Sini – La voce è il fenomeno

La voce è il fenomeno perché è la voce che chiama al sapere. Ed è poi nel sapere che emergono le cose. E lì che accade il saper cosa, in forza del quale è il sole che sorge all’orizzonte ed è il dito ciò che il bambino afferra. Se non so cosa, sono muto come un Leonor-Fini-cariatide-sfasciatapesce, o come un bambino infante. Nel sapere emergono le cose.
Ciò significa anche: la voce chiama a sé il sé. E così chiama la «cosa stessa». È in questa chiamata che anche la traccia viene allora a se stessa. Il senso più dispiegato di queste ultime osservazioni è il seguente: poiché la voce, da un lato, chiama a sé il sé; e corrispettivamente a ciò, chiama a sé, dall’altro lato, la cosa come l’altro dal sé; allora la voce chiama alla distanza tra il sé e la cosa e traccia la differenza.

È la voce che colloca nella distanza saputa, e non semplicemente agita nel senso del saper fare. In certo modo, dunque, tutti i fenomeni sono contenuti nella voce, poiché il loro senso «saputo» è tale solo nella voce. È la voce che separa e che rintraccia. Ora perciò, in modo letterale e corretto possiamo dire: è la voce che articola i fenomeni. […]
Ma che ha di così particolare il gesto vocale, rispetto alle altre gestualità, perché noi gli addossiamo la responsabilità dell’insorgenza del fenomeno?

Prendiamo le mosse dall’esperienza della distanza. Ogni presenza, sappiamo, comporta una distanza, e cioè un’urgenza-verso e un essere distanziati-da. La cosa in presenza è sempre il senso di qualcosa da fare (per raggiungerla). Se per esempio consideriamo il gesto del tatto, vediamo che esso manifesta la sua distanza come orlo frastagliato dei paraggi corporei. Il tatto fa accadere i confini del mio e del non-mio, secondo i modi di un caratteristico rimbalzo. Toccando, la cosa toccata viene posta a distanza e vissuta così come l’esterno; ma rimbalzando simultaneamente dal porre a distanza, il gesto fa accadere anche il mio proprio, il mio interno, come corpo senziente. La fessura o la traccia del toccare esplode così in due opposte direzioni che sono insieme complementari: polarità implicite e vissute anonimamente, nel puro saper fare. Esse diverranno, nel saper dire, il corpo e il mondo. Quelle cose cioè che il tatto sa far accadere, ma che di per sé non può dire.

occhio-orologio

Vediamo invece la distanza della vista. Qui il rimbalzo del gesto fa accadere un profilarsi di sfondi e primi piani. Si disegna un orizzonte circolare di disponibilità, collocate a differenti livelli o piani. Corrispettivamente, il punto di visione si colloca in una interiorità che sfuma quasi nel nulla. Diciamo quasi, perché noi non siamo fatti come Polifemo e la differenza tra i due occhi in qualche caso si fa sentire e apprezzare. Rispetto al punto di visione tutto il resto si pone sul conto della esteriorità, dello spettacolo del mondo o del mondo come spettacolo, in cui compaio io stesso col mio corpo, che lo sguardo può appunto ispezionare. Naturalmente è ancora la voce che dice quel che qui viene osservato, poiché la vista, di per sé, non conosce la traccia del suo stesso gesto, non la «sa». […]

Ma come esperisce la voce, questo gesto peculiarmente «umano», la distanza?
La voce non «incontra» il mondo. Il tatto, la vista lo incontrano; cioè lo «scoprono» e così lo delimitano e lo segnano a partire da sé. Non nel senso che il mondo sia già lì e il tatto vi urti contro, ma nel senso di quella esplosione e scissione complementare che prima si è descritta. La voce però non fa nulla del genere. Essa piuttosto fa accadere fenomeni in ogni senso «inauditi». Cioè produce ex nihilo fenomeni che «non ci sono» nel mondo del tatto e della vista. Il mondo è silenzio e la voce è l’irrompere di un gesto che «rompe» questo silenzio. Ne deriva che la distanza scandita dalla voce non è scandita rispetto a un Munch-urlo-m«altro» come mondo, ma rispetto a un altro come altra voce.

