Zambrano – Idee e credenze

Mirò-tre-uccelli

… vogliamo, per dirla alla maniera dei poeti, «custodire il sogno»… eppure basterebbe solo un po’ di coraggio per custodire non il sogno, bensì le sue stesse sorgenti, per vedere cosa ci rimane, quando ormai non ci rimane più nulla.

L’inquietudine ci dispone a ciò che di solito teniamo nascosto sotto di essa: quel nucleo di calma, di quiete, quella specie di radice della nostra anima dalla quale spuntiamo senza ricordarcelo.
La vita, infatti, oltre a essere luce, veglia, è anche dimenticanza, mancanza di cura: abbandono, fondo invariabile grazie al quale possiamo sopportare tanta inquietudine, che è quasi felicità, la felicità invisibile che ci consente di sopportare il peso della nostra sventura.

Questo territorio di quiete è senza dubbio il luogo delle nostre certezze, delle nostre convinzioni, di tutto ciò di cui non dubitiamo e che ci sostiene in ogni momento difficile. Perché si è formato?
Il filosofo spagnolo Ortega y Gasset ha distinto fra idee e credenze, trovando che le credenze sono quelle che costituiscono il nostro fondo intimo: «In esse viviamo, ci Biegas-dragomuoviamo e siamo. Da una parte ci costituiscono, dall’altra ci danno la realtà e ci spiegano perché la realtà piena e autentica non è altro che quello che crediamo. Mentre le idee nascono dal dubbio, cioè da un vuoto o da una mancanza di credenze. Ciò che ideiamo pertanto non ha per noi realtà piena e autentica» (Idee e credenze).

Ortega attribuiva la gravità della crisi [degli anni ’30] alla mancanza di credenze, che è solita coincidere con la sovrabbondanza di idee. Secondo questo pensiero, appare completamente chiara la causa della nostra inquietudine. Venute meno le credenze ci viene meno la realtà stessa che attraverso di esse penetra in noi: la vita si svuota di senso e il mondo, la realtà, sfugge via, diviene fantasma di se stessa.
Perciò siamo soli, in una solitudine senza pari; perciò siamo inquieti e inattivi. Ci è impossibili l’azione, un’azione autentica che scaturisca dal fondo della nostra persona. Perfino le parole nascono già intorbidite, e appena pronunciate si rivoltano contro se stesse.

Ciò che è in crisi, sembra, è quel misterioso nesso che unisce il nostro essere con la realtà, talmente profondo e fondamentale da essere nostro intimo sostento. La crisi ci insegna anzitutto che l’uomo è una creatura non formata una volta per tutte e non terminata, ma neppure incompleta e con un limite stabilito. Non siamo stati terminati e non ci è chiaro che cosa dobbiamo fare per completarci; non è stato stabilito come dobbiamo ultimare noi stessi. Siamo cioè problemi viventi, in un tempo che non smette di passare e con un’esigenza urgente, anche se per nostra sventura può essere disattesa. La stessa realtà, che sembra tanto stabile, che ci circonda ovunque e ci attornia, può anche perdersi, svanire fino a diventare problema.

La realtà si fa problema perché abbiamo perso noi stessi o, al contrario, perché l’abbiamo perduta perché, non essendosi realizzato il nostro mondo, siamo rimasti Earth-ragazza-smarritavuoti?
Problema di sempre, che la crisi, come ogni cosa essenziale della vita umana, ha messo più in evidenza.

Nelle credenze, secondo Ortega, si colloca la zona in cui s’inseriscono la realtà e il nostro essere, in cui la realtà giunge fino a noi, ci si fa presente. Il pensatore argentino Francisco Romero interpreta la realtà come trascendenza. Dai gradi più umili dell’essere la trascendenza si mostra come carattere ultimo della realtà che comincia a manifestarsi in ogni complesso o struttura in cui il tutto è qualcosa di più della somma delle parti, che si compenetrano l’una nell’altra trascendendosi.

Questo carattere trascendente della realtà ci chiarirà il perché della solitudine in cui ci ritroviamo nelle epoche di crisi: è semplicemente l’impossibilità di trascendersi in cui si trova la nostra vita. Ci siamo chiusi di fronte alla realtà ed essa si nasconde a noi, mentre la realtà della nostra vita, che è il punto più alto di questa trascendenza, rimane a sua volta in sospeso.

