Deleuze – Il punto in cui sono privato del potere di dire io

Kafka-homines

C’è un autore che parecchi di voi conoscono molto bene. Ha scritto un breve testo che per me condensa l’insieme del suo pensiero e che mi tocca in modo particolare prima ancora che capisca perché.
È Maurice Blanchot. In uno dei suoi libri, La parte del fuoco (un testo su Kafka), scrive questo a proposito di Kafka (ascoltate bene, è da questo che vorrei partire): «Non mi basta dunque scrivere “io sono infelice”. Finché non scrivo altro, oltre a “io sono infelice”, sono troppo vicino a me, alla mia infelicità perché questa infelicità diventi davvero mia». (Lasciatevi andare. Non cercate nulla, seguite solo le tonalità della frase).

Curioso. Finché dico “io sono infelice”, sono troppo vicino a me, troppo vicino alla mia infelicità… ci si aspetta che dica “perché questa infelicità non sia un poco anche esterna”. Invece dice il contrario.
Finché dico “io”, sono troppo vicino a me, alla mia infelicità perché questa infelicità diventi davvero mia… (una bella frase, e aggiunge) nel modo del linguaggio. Non sono ancora davvero infelice.

Solo nel momento in cui arrivo a questa strana sostituzione: “egli è infelice”, il linguaggio inizia a costituirsi in linguaggio infelice per me, a schizzare e proiettare lentamente il Kafka-lavagnamondo dell’infelicità come si realizza in sé.
Solo quando dico “egli è infelice”, questa infelicità diventa mia nel modo del linguaggio, cioè inizia a costituirsi il mondo a cui appartiene quella infelicità.
Solo quando arrivo a questa strana sostituzione (“egli è infelice”), il linguaggio inizia a costituirsi in linguaggio infelice per me, a schizzare e proiettare lentamente il mondo dell’infelicità come si realizza in sé.

Allora forse… non abbiamo ancora capito la formula. “Egli è infelice” cosa vuol dire? Prendiamola così, fidiamoci di Blanchot.
Allora forse, quando dico “egli è infelice”, mi sentirò in causa.
Non dice che non bisogna dire “io” e bisogna occuparsi degli altri. Dice che solo quando io dico “egli è infelice”, questa infelicità diventa di fatto mia sotto un certo modo.
Allora forse mi sentirò in causa e il mio dolore si manifesterà a questo mondo da cui è assente. (Questo è meno bello, lo taglio).
Allora mi sentirò in causa.

In cosa riguarda Kafka? Dice che i racconti di Kafka sono questo. Kafka si esprime nei racconti tramite questa distanza incommensurabile, la distanza che separa l’io dall’egli, e l’impossibilità in cui si trova di riconoscervisi.
In altri termini, ha raggiunto il punto in cui è privato, dirà Blanchot in un altro testo usando questa formula molto bella, del potere di dire “io”.
Raggiungo il punto in cui sono privato del potere di dire “io”. Bene, abbiamo fatto un piccolo passo avanti. Sarebbe questo l’egli. L’egli è il punto in cui sono privato del potere di dire “io”.

(Deleuze, dalle Lezioni di Vincennes)

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Kafka-pensatore

essere chiamati in causa, essere convocati – ecco l’atto (trascendentale) di Presenza. È rispondere “sì” all’appello dell’Altro – di Lui, l’Infelice. Perché solo da quel momento accedo al linguaggio umano.
Si è sprecato anche troppo tempo a cercare nello sguardo l’errore di Narciso, è un vizio antico, non si contano più i libri, i saggi e i convegni, e tutti non fanno che interrogarsi sul vizio di forma del suo miraggio, tutti a cercare il pelo nell’uovo dell’immagine che l’ha sedotto e abbandonato.
Ma cosa ha visto Narciso di così seducente da «divenir segno» a lui fatale di quel «conosci te stesso» che, all’opposto, a Delfi si predicava e si praticava come il Sentiero del Risveglio a una seconda vita? Cosa c’è che a Narciso impedisce di dare una «via di fuga», un’altra chance alla sua infelicità?

