo costruito sulla misura di quello di Dio».
(Derrida, Edmond Jabès e la interrogazione del libro, in La scrittura e la differenza)