Finché Buddha resta per me uno degli spiriti più profondi dell’umanità, e non una testa balzana e un semplice pessimista contestatore alla Schopenhauer, non posso mettere il nucleo originario della «sofferenza» sullo stesso piano delle sensazioni di dolore e di disagio; e ciò, sebbene non si possa negare che sono anzitutto i fenomeni che suscitano positivamente disagio, dolore, sofferenza, orrore, paura, a essere portati come esempi e testimonianze che il mondo stesso è «sofferenza» (per es. fenomeni come malattia, povertà, morte, perdita di cose o persone care…).
Il nucleo di quest’idea di sofferenza è invece molto più formale; esso va anche molto al di là dell’esperienza interiore dell’uomo, e dentro questa stessa esperienza abbraccia molto di più che non le componenti di disagio e di dolore della vita dell’uomo. Esso abbraccia tutto ciò che colpisce l’uomo da fuori – con un potere apparentemente irresistibile – ciò che soltanto lo tocca, tutto ciò che – nel senso etimologico del termine – «affetta» (afficit) l’uomo; esso abbraccia tutta la «violenza» che sull’uomo esercitano figure e cose autonome e reciprocamente connesse, o condizionate da relazioni causali. «Sofferenza» [patimento] è l’antitesi di «attività», di «operosità», più che di piacere.
Si capiscono così, tanto per cominciare, tre cose: anzitutto, che non sono state sicuramente esperienze personali e concrete di Buddha a spingerlo a formulare la dottrina che il mondo è sofferenza. Il mito ce lo descrive prima della conversione in una situazione di massimo splendore; e ciò che lo porta alla conversione è soltanto la contemplazione e, attraverso la contemplazione, la compassione per casi puramente esemplari di sofferenza nel mondo.
In secondo luogo, si capisce come mai a quello che soltanto con grande cautela si può chiamare il «pessimismo» buddhista manca in ogni caso qualsiasi forma di protesta, di denuncia, di colpevolizzazione del mondo (e di un autore del mondo, che comunque qui non esiste); anzi, non affiora neppure l’idea che il mondo possa anche avere una condizione diversa, possa anche essere altro da quello che è, per esempio «migliore».
L’idea di Schopenhauer, secondo cui questo mondo, quanto alla sua condizione, è «il peggiore dei mondi possibili», è lontana dal buddhismo non meno di quanto lo sia l’idea di Leibniz, secondo cui esso è «il migliore dei mondi possibili». Infatti non è la sua condizione o modalità di esistenza (So-sein, l’«esser-così») ma esclusivamente l’autonomia della sua stessa esistenza (Da-sein, l’«esser-ci»), cioè la sua (apparente) indipendenza assoluta dal nostro raggio d’attività spirituale, a costituire – in antitesi a un possibile mondo che sarebbe interamente determinato da atti spirituali puramente interiori – la radice propria e ultima della sofferenza: è infatti, questa sofferenza, il subire la (apparente) resistenza delle conformazioni del mondo che si presentano «come» autonome nel loro esistere.
In terzo luogo, si spiega così come venga qui interamente a mancare ogni idea di un bilancio tra piacere e dolore, che sottende invece il pessimismo metafisico di Schopenhauer e di Hartmann, e come al culmine dei gradi di liberazione – di quella liberazione che ha sempre due facce: l’essere dell’io e l’essere del mondo – non vi siano più neanche le forme più pure del piacere, cioè serenità, pace, quiete, che accompagnavano invece i gradi precedenti di meditazione.
Ciò che si rimprovera al piacere non è di essere piacere – invece che dolore – ma di essere un’affezione, così come il dolore e la sofferenza; e se dal punto di vista pedagogico ed educativo l’accento cade sul piacere più che sul dolore, è perché esso infiamma e alimenta la sete dell’attaccamento e il suo necessario correlato, l’incantesimo, dando rilievo all’apparente autonomia dei contenuti mondani, mentre il dolore contemplato esemplarmente (non quello realmente sofferto), per es. morte, vecchiaia, perdita della persona amata, ecc., ha l’incommensurabile valore di spegnere lentamente la costante seduzione ad attribuire automaticamente ed istintivamente l’esistenza al mondo, e di sopprimere in questo modo la fonte comune di tutte le affezioni.
