Ovidio – Penteo, il miscredente incallito

La notizia di quanto accaduto [a Narciso], diffondendosi in tutte le città dell’Acaia, accrebbe la fama di Tiresia e grande divenne il suo prestigio.
Unico e solo, Penteo, figlio di Echione, miscredente incallito, disprezza il vecchio e se la ride delle sue virtù profetiche, rinfacciandogli perfino la sventura d’aver perso la vista e Ademollo-Tiresia-Penteodi vivere all’oscuro.

Scuotendo le tempie bianche di canizie, Tiresia dice: «Oh che fortuna sarebbe per te, se anche tu fossi privato di questa luce! Così non vedresti i sacri riti di Bacco. Verrà il giorno infatti, e prevedo non lontano, che qui giungerà un nuovo dio, Libero, figlio di Semele, e se tu non lo riterrai degno dell’onore dei templi, sbranato sarai disperso in mille pezzi, imbrattando di sangue le foreste, nonché tua madre e le sorelle di tua madre. Oh, sì che accadrà, perché degno d’onore tu non stimerai quel nume, e allora ti lagnerai che in queste tenebre io abbia visto fin troppo bene…».

Senza lasciarlo finire di parlare, il figlio di Echione lo caccia via. Ma i fatti confermano le parole del vate e la sua profezia s’avvera. Ecco che arriva Libero e per le campagne echeggiano gridi festosi, e la folla risponde a quel richiamo: matrone e giovani spose mescolate agli uomini, il popolo e i dignitari, tutti accorrono a quei riti sconosciuti.

«Che pazzia vi ha sconvolto la mente, figli di serpe, progenie di Marte? – grida Penteo. – Tanto potere ha dunque il bronzo percosso col bronzo, il flauto dal becco ricurvo e i magici sortilegi, che gente a cui non hanno fatto paura le spade, le trombe di guerra e le schiere con le lance in pugno, si lasci vincere da voci di femmine, dalla frenesia eccitata dal vino, da una oscena masnada e da vuoti tamburelli? Di chi stupirsi? Di voi, vecchi, che dopo avere a lungo vagato sui mari, qui fissaste alla fine la vostra dimora costruendo una nuova Tiro, e ora vi piegate senza colpo ferire? O di voi, giovani, in età più acerba e più vicina alla mia, a cui piuttosto converrebbe impugnare armi e non tirsi, cingere elmi e non ghirlande di fiori?

«Memori siate, vi prego, della stirpe che vi ha dato i natali, e ritrovate la fierezza di quel serpente che da solo tanti sconfisse! e che morì per la sua sorgente, per il suo lago: in nome della vostra fama, suvvia, siate forti! Esso diede morte a dei prodi, e voi, orsù, scacciate questi rammolliti e salvate l’onore della patria! Se era intenzione del fato che Tebe non vivesse a lungo, oh fossero almeno macchine da guerra o eroi ad abbatterne le Reni-Dioniso-bevemura in un fragore di ferro e fuoco! Sventurati saremmo, ma senza disonore; e sarebbe una sorte da compiangere e non da tenere nascosta, e nelle lacrime non ci sarebbe vergogna.

«Ora invece Tebe sarà espugnata da un fanciullo inerme, a cui non piacciono né le guerre, né i dardi né l’uso dei cavalli, ma i capelli impregnati di mirra ed effeminate ghirlande e vesti tinte di porpora e ricamate d’oro. Ma, se mi fate largo, io in un momento lo costringerò a confessare che non è figlio di chi dice e che i suoi riti sono un’impostura. Se Acrisio ha avuto il coraggio di disprezzare questo falso dio e di chiudergli in faccia le porte di Argo, Penteo con tutta Tebe si lascerà spaventare da questo intruso? Andate, su – ordina ai servi, – andate e trascinatemi qui in catene quel demagogo! Obbedite e senza indugi!».

Il nonno Cadmo, lo stesso Atamante e tutto il resto della famiglia lo rimproverano e invano si sforzano di trattenerlo. Gli ammonimenti lo incattiviscono e la rabbia repressa si esaspera e cresce, e i tentativi di calmarlo sortiscono l’effetto contrario: proprio così ho visto un torrente che, dove nulla si opponeva al suo corso, scorreva tranquillo, senza troppo fragore, ma nei punti in cui l’ostacolavano tronchi o macigni, lì spumeggiava e ribolliva, reso impetuoso dall’impedimento.