Così sembra. La realtà non può essere isolata e inattiva e il suo primo carattere deve essere, come dice il professor Romero, la trascendenza. La trascendenza non è altro che la capacità che hanno gli esseri di uscire da sé oltrepassando i propri stessi limiti, lasciando l’impronta di un altro essere, producendo un effetto, agendo oltre se stessi, come se l’essere di ogni cosa terminasse in un’altra; trascendenza che si acuisce e giunge all’estremo nella vita umana, nella «irrefrenabile inclinazione della persona». Tale inclinazione irrefrenabile forse non può mai essere adeguatamente compiuta; se però rimane incompiuta al di sotto di un certo limite, la vita umana sprofonda nell’inquietudine e nella solitudine, in una solitudine e in un’agitazione sterile.

L’inquietudine è ansia di trovarsi dappertutto, di agire ovunque senza trovarsi in realtà da nessuna parte. Manca un minimo di realtà a cui appoggiarsi, su cui fissare il nostro slancio.
Ciò che Ortega ha chiamato il più grande tesoro dell’uomo, cioè quella «sua divina insoddisfazione» che sicuramente non è altro che questa sete di trascendenza, deve avere a quanto pare un certo supporto e anche un certo orizzonte, un contatto o una comunione con quanto ci circonda.
Siamo però giunti al punto più inquietante: perché esiste questa sete di trascendenza? E questa necessità di realtà? Di che sostanza siamo fatti se poi possiamo de-realizzarci? E perché scorre inesauribilmente in noi quest’ansia di trascendenza?…

Abrahamsen-trascendenza

Osservando ciò che rimane al nostro interno sotto le credenze e pure sotto il dubbio, sotto l’inquietudine e nella stessa quiete, scopriamo che è qualcosa il cui nome più adeguato sembra essere quello di fiducia, fiducia in tutto e in niente, fiducia pura, la cui ricchezza illimitata ci lascia supporre che sia inesauribile.
Fiducia originaria che è nata con noi, come se fosse il sostrato primigenio del nostro essere.

Anche se tale fiducia è depositata nelle credenze, che sono il suo ricettacolo, il suo deposito o la sua consistenza, non dipende da esse. Al contrario, qualunque credenza si erge da questo tesoro di fiducia congenita, da questa innocenza originaria e verginità dell’anima: «L’essere umano è per costituzione fiducioso», dice Ortega; pertanto, in fondo a tutto, perfino nel dubbio stesso, si annida silenziosa, inesauribile, la fiducia.

Qualunque tipo di sfiducia o di dubbio si produce su questa fiducia precedente. Le credenze, per vere che siano, non possono conservarsi se non grazie a questa previa inclinazione a cui ci abbandoniamo, in cui dimentichiamo noi stessi, oltrepassando i nostri limiti, anzi senza limiti, totalmente aperti a qualcosa a cui poi finiamo per credere.
fiducia-ciecaQuando crediamo, ciò in cui crediamo ci si impone, lo accettiamo come se venisse dall’esterno, esattamente così com’è, senza che perciò abbia avuto bisogno di contare su di noi.

Questa fiducia iniziale è talmente generosa che si dimentica di se stessa e si annulla di fronte all’accettazione dell’oggetto, di fronte alla sua presenza. Ma senza questa disposizione ad accettare e a «fidarci» di tutto, niente, per quanto certo, può essere creduto, come dimostrano chiaramente le situazioni storiche in cui si è chiuso il fondo intimo della fiducia. Fiducia che è amore e arriva a essere schiavitù.

Ogni credenza si fonda su ciò che produce in noi, sull’intima apertura a quanto c’è, la cui maggiore o minore ampiezza delimita la maggiore o minore realtà su cui facciamo conto. Le anime meschine sono tali per la ristrettezza di questa fiducia iniziale, poiché la realtà, nella sua pienezza, è legata a tale capacità di accettazione, oblio e amore, a questo tesoro divino di fiducia e abbandono.
Oblio e abbandono che diventano, in coloro che sono stati chiamati mistici e santi e anche in alcuni filosofi, una vera e propria schiavitù nei confronti della realtà o di un qualche genere di realtà che solo così si mostra loro nella sua pienezza. I mistici si appoggiano sempre a questa quiete dell’animo, necessaria affinché la realtà suprema, divina, penetri in esso.

Ora, senza entrare nel merito di tale affermazione, e senza mettere in discussione la «credenza», quello che è indubitabile è il fatto che l’attitudine della vita umana che denominiamo fiducia rappresenta il luogo in cui la realtà ci appare. Tanto più ampia è la fiducia, quanto più grande la realtà di cui godiamo.

(Zambrano, Verso un sapere dell’anima)