In questo quadro il piacere è «peggiore» del dolore soltanto perché è allettamento e seduzione a considerare realmente autonomo nel suo esistere – a causa del fantasma dell’ingannevole desiderio – qualcosa la cui presenza o meno dipende invece dal potere spirituale che noi esercitiamo su istinti e impulsi istintuali; e il dolore non è buono perché è dolore, ma perché può liberarci più ampiamente dalla radice di quest’illusione intellettuale che ha come correlato il fantasma di un mondo che vuole imporcisi senza prima «chiederci il permesso».
Sofferenze contemplate – non realmente vissute – e in misura ridotta a pochi esemplari – un morto, un malato – hanno valore di iniziazione, perché ci insegnano con l’esempio più chiaro (l’esempio del «male») una verità molto più generale: chiariscono ai nostri occhi la menzogna dell’esistenza autonoma del mondo. Detto in forma positiva: esse riportano il mondo, quanto alla sua esistenza o non-esistenza, alla sfera di dominio della nostra attività spirituale, di cui i nostri desideri ci hanno inconsciamente privato.
Il fenomeno originario della scoperta di Buddha è perciò il legame intrinseco tra dottrina della conoscenza e dottrina della salvezza, legame che soltanto le tecniche del patire fanno emergere. Questa teoria della conoscenza è un realismo integrale dell’esistenza del mondo; e questa dottrina della salvezza è un idealismo integrale della norma e della missione di una vita. Il mondo è originariamente realtà, ma deve essere ideale, deve diventare immagine: deve diventarlo attraverso l’attività dello spirito.
Sappiamo come sia lontana dall’idealismo di Kant e di Schopenhauer la profonda parola di Novalis: «Il mondo non è un segno ma deve diventarlo»; infatti, essi considerano visione teoretica quella che per Novalis è invece l’obiettivo di un’attività interiore e un cammino di formazione basato su questa attività.
La dottrina di Buddha è ancor più lontana da questo idealismo tardo-occidentale. Il fenomeno originario della scoperta di Buddha è questo: il silenzioso discorso delle cose del mondo: «Noi siamo», «Noi esistiamo a prescindere da ogni tuo sapere – e da qualsiasi sapere – su di noi», questo loro parlare alla coscienza ingenua è «propriamente» una «menzogna» (samsâra), un fantasma, l’irrigidimento del nostro desiderio, che risale o ai nostri desideri e attaccamenti individuali, alla nostra «sete», o alla «sete» dei nostri antenati passata in noi con la procreazione, in ogni caso a una attività dell’uomo: un’attività diventata involontaria, automatica, ma in linea di principio ancora arrestabile attraverso il «santo».
La resistenza (cioè la realtà) non è altro che la risposta del mondo a questa involontaria attività dell’uomo. La dottrina secondo cui ogni esistenza è conseguenza e frutto di azioni è, da una parte, la premessa logica per affermare che l’attività inerente a questi atti può essere davvero arrestata mediante l’«esodo» dell’io dal nesso causale, mediante l’atto di instaurazione della «santa indifferenza», mediante il conseguimento della separazione e del «distacco» del nucleo più profondo dell’io da questa catena di dannata «causalità».
Dall’altra parte – sulla linea evolutiva del pensiero di Buddha – tale dottrina non è altro che l’infrastruttura razionale successiva dell’originaria e intuitiva certezza della salvezza, la certezza che l’uomo possa e sia capace di compiere con le forze più profonde del suo spirito l’atto del distacco essenziale dal miraggio del nascere e del divenire, e dalla catena causale conclusa e infinita.
Infatti, è questo l’assioma che regge l’intera dottrina di Buddha: «Soltanto ciò che poggia sull’azione può essere cambiato o soppresso mediante l’azione».
«Eliminazione della sofferenza» non è dunque altra cosa che lo smascheramento di quella «menzogna» oggettivata, di quel fantasma, di quella parvenza che le cose impongono alla conoscenza spontanea facendosi passare per autonome nel loro esistere e nel loro agire; eliminazione della sofferenza significa porre il vuoto del «nulla» proprio lì dove e quando prima le cose splendevano belle e arroganti nella loro [mendace] autonomia (per cui il nulla non è il non-essere-qualcosa, ma soltanto la «non esistenza» in quanto non-più-resistenza delle cose).
