Baudrillard – Il delitto originale

Se non vi fossero le apparenze, il mondo sarebbe un delitto perfetto, ovvero senza delinquente, senza vittima e senza movente. Un delitto la cui verità si sarebbe ritirata per sempre e il cui segreto non sarebbe mai scoperto, per mancanza di tracce.
Ma, per l’appunto, il delitto non è mai perfetto, poiché il mondo si tradisce con le Kaminski-coverapparenze, che sono le tracce della sua inesistenza, le tracce della continuità del niente. Il niente stesso, la continuità del niente lascia infatti delle tracce. Ed è così che il mondo tradisce il suo segreto. È così che si lascia intravedere, pur nascondendosi dietro le apparenze.
Anche l’artista è sempre vicino al delitto perfetto, che consiste nel non dire niente. Ma se ne distacca, e la sua opera è la traccia di questa imperfezione criminale. L’artista, secondo Michaux, è colui che resiste con tutte le sue forze alla pulsione fondamentale di non lasciare tracce.

La perfezione del delitto consiste nel fatto che esso è già da sempre compiuto: «perfectum». Sottrazione, già prima che si produca, del mondo così com’è. Esso quindi non verrà mai scoperto. Non vi sarà giudizio universale per punirlo o per assolverlo. Non vi sarà fine, poiché le cose hanno già da sempre avuto luogo. Né risoluzione né assoluzione, ma svolgimento ineluttabile delle conseguenze.
Precessione del delitto originale – di cui forse ritroveremmo la forma derisoria nell’attuale precessione dei simulacri? Il nostro destino è poi il compimento di questo delitto, il suo svolgimento implacabile, la continuità del male, la continuazione del niente. Non ne vivremo mai la scena primitiva, ma ne viviamo a ogni istante la prosecuzione e l’espiazione. La cosa è interminabile, le conseguenze incalcolabili.

Come i pochi secondi iniziali del Big Bang sono insondabili, così i pochi secondi del delitto originale sono irreperibili. Delitto fossile dunque, come i rumori fossili sparsi nell’universo. Ed è l’energia di questo delitto, come quella dell’esplosione iniziale, che sta per distribuirsi nel mondo, fino al suo eventuale esaurimento.
Tale è la visione mitica del delitto originale, quella dell’alterazione del mondo nel gioco della seduzione e delle apparenze, quella della sua illusione definitiva. Tale è la forma del segreto.

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La grande questione filosofica era: «Perché c’è qualcosa piuttosto che nulla?». Oggi, la vera questione è: «Perché c’è niente piuttosto che qualcosa?».
L’assenza delle cose a se stesse, il fatto che esse non abbiano luogo pur dando l’impressione di accadere, il fatto che ogni cosa si ritiri dietro la propria apparenza e non sia dunque mai identica a se stessa, in ciò consiste l’illusione materiale del mondo. E questo resta in fondo il grande enigma, che ci fa sprofondare nel terrore e da cui ci proteggiamo mediante l’illusione formale della verità.
Pena il terrore, dobbiamo decifrare il mondo, e quindi annientarne l’illusione originaria. Non sopportiamo né il vuoto né il segreto né la pura apparenza. Perché mai dovremmo decifrarlo, al posto di lasciarne irradiare l’illusione come tale, in tutto il suo splendore? Ebbene, anche questo è un enigma: o meglio, fa parte dell’enigma il fatto che non possiamo sopportarne il carattere enigmatico. Fa parte del mondo il fatto che non possiamo sopportarne l’illusione né la pura apparenza.
Non ne sopporteremmo maggiormente, se dovessero esistere, la verità radicale e la trasparenza.

Quanto alla verità, essa vuole darsi nuda. Essa cerca disperatamente la nudità, come Madonna nel film che l’ha resa celebre. Questo strip-tease senza speranza è quello della Capeau-strip-teaserealtà, che si «spoglia» in senso letterale, offrendo allo sguardo dei guardoni creduli l’apparenza della nudità. Ma appunto, questa nudità l’avvolge con una seconda pellicola, che non ha neppure più il fascino erotico del vestito. Non c’è neppure più bisogno di scapoli per metterla a nudo, poiché ha rinunciato da sola al trompe-l’oeil per lo strip-tease.
La principale obiezione alla realtà è d’altra parte il suo carattere di sottomissione incondizionata a tutte le ipotesi che si possono fare su di lei. È così che scoraggia le menti più acute, col suo miserrimo conformismo. Potete sottomettere essa e il suo principio (del resto che cosa fanno insieme, se non copulare piattamente e generare innumerevoli evidenze?) alle sevizie più crudeli, alle provocazioni più oscene, alle insinuazioni più paradossali; essa si piega a tutto con un servilismo inesorabile. La realtà è una cagna. E d’altronde che cosa c’è di strano, visto che è nata dalla fornicazione della stupidità con l’intelletto calcolante – scarto della sacra illusione abbandonata agli sciacalli della scienza?