(Ovidio, Metamorfosi, 3: 511-571)

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Baccanti-teatro-Nicolaj

Se dunque è a Ovidio che conviene affidarci, se è a lui che riconosciamo la maestà di guidarci per le oscure vie del Racconto (ogni via è il tormento, la torsione di uno spasmo di baccante) – tutto sta a fargli le giuste domande invece d’imporgli le solite, rituali, questioni con cui lo annoiano i nostri professori.
Per favore, facciamogli una nuova domanda – una domanda da ignoranti!, ché non c’è altro modo di «apprendere» che quello di fare le domande più infantili, più sciocche e insensate possibili. Le domande di un ultimo arrivato, or ora, dall’asilo-nido.

All’asilo-nido, per caso, la maestra al bambino aveva raccontato la storia di Aishísh, e lui – una volta in prima elementare – si trovò a sentire quest’altro racconto, il racconto dell’arrivo a Tebe di Dioniso… così di palo in frasca, saltando un Oceano [di parole] di cui il bambino ancora non poteva avere contezza, eccolo a sbattere di qua e di là… come un torrente impedito nella sua corsa dallo scoglio di una risonanza prodotta dalla «confusione» delle due storie.

Aishísh, gli aveva detto la maestra, è l’ultimo discendente del nostro Passato narcisistico, del nostro Tempo selvaggio e analfabetico, e insieme il primo «germe» di linguaggio busto-Dioniso-Tanagraanimale catturato al Mondo Umano.
No, è ovvio, il bambino non se le diceva così le «storie», non con le parole della maestra. Al bambino ancora non era stato intimato l’Ordine della lingua della maestra. Lui stesso, nel suo essere, a quell’età ancora non era arrivato fino alla Fabbrica delle Parole.

Passava, questo sì, da un conto a un altro, da Narciso a Dioniso, nella sua mente, ma lui non poteva sapere quel che gli stava succedendo. Senza saperla, non poteva che lasciare agire l’oscura congiunzione che l’una nell’altra «confondeva» le due storie nella corrente dei suoi pensieri.
E tu, caro Ovidio, come un bambino, sia pur «dotto», passi dall’una all’altra con una tale scioltezza, tu da una metamorfosi all’altra dei tuoi «eroi» salti, a volte, e con che disinvoltura!, che mi domando se per caso non lo fai apposta, perché «a buon intenditor poche parole»… insomma, perché il bambino capisca lo stesso, e anche meglio, quel che i professori lasciano invece tacere nel sepolcro del loro questionario.

Voglio dire che è il tuo stesso racconto che, a volte, trasmoda come rapito da oscure associazioni di questo a quello, ed ecco – nel caso presente – tu nel giro di soli due versi ti congedi dallo strazio di Eco e Narciso per passare alla non meno straziante storia di Penteo, il miscredente. E io, bambino appena uscito dall’asilo-nido, devo appresso a te lanciarmi nel mio primo volo. Io, come Aishísh e Dioniso, devo nascere una seconda volta, e perciò assecondare, senza conoscerla, la «sapiente» mano che mi estrae dal labirinto «senza vie d’uscita» del Volere narcisista. Io, sono chiamato [da quali che siano i «due» racconti che tra loro si richiamano] a elevarmi nell’ascolto trascendentale di una risonanza di due «ordini» distinti: quello dell’«io voglio» del Volere dell’Uno che non riconosce nessun altro «nume», e quello dell’«Egli mi dà» da scegliere tra infiniti nomi il «nome» mio. Numen… nomen... a buon intenditor poche parole.

Baccanti-sedute

Perché basta un’assonanza, addirittura meno di due versi: basta, a volte, una rima o, come suggerisce Freud, una trimetilamina qualunque per saltare di palo in frasca. Per lasciarsi alle spalle quel Passato che non passava mai e scordarsi della «musica incestuosa» dell’«io voglio» indiviso nel suo volere unico.
Basta una ridondanza, una duplicazione, perché una sillaba insensata come ma, diventi la mamma. La madre di tutte le significazioni.