Perciò il completo dominio spirituale sul mondo e il nulla = nirvana sono correlati rigorosamente paralleli, in quanto frutti del «sapere» perfetto. Ciò che Buddha chiama «sapere» non è né «partecipazione» né «rappresentazione» né «designazione», né attività di «ordinare e plasmare». È esclusivamente eliminazione del carattere di esistenza del mondo attraverso il taglio del cordone di desiderio che ci lega al mondo e ne rende possibile l’esistenza, è la rimozione del gioco e del conflitto di questo mondo ancora presente e comunque ancora causalmente collegabile col «presente»; ed è quindi, in secondo luogo, l’eliminazione di principio del giudizio d’esistenza (in quanto sua affermazione o sua negazione).
Anche qui è evidente la differenza dal pessimismo dell’Occidente, che è un semplice movimento di reazione al tratto principale del suo ottimismo. Per Schopenhauer e Hartmann la dottrina di salvezza è la negazione del mondo come conseguenza della conoscenza del carattere alogico della sua esistenza.
Buddha non insegna una dottrina del genere. Egli si colloca al di là di esistenza e non-esistenza, al di là di affermazione e negazione del mondo. La santa indifferenza come frutto della conoscenza della contraddizione irriducibile tra il puro sapere e il suo correlato, cioè il non-esistente e il «non-non-esistente», è il nirvana, che costituisce per lui lo scopo della redenzione, e che soggettivamente è «spegnimento».
Un momento della tecnica qui contemplata si ritrova in Spinoza e in Goethe, senza però il contesto pessimistico orientale e basato invece sull’ottimismo nei confronti dell’esistenza. Il loro fondamento teoretico è che l’affetto può installarsi soltanto in «rappresentazioni e pensieri confusi e oscuri», cioè in una carenza di attività della ragione in noi. Perciò – ecco la conseguenza – l’affetto deve essere sciolto integralmente dalla penetrazione e oggettivazione chiarificatrice, come una nebulosa stellare si dissolve, ad esempio, al telescopio, in un mosaico di stelle.
Questo cammino ha certamente radici nei fenomeni della nostra vita interiore. Ogni aggressione e penetrazione dell’io da parte della sofferenza sembra diminuire quando noi guardiamo in faccia, dritti e senza paura, al dolore e al suo polo oggettivo, quando lo stacchiamo da noi facendone un oggetto e, come isolandolo con un muro di cinta, gli impediamo di contaminare tutta la nostra vita. Anche qui, un aumento di attenzione porta il sentimento a sciogliersi.
Ma questa strada non porta lontano, e la sua base teoretica è errata. I sentimenti non sono «pensieri confusi». C’è una profondità e una forza di sofferenza contro cui si spezza l’azione; anzi, aggredendo invece della sofferenza stessa i suoi oggetti, si ottiene perfino l’effetto contrario: rimozione, concentrazione e condensazione della sofferenza in una massa senza oggetto, pencolante nell’animo. E ci si può chiedere se il progressivo pessimismo dell’evoluzione spirituale dell’Oriente non sia stato prodotto proprio da questa tecnica del patire esercitata per secoli e secoli. Ma soprattutto: dove si attinge la forza per espellere la sofferenza, se non da una felicità profonda e germinale? Ogni superamento del soffrire è effettivamente conseguenza di una felicità profonda, non sua causa.
E la rassegnazione, amara o dolce, che tutto sopporta, quella rassegnazione che è un cammino raccomandato volentieri da Schopenhauer sulla scia dell’Oriente?
Questa «consolazione» è problematica. In ogni caso è più elevata l’anima che nella sofferenza si ritira e si appaga di soffrire da sola, pur vedendo la gioia attorno a sé; l’anima che sente così raddoppiato il peso della progressiva comunione col patire.