Nel fenomeno della voce non abbiamo una totalità ideale che si scinde (il toccante e il toccato, che è a sua volta toccante ciò che lo tocca ecc.); abbiamo piuttosto una «provenienza».
All’origine del gesto altro non c’è che la provenienza della voce: il fatto che essa risuona. Questo semplice risuonare della voce non opera alcuna duplicazione tra mondo e sé. Proprio perciò essa opera la duplicazione del sé, che peraltro e proprio perciò ancora non c’è.

La gestualità presa nel suo insorgere originario è quindi il semplice accadere della voce. Non c’è un soggetto-voce che dice o «sa»: «io sono la voce». Non c’è, come si dice oggi, un «emittente», ma solo voce che accade. Il bambino che grida non è un emittente che grida: questo lo diciamo noi osservando dall’esterno la sua esperienza.
Il bambino che grida è la semplice percezione del grido. Come in ogni presenza percettiva, anche qui accade una distanza e a suo modo un rimbalzo. Vediamo come.

Non vi è l’emittente che grida e poi il grido gli (?) ritorna come percezione del grido, cioè dell’aver gridato o dello star gridando. Piuttosto: vi è un provenire della voce per il quale sorge l’emittente stesso. L’emittente è un effetto del rimbalzo e non la causa del medesimo. Noi che descriviamo dall’esterno possiamo dire: l’emittente si trova rispecchiato nella voce, cioè si avverte e si sa nella voce che esplode. Emittente inconsapevole rispecchiato nella voce che si dà. La proiezione-rispecchiamento è ciò che delimita la fonte inavvertita. Abbiamo così una duplicazione potenziale. Potenziale perché solo per me che dall’esterno osservo c’è l’emittente inconsapevole della voce che poi torna indietro in forma di percezione acustica, sicché «lui» che ha gridato si sente gridare. Tutta questa descrizione però la faccio io con la mia grammatica. Cioè, appunto, con la mia voce. Ma ciò che accade non è un «lui» gridante ecc. C’è il semplice essere inseriti nella voce che grida e viene avvertita; «essere» come trovarsi e sussistere in Martiradonna-urloquesto e per questo inserimento: esperienza rispecchiante di una voce che grida.

II primum non è perciò la vox, come soggetto vivente-gridante, ma, per così dire, la voce all’accusativo, la vocem. Ovvero: primum non è il «sono», ma l’«è» della voce che risuona «accusando» il soggetto, non provenendone. La sua prassi è anonima. Il soggetto «vociante» sarà piuttosto la conseguenza di questa prassi e quindi il suo attore non primario ma secondario. […]

Abbiamo allora questo rimbalzo della vocem (della voce anonima, senza soggetto) che si determina come vox (per dir così, cioè maltrattando un po’ la grammatica). L’origine-provenienza, o meglio il provenire originario, diviene la destinazione stessa. In altri termini: la voce che risuona «là» (in quello spazio di provenienza che caratterizza tutti i fenomeni acustici) ha il destino di essere sentita «qua». Cosa cerco di dire, con molte inevitabili imperfezioni? Che il primo effetto di quella prassi che è il gesto vocale è l’autonominazione implicita. A chi è destinata originariamente la voce del bambino se non al bambino, cioè alle sue orecchie? Se la pensate destinata agli altri è perché già siete adulti, già partecipi della intersoggettività della parola, e allora dite: il bambino mi chiama. Se così non fosse, il bambino sarebbe perduto. Ma per l’originaria esperienza del bambino la voce è semplicemente il rimbalzo del suo sé inconsapevole, ovvero non ancora costituito e costituentesi per il rimbalzo. La destinazione della voce è così il rispecchiamento di un emittente, cioè la sua apparizione. Egli è colui che è rispecchiato, e tale resterà per sempre.