Per ritrovare la traccia del niente, dell’incompiutezza, dell’imperfezione del delitto bisogna dunque togliere alla realtà del mondo. Per ritrovare la costellazione del segreto, bisogna togliere all’accumulazione di realtà e di linguaggio. Occorre togliere a una a una le parole dal linguaggio, togliere a una a una le cose dalla realtà, strappare il medesimo al medesimo. Bisogna che, dietro ogni frammento di realtà, qualcosa sia scomparso, per assicurare la continuità del niente – senza tuttavia cedere alla tentazione dell’annientamento, poiché occorre che la scomparsa resti viva, che la traccia del delitto resti viva.
Con la modernità, in cui non smettiamo di accumulare, di aggiungere, di rilanciare, abbiamo disimparato che è la sottrazione a dare la forza, che dall’assenza nasce la potenza. E per il fatto di non essere più capaci di affrontare la padronanza simbolica dell’assenza, oggi siamo immersi nell’illusione inversa, quella, disincantata, della Duran-gatto-neroproliferazione degli schermi e delle immagini.

Ora, l’immagine non può più immaginare il reale, poiché coincide con esso. Non può più sognarlo, poiché ne costituisce la realtà virtuale. È come se le cose avessero inghiottito il loro specchio e fossero divenute trasparenti a se stesse, completamente presenti a se stesse, in piena luce, in tempo reale, in una trascrizione inesorabile. Al posto d’essere assenti da sé nell’illusione, sono costrette a iscriversi sulle migliaia di specchi al cui orizzonte è scomparso non solo il reale, ma anche l’immagine. La realtà è stata scacciata dalla realtà. Forse solamente la tecnologia collega ancora i frammenti sparsi del reale. Ma dove è finita la costellazione del senso?
L’unica suspense che resti consiste nel sapere fino a che punto il mondo possa derealizzarsi prima di soccombere alla sua scarsissima realtà, o viceversa fin dove possa iperrealizzarsi prima di soccombere sotto troppa realtà (ossia quando, divenuto perfettamente reale, divenuto più vero del vero, sarà preda della simulazione totale).

Non è tuttavia certo che la costellazione del segreto sia annientata dalla trasparenza dell’universo virtuale, né che la potenza dell’illusione sia spazzata via dall’operazione tecnica del mondo. È possibile intuire dietro tutte le tecniche una specie di ostentazione assoluta e di doppio gioco – la loro stessa esorbitanza le trasforma infatti in un gioco di trasparizione del mondo, dietro l’illusione di trasformarlo. La tecnica è l’alternativa micidiale all’illusione del mondo, oppure è semplicemente una gigantesca trasformazione della stessa illusione fondamentale, la sua estrema e sottile peripezia, la sua ultima ipostasi?
Forse, attraverso la tecnica, è il mondo a prendersi gioco di noi, è l’oggetto a sedurci con l’illusione del potere che abbiamo su di esso. Ipotesi vertiginosa: la razionalità, che culmina nella virtualità tecnica, sarebbe l’estrema astuzia dell’irrazionale, di quella volontà d’illusione di cui la volontà di verità non è, secondo Nietzsche, che un sotterfugio e una trasformazione.

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All’orizzonte della simulazione, non solo il mondo è scomparso, ma anche la questione della sua esistenza non può più essere posta. Forse però si tratta di un’astuzia del mondo stesso. Gli iconolatri di Bisanzio erano gente sottile, che pretendeva di rappresentare Dio per la sua massima gloria, ma che, simulando Dio nelle immagini, dissimulava per ciò stesso il problema della sua esistenza. Dietro ciascuna di esse, di fatto, Dio era scomparso. Non era morto, era scomparso. La questione, cioè, non si poneva neppure più. Era risolta dalla simulazione. Così ci comportiamo col problema della verità o della realtà di questo mondo: l’abbiamo risolto con la simulazione tecnica, e con la profusione d’immagini in cui non c’è niente da vedere.
Ma la strategia di Dio non consiste forse nell’approfittare delle immagini per scomparire, obbedendo lui stesso alla pulsione di non lasciare tracce?
E così la profezia è realizzata: viviamo in un mondo in cui la suprema funzione del segno è quella di far scomparire la realtà e di mascherare nel contempo questa scomparsa. Ilic-metamorfosiOggi l’arte non fa altro. Oggi i media non fanno altro. Ecco perché sono condannati al medesimo destino.