(Max Scheler, Il dolore, la morte, l’immortalità)
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Le «cose» ci sono – ma non sono. A dare loro credito di esser-ci – non un credito qualunque, ma la credenza su cui si regge la loro esistenza – siamo noi, macchine linguistiche umane. Siamo noi che diamo alle «cose» una possibilità, un «luogo» in cui possano esserci, loro e noi. Ma su questo «luogo», proprio in quanto luogo del «poter-essere» (e quindi del poter anche non-essere), incombe l’ombra dell’«ala sinistra di Gabriele», il lunatico riflesso dell’«astro» della Notte (come i sogni alla luce del sole, il possibile, il contingente, il casuale svanisce dinanzi al necessario).
Buddha dice: il mondo che è, il mondo necessario (non il migliore né il peggiore dei mondi possibili), il mondo che non esiste in nessuna delle nostre credenze, il mondo che non è ciò che noi chiamiamo «mondo», ma piuttosto il suo Altro, il suo Sconosciuto – è fuori di noi solo se contemplato al chiarore delle nostre lunatiche illusioni. Il mondo necessario è quel che «è» nel suo essere necessario ciascuno di noi: però tu lo vedi solo alla luce dell’«ala destra di Gabriele». Perciò, mi raccomando, disse da ultimo Buddha: niente parole!
Ma come possiamo noi, macchine linguistiche umane, macchine parlanti, giungere a riguadagnarci quel Silenzio, o quantomeno a farcene una sia pur vaga «idea», se non attraverso le parole? Come potremmo anche solo farci strada tra le parole e sperare di raggiungerlo, se tra i Verbi Maggiori della nostra Parola, tra quei Verbi Muti che la tradizione chiama Intelligenze o Arcangeli, non «parlasse» già – in quegli strati più profondi del nostro infralinguaggio – qualcosa come la nostalgia?
Cosa può spingerci a «guardare» e soprattutto a «udire» quel che succede laggiù, dove il mondo non è più ciò che noi chiamiamo «mondo», ma solo, niente di più e niente di meno che «sofferenza»? cosa, se non un voler di nuovo patire quella passione là – che ci faceva «soffrire» a essere senza essere ancora niente di quel che «si dice»?
Buddha parla bene, ma chi lo intende? Chi ha letto e praticato la dottrina buddhista? Chi s’è fatto monaco zen? Chi ha scalato la Montagna delle Virtù e delle (Otto) Beatitudini? Chi ha appreso a passeggiare sulla convessità della Nona Sfera? Chi si è rasato i capelli e si è vestito arancione? O chi a tutto l’Umano, a tutto ciò che l’Uomo ha scritto e riscritto, detto e ridetto, sul mondo e sulle «cose» che ci sono, s’è riconquistata la sua «originaria» indifferenza, per tornare a compatire quella passione là?
Fummo, dunque, una volta indifferenti – non c’era differenza tra noi e il mondo, non eravamo presenti a nessun «mondo», e a nessuna «cosa», eravamo un unico «essere»… e soffrivamo una sola sofferenza, pativamo un’unica passione. Senza conoscerci, senza distinguerci, senza parlarci – obbedivamo al dolente/indolente ritmo della Corrente.
Poi, chissà come, venne il «piacere» a marcare una differenza. Venne per caso il «piacere» e ci distrasse dalle vecchie abitudini alla sofferenza, dalle sofferte ripetizioni a soffrire quella sofferenza là – quella che là non era la mia, la tua, la sua, ma la sofferenza dell’Arcangelo (la passione del Gesù patibile, direbbe qui un manicheo). Era la sofferenza che l’essere patisce a essere. Non questa o quella sofferenza che si patisce nell’esistenza, che ne è soltanto l’ombra, la parvenza, un riflesso – ma la sofferenza che «è» essere.
Perché essere è patire (tutto il resto sono scuse, nient’altro che trappole che le parole ci tendono, in agguato nel buio, nascoste nell’inconscio, nell’istinto di morte del «piacere»).
Essere, disse Buddha poco prima di arrendersi al silenzio, è compatire. Basta con tutte queste chiacchiere. Sono le chiacchiere della viltà e della paura. Si attaccano alla vita, si appiccicano al presente e alla Ruota dei possibili, pur di negarsi alla sofferenza di cui, a loro insaputa, continuano a soffrire negli strati più profondi del loro stesso «mentire».