Abbiamo già notato che i gesti non sono così puri come li stiamo descrivendo. Se c’è un grido vi è anche dell’altro: uno sforzo muscolare, una tensione della gola e della mascella ecc. Soprattutto vi è un’urgenza, per esempio di un vuoto da riempire con i connessi dolori del bisogno. Certamente il bambino non grida in purezza angelica al solo scopo di facilitare le nostre teorie fenomenologiche. Sicché il grido infantile rispecchia anche, come dicono gli psicologi, l’ira del bambino, la sua rabbia, la sua impotenza e la sua disperazione. In questo senso la voce non è solo l’esperienza originaria della distanza «proveniente», ma è anche e più la prima «espressione» della distanza e del connesso bisogno di «riempimento».

lettere-dalla-bocca

Vi sono ora tutte le condizioni essenziali per il battesimo del sé. Ma se nessuno lo riempie quel bisogno, il bambino può gridare quanto vuole: al sé non arriverà mai e dovrà lasciare ben presto questa valle di lacrime. È col riempimento che tutte le potenzialità si mettono in moto; riempimento che già in altra occasione distinguemmo come risposta generica e risposta specifica.

Generica, in sintesi, è la risposta che, di fronte al bambino che piange, gli dà il latte e non una conferenza sulla bontà del latte (soluzione cui sovente inclinano gli «intellettuali», inconsapevolmente catturati dalla loro prassi). La risposta generica dà cose, non parole. Nutre, copre, scopre, prende in braccio ecc. Ecco che allora il gesto vocale viene a manifestare tutta la sua singolare potenza: esso comincia a delineare, cioè a «scrivere», le sue concrete tracce. Il gesto vocale ha ora il suo altro nel gesto soccorritore o riempitore e il bambino apprende una prima forma del «saper come fare», ovvero si trova rispecchiato in questa peculiare forma del sapere. Per mangiare (essere alzati, esser lavati ecc.) basta gridare. Poi qualcosa accade (qualcuno arriva, diciamo noi). Sapienza agita, non saputa. Il bambino grida, non parla. E tuttavia i segni espressivi della voce, nelle loro differenze, stabiliscono i primi codici di comportamento che l’orecchio della madre sa ben percepire. C’è modo e modo di piangere: con collera, con disperazione, con paura, oppure con un’aria non troppo convinta e già presaga della bimbo-che-piange-paintsconfitta («tanto non mi danno retta»). Saper fare che rimbalza sul sé e determina prassi via via più sapienti, le quali già predeterminano un «voler dire»: piangere «vuol dire» essere presi in braccio; non c’è che darci dentro.

Il grande salto avviene però con la risposta specifica, cioè la risposta al gesto della voce con un gesto della medesima specie. Qui il gesto vocale dispiega tutte le sue straordinarie potenzialità, determinando la nascita di ciò che Hegel chiamava il mondo dello spirito. Il bambino, per dir così, viene «parlato» dagli adulti. Non appena, dopo una lunga fase di esperienza e di apprendistato, egli si «sintonizza» sulla specificità di questa risposta, ecco che esperisce un nuovo tipo di rimbalzo e di distanza. In sintesi: attraverso la risposta specifica della voce ciò che è evocato è il polo comune dell’urgenza, dell’urgenza in comune. Nella risposta specifica il bambino non si limita a gridare sperando in Dio che gli diano da mangiare e non che gli soffino il naso, cosa di cui non ha alcun bisogno e non gli importa, visto che ha fame. Questa evocatività del grido è estremamente vaga e si accompagna a un saper fare molto generico. Altra cosa è quando il bambino, entrato nella risposta specifica, entra anche in possesso del mondo del «significato», che comincia a porre in esercizio in forme elementari. Apprende a farfugliare «pappa», se ha fame, e così via, con termini talora di sua invenzione cui l’adulto deve adattarsi per comunicare con lui.

Nel momento in cui la parola in quanto parola è pronunciata […] ecco che noi dobbiamo vedere la parola come sospesa in un ideale spazio risuonante e insieme rimbalzante sui due emittenti. Essi sono così i «rimbalzati» di questa voce e da questa voce. Essa risuona idealmente per tutti e indica a tutti il polo comune dell’urgenza, cioè della prassi. L’intersoggettività non è altro da questo essere i rimbalzati della voce, i partecipanti e gli officianti della comunità del suo gesto. Tutti i soggetti, infatti, sono e si sono costituiti come tali in quanto rimbalzati dalla voce.