E invece il problema è che Narciso è «sordo» alle provocazioni di Eco. Non risponde all’appello, ed è per questo «difetto di ascolto» che la conoscenza che apprende di se stesso si distingue da quella del devoto d’Apollo. Non è una non meglio identificata miopia a trattenere Narciso al di là della soglia umana. È la sordità alla sentenza Kafka-homo-spaziodell’Oracolo.
Abbiamo fatto un lungo giro per giungere a questo: a non essere noi pure sordi alla sordità del nostro narcisismo… perché, se per ipotesi Narciso avesse dato ascolto a Eco, se avesse cioè sentito il ritorno a sé delle sue proprie parole (poiché Eco questo solo può fare: restituirgli a malapena un resto di ciò che ha detto), se dunque avesse risentito la sua propria voce, Narciso non sarebbe annegato nel suo «impossibile» linguistico.

Se il «fenomeno» del sapere umano è la «voce della Coscienza» che, a uno a uno, ci convoca alla Presenza a questa vita, allora di Narciso, come di ogni «sordo», si può dire che rimane prigioniero del Passato. Prigioniero di quella Forma Pura del Tempo che non gli consente di darsi una storia «umana».
Narciso muore non perché, come predice Tiresia, ha conosciuto se stesso, ma perché si è conosciuto alla maniera dei «non-udenti». Narciso annega non perché ha visto il suo doppio allo specchio, ma perché tutto preso da questa visione non ha udito la voce che, sola, rimbalzando dentro e fuori, poteva aprire tra lui e il suo sosia una fessura nella sua percezione del tempo – quella breccia nel muro per cui si va al Tempo Umano.

Anche i sordi hanno una loro coscienza di se stessi, ma differisce dalla nostra perché le manca il fondamento della Voce Pubblica, di Madonna la Pizia. I sordi hanno il linguaggio dei segni, ma nessuno di questi segni muti assurge a simbolo. Nessuno si apre, nessuno si scinde – in modo che dalla fessura si faccia avanti la Voce dell’Altro.
L’immagine-sosia è a Narciso il primo Segno. Sebbene però Narciso si sdoppi, né lui né il suo doppione è in grado di raccontarsi all’altro. Per raccontarsi a se stessi (nel modo Kafka-sedutilinguistico umano), per parlare fra sé e sé e conoscere se stessi, non basta essere in due. Bisogna che ci sia l’interposizione di un Terzo – con funzione di barra – un «neutrale» che sia, proprio come la voce di Eco, equivocamente insieme di dentro e di fuori, di nostro proprio e di altrui. Perché fusione di voci ci sia. Perché si realizzi quella «infelice» confusione di appelli e risposte, per cui alla domanda: Narciso? – Narciso risponda: Presente!

Io e tu non bastano. Narciso ci vede benissimo, e l’immagine non l’inganna! Narciso è infelice, e come potrebbe non esserlo se, assieme alla sua immagine, è prigioniero del linguaggio duale? Ma io e tu non bastano. Bisogna che Narciso risponda alla Voce che lo chiama dal mondo dell’infelicità. Che faccia cioè l’esperienza trascendentale che, sola, può battezzarlo al linguaggio simbolico, e dunque a una coscienza della propria storia, a quella dimensione (o piuttosto illusione) autobiografica che è il «delitto perfetto» che ciascuno compie sul proprio «essere».

Bisogna che Narciso si allontani dalla propria cocciuta impossibilità, è troppo vicino alla sua immagine per giungere a udire la sua «infelicità». Bisogna che se ne distacchi al punto tale da ascendere a quel «non-dove» dove sarà «privato del potere di dire “io l’amo”», e dove a «provocare» l’amore è sempre e solo Lui, Egli, e a «innamorarsi» sempre e solo la Sua Voce.
Io e tu non bastano. I sordi non sentono la Terza Persona (della nostra Trinità linguistica). I narcisisti non risentono la profondità, il volume, della loro infelicità. Il loro Apollo è un dio la cui «infelicità» è sottomessa linguisticamente a una tensione superficiale che lo trascina ineluttabilmente alla periferia di se stesso.