Dal momento che ogni cosa non vuole più propriamente essere guardata, ma vuole solo essere visualmente assorbita e circolare senza lasciare tracce, disegnando in certo qual modo la forma estetica semplificata dello scambio impossibile, oggi è difficile riafferrare le apparenze. A tal punto che il discorso che ne renderebbe conto sarebbe un discorso in cui non c’è niente da dire – l’equivalente di un mondo in cui non c’è niente da vedere. L’equivalente di un oggetto puro, di un oggetto che non è tale. L’equivalenza armoniosa del niente mediante il niente, del Male mediante il Male. Ma l’oggetto che non è tale non smette di ossessionarvi con la sua presenza vuota e immateriale. Il problema consiste unicamente, ai confini del niente, nel materializzare questo niente – ai confini del vuoto, nel tracciare la filigrana del vuoto – ai confini dell’indifferenza, nel giocare secondo le regole misteriose dell’indifferenza.

L’identificazione del mondo è inutile. Bisogna cogliere le cose mentre dormono, o in altra congiuntura in cui si assentano da sé. Come in La casa delle belle addormentate, in cui i vecchi passano la notte accanto a queste donne, pazzi di desiderio, ma senza toccarle, e si eclissano prima del loro risveglio. Anche loro sono distesi accanto a un oggetto che non è tale, e la cui totale indifferenza acuisce il senso erotico. Ma la cosa più enigmatica è il fatto che nulla permette di sapere se esse dormano veramente o se non godano maliziosamente, dal fondo del loro sonno, della loro seduzione e del loro desiderio in sospeso.
Non essere sensibili a questo grado d’irrealtà e di gioco, di malizia e di spiritualità ironica del linguaggio e del mondo, significa di fatto non essere capaci di vivere. L’intelligenza non è nient’altro che questo presentimento dell’illusione universale, persino nella passione amorosa, senza che questa tuttavia risulti alterata nel suo LydiaZ-cubomovimento naturale. C’è qualcosa di più forte della passione: l’illusione. C’è qualcosa di più forte del sesso o della felicità: la passione dell’illusione.

L’identificazione del mondo è inutile. Anche il nostro volto non può essere identificato, poiché la sua simmetria è alterata dallo specchio. Vederlo quale è sarebbe una follia, poiché non avremmo più segreti per noi stessi, e dunque saremmo annientati per trasparenza. L’uomo non si è forse evoluto verso una forma tale che il suo volto gli rimane invisibile e che egli diviene definitivamente non identificabile, non solo nell’intimo del volto, ma anche in uno qualsiasi dei suoi desideri?
Ma lo stesso vale per qualunque oggetto, il quale giunge a noi definitivamente alterato, anche sullo schermo della scienza, anche sullo specchio dell’informazione, anche sullo schermo del nostro cervello. Tutte le cose si offrono dunque senza la speranza d’essere altro che l’illusione di se stesse. E va bene così.

Fortunatamente, gli oggetti che ci appaiono sono già da sempre scomparsi. Fortunatamente, nulla ci appare in tempo reale, come le stelle nel cielo notturno. Se la velocità della luce fosse infinita, tutte le stelle si presenterebbero simultaneamente e la volta del cielo sarebbe di un’incandescenza insopportabile. Fortunatamente, nulla accade in tempo reale, altrimenti saremmo sottomessi, nell’informazione, alla luce di tutti gli eventi e il presente sarebbe di un’incandescenza insopportabile. Fortunatamente, viviamo in base a un’illusione vitale, a un’assenza, a un’irrealtà, a una non immediatezza delle cose.
Fortunatamente, nulla è istantaneo né simultaneo né contemporaneo. Fortunatamente, nulla è presente né identico a se stesso. Fortunatamente, la realtà non ha luogo. Fortunatamente, il delitto non è mai perfetto.

(Baudrillard, Il delitto perfetto)