parole-parole

L’altro punto essenziale al quale bisogna prestare attenzione è che la voce, in quanto determina i soggetti accomunati nel rimbalzo, allora dice la cosa. Tatto, vista, gusto non dicono niente. È la parola infatti che articola, evocandole, tutte le esperienze di tutte le distanze gestuali. Essa nomina i poli ideali delle diverse prassi, le urgenze «pubbliche» di tutti e a tutti comuni, sicché è a partire dalla sostanza della vox publica che da un lato il mondo si articola in «cose», dall’altro le prassi si articolano in «io», cioè nei parlati dalla voce pubblica e dai suoi significati pubblici. L’emittente, come veicolo della voce, è il soggetto della prassi vocale; è «lui» che dice e la voce è la «sua». Ma per altro verso il significato di ciò che dice non gli appartiene. Anzi, è lui che appartiene a quel significato, essendo un «lui» solo per lui, per il significato pubblico comune. E così che acquista un nome, un nome che lo identifica accomunandolo a tutti gli altri, e che lo rende «uno» degli altri.

Proprio qui incontriamo quella linea orizzontale dell’evento per la quale i significati rimandano l’uno all’altro. Ognuno di noi è sin dall’inizio inserito in una comunità pubblica di significati che ci danno la parola. Ognuno di noi è perciò corpo e anima, come dice la tradizione. È l’insieme delle sue gestualità, le quali fanno ma non sanno; gestualità che sono sempre in situazione, entro le loro specifiche distanze di mondo. Ma poi è anche il referente e il proprietario della sua voce, la quale, in realtà, sta dappertutto e in nessun luogo. Il significato ideale della voce non è più mio che tuo, e anzi siamo noi Crispano-urloa esser suoi, identificandoci grazie a lei, alla voce.

La distanza della voce è una distanza panacustica, che risuona sempre idealmente per tutti. Essa è la base di quella visione panoramica che è l’immagine stessa del sapere, così come lo concepiscono la filosofia e la scienza. In questo sapere mi immagino di guardare «da fuori» il tutto: quel tutto che la voce ha preventivamente nominato per tutti e rendendo ognuno partecipe dei tutti, cioè rendendo i tutti tutti. E poi mi immagino anche di toccare e gustare per tutti. Ognuno si figura di essere la vista, il tatto, il gusto universale, e quindi di poterli «dire» a tutti, in quanto appartiene alla voce universale, che dice i poli ideali di tutti e per tutti; cioè, più semplicemente, il sapere di tutti. Voce del sapere che fu la grande scoperta di Socrate, nella quale parla, come diceva George Herbert Mead (che fu il primo ad analizzare in questo modo la voce), l’«Altro generalizzato» e la coscienza pubblica. E interiorizzandola che poi ci scopriamo forniti di ciò che chiamiamo «voce della coscienza».

Nominando l’«Altro generalizzato» (e perciò la differenza io-altri, essendo ogni io l’altro dell’altro) la voce nomina, come abbiamo detto, la cosa stessa, ovvero l’oggetto del sé generalizzato. Proprio quegli oggetti ideali, quelle idee o essenze, che Husserl vedeva accadere in ogni evento dell’esperienza e in ogni vissuto della coscienza. Tutti li esperiamo di continuo, diceva; basta guardarli: ecco il «cubo», nelle sue tre facce evidenti e nelle tre facce nascoste. Tutti lo vedono, solo che abbandonino i pregiudizi empiristici con cui si accecano; tutti esperiscono di continuo essenze e idee, cioè oggetti ideali e formali: basta appunto guardarli. Forse doveva dire: basta ascoltarli.

È in questo senso allora che la gestualità della voce ha la capacità di apophainesthai, di evocare e trar fuori, di far apparire e delimitare la cosa, come diceva Heidegger (lasciando peraltro a noi l’impegno di chiarirne il «come»). Non si tratta evidentemente, o soltanto, della «genialità» dei greci e del potere magico del loro logos; né si tratta del fatto che essi in fenomenologia fossero più avanti di noi. In realtà la voce ha la sua capacità evocativa e nominativa solo in connessione con le altre gestualità e con le loro costitutive distanze, delle quali dice il «come fare». Ma in quanto lo dice, per le peculiarità del gesto vocale, il come diviene subito un «cosa fare» e la cosa in sé, il fenomeno della fenomenologia viene in primo piano. In questo senso dicevamo che la voce è il fenomeno. Potremmo poi aggiungere in margine che è inutile sperare che un computer parli, se prima non lo forniamo di orecchie e magari anche di mani.

(Sini, Scrivere il fenomeno)