Questo «appiccicaticcio» che ritorna in ogni attaccamento, questa vischiosità che ci «apprende» (e dove, se non nel «piacere» che scopriamo quando sulla scena compaiono le Seduttrici del Terzo Cielo?), prima di diventare la mia, la tua, la sua «abitudine» a dare credito all’esistenza delle «cose», è all’opera nella Macchina Linguistica. È il linguaggio stesso che si compiace a tornare su ciò che gli è piaciuto «dire» una volta. Gli basta quel solo esempio, quell’unico «caso» di piacere contingente a mettere sottosopra la sua vecchia «sintassi», quella della compassione silente e della nostalgia d’intendersi senza parole.
Prima di te e di me, molto prima, tutto questo adescamento era già accaduto infinite volte nel Linguaggio della Specie. Infinite seduzioni lo avevano già tentato. Ecco perché ci attacchiamo così facilmente a quello dicono le nostre parole. Sono le parole dei morti che sono rimaste attaccate alle loro seduzioni, e che ci dannano a esser sedotti dai loro «balocchi»: ah, non lo poteva sapere Pinocchio prima di entrare in quel Paese! Non poteva sapere che, nominando gli «oggetti» a cui i suoi antenati per millenni avevano dato credito di res, di «presenze reali», autonome, esistenti fuori, al di là e a prescindere dalle sue «contemplazioni», avrebbe finito per prendere pure lui il vizio di crederle «reali».
Il Problema non è il «piacere», non è il «desiderio» di per sé, non è il porco che accompagna sant’Antonio all’inferno – ma l’insistenza a tornare sul «posto» piaciuto (là dove il Santo ha incontrato le Signorine del Terzo Cielo, le Forme e le Apparizioni di Bellezza). Il Problema è l’«irrigidimento», la «fissazione» mnemonica, di un anelito o di un desiderio.
Ma, ancora una volta, non si tratta del tuo o del mio «cocciuto» battere sempre su quel chiodo (la libido di Freud). Si tratta di un’Abitudine, di un Vizio, della Macchina Linguistica. Scheler dice che lo ereditiamo dai nostri antenati attraverso la procreazione. Ma non è una questione di «geni» o di dna. È la Langue a «rigenerare» la parole in ciascuno di noi, riproducendo i suoi abituali «rapimenti»: Amor che al cor gentile ratto s’apprende…
Quel «ratto» la dice lunga: il salto dal secondo al terzo cielo della Parola è istantaneo. Il passaggio dalle scritture ermetiche (ovvero da ciò che il Linguaggio ci ha scritto addosso quando eravamo in età di doverlo, o – il che è lo stesso – di poterlo solo patire) alle veneree sovrascritture, letteralmente agli «anagrammi» con cui poetiamo la nostra prima parole, è folgorante.
Saranno millenni che la Langue lo «prende» e lo «fa» quest’abbaglio: è il suo modo di distrarre i bambini dall’«autismo contemplativo». Li strappa all’indifferenza, grazie alla sola potenza «luciferina» di cui dispone per «fare la differenza»: i nomi di Bellezza, ossia i vocaboli che si compiacciono di ciò che evocano; le parole che più si attaccano all’immagine che nominano, e dunque le più restie, le più lente, a rientrare all’ovile; le pecorelle che più facilmente si smarriscono.
Basta che un’eco della Langue, di una qualunque voce dei morti, risponda per le rime a un’intima in-vocazione – basta che dalla Montagna delle Credenze già credute, all’appello del desiderio ardente risponda il fruscio di una qualunque ala di uccello o di angelo (comunque, di volatile) che, ecco, la Langue coglie a volo l’occasione per «rigenerare» la sua propria genesi eterna: ossia la sua propria fuga nella credenza che crede (in malafede) all’esistenza delle «cose», e niente poco di me che… delle «cose piacevoli».
La Langue mira all’oblio totale della sofferenza. Ma quante sofferenze ci costa – si chiese da ultimo Buddha – questo suo cocciuto darsi da fare e da pensare, e soprattutto da mentire, fingendo di non sapere che essere è patire, e che la sola passione dell’essere è la nostalgia. La nostalgia di quando una sola compassione era tutto l’essere.