Perciò, chiudi gli occhi – consiglia Tiresia al bambino. – Chiudili, perché non c’è altro modo di affidarsi al volere del nuovo «nume» che credere in lui a occhi chiusi! Salta l’Oceano, accorcia le distanze, fa’ che il mondo sia infine alla tua portata, prendi quest’eco del tuo «grido animale», lo senti? – è quello che risuona nelle voci femminili che portano in trionfo Libero/Bacco – prendi questo brandello di discordanza «oceanica», aggrappati a questo rottame della [vecchia] nave [Argo], e via! corri pure tu all’adunanza umana!

Comprendi, mio caro intenditor – non ti è abbastanza chiaro che l’oscuro demone della «insana» Congiunzione che ci trascina nell’Umano, in Ovidio è personificato da Tiresia? E DiRosa-apotropaicoche è lui il Demiurgo delle metamorfosi per le quali passa ogni bambino dall’asilo-nido alla scuola elementare?
A congiungere in un racconto Aishísh e il suo Passato Remoto, Narciso e Penteo, il suo erede «miscredente» – sono le parole di un Cieco, le parole di chi non vede, e che perciò è a casa sua nell’Invisibile.

Invisibile è la Congiunzione Oscura tra il Volere del linguaggio analfabetico e la Volontà di un dio «diviso» tra il grido animale e la parola dell’uomo.
La «vede» solo il Cieco questa frattura – questa «schizza». Solo Tiresia è «vate». Solo lui «indovina» quel che «associa» il fallimento di Narciso alla riluttanza di Penteo a rendere grazie al nuovo Nume, il solo che può dare un futuro ai suoi desideri.
Narciso è stato «sordo» all’Eco delle voci della foresta. Le ha sentite e le ha rigettate via dall’«io voglio». E sordo è pure Penteo: sordo al grido che ritorna dalle remote lontananze selvagge a portargli la promessa di un’altra chance – una possibilità che solo l’«Egli», l’Altro degli altri, il Nume Trascendentale, può concedergli e solo a condizione di confondere la sua propria voce nel Coro delle Baccanti. Perché solo nel Coro dionisiaco riposa l’ultimo resto di «nonna» Armonia.

A ciascuno il suo nome, a ciascuno la sua via al seguito del Nume che, stando al Racconto, è pure lui, in persona, l’«ultimo arrivato» alla scuola dell’obbligo olimpico.
A ciascuno il Nume concede di raccattare dal mucchio di semi selvaggi la parole che gli piace. Egli la dice e io la faccio mia propria pietra di fondazione del Tempio che è nelle profondità «acustiche» del nostro comune Volere.

Narciso non vuole la volontà di Eco. Vuole solo la sua. E al pari di lui Penteo non vuole la volontà del Bambino allevato nella «coscia» del Padre dei nomi. Vuole solo la sua propria cocciuta volontà.
Penteo e Narciso «funzionano» nella mente del bambino fino al momento in cui, chiamati ad abdicare al potere di dire «io» e a dare ascolto all’Altro, si chiudono a riccio, Penteo-smembratoresistono e si oppongono al «nuovo» regime per arroccarsi nel Culto del Visibile, dell’Apparente, dell’«apollineo» più ingenuo.

Dovrebbero fidarsi dell’Oscuro, e non lo fanno. Dovrebbero credere alle parole cieche, all’udibile senza immagine, alla Forma Vuota della Lingua, che sola può traghettare i bambini dal nido delle anime ingenue alla scuola del demone che salta da una malizia all’altra del racconto, ogni volta passando da una maschera all’altra, ma sempre giocando, e sempre a mettersi in gioco in un’altra possibilità, in un’altra scommessa esistenziale.
Dovrebbero dare ascolto all’Oscuro, ai suoi «ritorni», ai suoi «ritmi», alle sue «ripetizioni», ai suoi «deliri associativi», alle sue strambe «congiunzioni» espressive – senza le quali nessun racconto, nessuna storia sarebbe possibile, nessuna «conoscenza di se stessi».