… questi nobili Signori, da dove si sono degnati di venire?
Il Sapiente mi rispose: «Veniamo tutti dal Paese del non-dove».
(Sohrawardî, Il fruscio dell’ala di Gabriele)
Sohrawardî ha coniato in persiano il termine di Nâ-kojâ-âbâd, letteralmente il «Paese del non-dove»: non-dove, certo, vale a dire fuori dal luogo fisico determinabile mediante le coordinate dello spazio sensibile, e pur sempre un paese (âbâd), dunque un luogo, quello in cui «hanno luogo» gli avvenimenti e i viaggi visionari. È uno spazio spirituale in cui vi sono ugualmente distanze e lontananze, ma che si superano, rimanendo immobili, in funzione della maggiore o minore intensità del desiderio.
Certo, come tutti gli autori che si raffigurano le cose secondo l’Imago mundi di Tolomeo, anche Sohrawardî afferma che il mondo immaginale inizia in corrispondenza della superficie convessa della Nona Sfera [Primo Mobile]. Nondimeno, si tratta di un modo assai efficace di farci comprendere che esso inizia al confine in cui si esce dalla cripta cosmica.
Sì, ma che tipo di paese, di luogo, può esservi nel Nâ-kojâ-âbâd? Che significa dunque passare nel Nâ-kojâ-âbâd?
È appunto oltrepassare il limite a partire dal quale il pellegrino, invece di trovarsi nel luogo, ormai è egli stesso il luogo. Uscire da questo mondo (andare al di là della Nona Sfera), significa non essere più nel mondo, significa avere ormai il mondo in se stessi, essere il luogo del mondo, ed è proprio questo lo spazio immaginale, lo spazio in cui l’Immaginazione attiva dispiega liberamente le sue visioni e le sue epopee.
Il cerchio in cui essa le dispiega è infatti per sua natura un cerchio il cui centro è al tempo stesso la periferia, giacché questa è la proprietà specifica dei cerchi spirituali, a differenza di quelli materiali.
Si tratta di una rappresentazione che deriva direttamente dall’opera di Plotino nota in arabo e in latino con il nome di Teologia detta di Aristotele. Essa ha portato un maestro iraniano di gnosi sciita quale Qâzî Sa’îd Qommî (m. 1691), così come un maestro tedesco di teosofia mistica cristiana quale Valentin Wiegel (m. 1588), a valorizzare alla stessa maniera questa specifica idea del cerchio spirituale in cui il centro e la circonferenza coincidono.
Qâzî Sa’îd Qommî ha mirabilmente sviluppato questa idea analizzando la struttura spirituale del Tempio della Ka’aba quale centro e al tempo stesso involucro del mondo.
Dal canto suo, nel suo grande trattato Sul luogo del mondo, Weigel ha analizzato la differenza che c’è tra occupare un luogo e riempire un luogo. Una sostanza spirituale riempie un luogo senza occuparlo. In tal senso, più sostanze spirituali possono riempire lo stesso luogo; ciò perché lo spirito comprende, avvolge il suo proprio luogo, è esso stesso il suo proprio luogo. È impossibile che lo spirito sia racchiuso in un corpo. Il mondo non hai mai potuto racchiudere un solo Angelo. In compenso, lo spirito avvolge tutti i corpi.
Essere il proprio luogo senza essere nel luogo, ecco cos’è essere simultaneamente il centro e la circonferenza.
Questo è il significato di Nâ-kojâ-âbâd, ed è per questo che Nâ-kojâ-âbâd è il «luogo» dei nostri racconti visionari.
Già la Teologia detta di Aristotele, meditata e annotata da un Avicenna come da un Qâzî Sa’îd Qommî e da un Weigel, affermava che ciascuna delle entità spirituali «residenti nel cielo al di sopra del Cielo Stellato [ossia il Nâ-kojâ-âbâd], è nella totalità della Sfera del proprio Cielo, pur avendo un posto determinato [pur essendo il suo proprio luogo], distinto da quello della sua compagna, a differenza delle cose materiali che si trovano sotto il Cielo astronomico».
Non meno chiaramente si trova enunciata in un trattato medioevale attribuito ad Ermes, il Libro dei XXIV Maestri, la duplice tesi che «Dio è una Sfera in cui si trovano altrettante circonferenze che punti», e d’altra parte che «Dio è una Sfera infinita il cui centro è dappertutto e la circonferenza da nessuna parte».
È un’affermazione che ha avuto larga risonanza nella storia della filosofia, senza che la si sia riferita a quanto qui ci interessa. Impossibile definire meglio la paradossale identità del centro e del cerchio, ed è in ragione di tale identità che, nel Racconto dell’Arcangelo imporporato [«L’Intelletto rosso»], l’Angelo dichiara al visionario: «Per quanto lontano e a lungo tu vada, è al punto di partenza che giungerai di nuovo». Giacché proprio questo vuol dire «essere nella totalità della Sfera del proprio Cielo».
Quel che qui ci interessa è afferrare come l’idea del viaggio spirituale presupponga fin dall’inizio, e alla fine imponga, questa metamorfosi dell’idea di luogo, e come tale metamorfosi sia coerente con tutta una metafisica dell’immaginale. Tale metamorfosi è del resto quella del Soggetto conoscente. Anche per questo ci viene detto che tale metamorfosi è condizionata dalla nuova nascita, la nascita spirituale.
Al termine del viaggio chiederemo: «Dov’è il neonato?». È la domanda che, verso la fine del loro cammino seguendo la stella, giunti a Gerusalemme, pongono i Re Magi (Matteo, 2: 2). Non vi si può rispondere che secondo l’ottica di ciò che Paracelso chiama astronomia caelestis. Così, in accordo con Mastro Eckhart e Taulero, come con ‘Attâr, Sohrawardî e Qâzî Sa’îd Qommî, all’interrogativo posto al termine del viaggio spirituale: «Dov’è colui che è nato una seconda volta?», la sola risposta è questa: «In nessun altro luogo che in se stesso».
(Corbin, L’Iran e la filosofia)
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È l’intensità del desiderio – dice Corbin sulla scorta dei suoi «maestri» iraniani – è l’«energia» all’opera nel Reame degli aneliti e delle emozioni, a dischiudere alla visione del viandante quel «posto» che, a quanto pare, manca da sempre al Racconto – il luogo che non c’è, e che ciò malgrado, o forse proprio perciò, dà un Oriente al nostro «esserci»: il luogo dove tutto è allo stato di Ritmo, ossia di puro «essere», immobile e tuttavia inquieto, dal momento che è percorso da ogni sorta di movimento del desiderio (tutto scorre nella Sua corrente); il luogo che i «mistici» a lungo hanno meditato (compreso il nostro Dante) sulla falsariga di quanto aveva detto l’«astronomo» Tolomeo del Primo Mobile: movente non mosso – come diece da mezzo e da quinto, sezione aurea, ecc. Ma forse fu proprio questo il limite «lessicale» delle loro meditazioni: l’essersi cioè contentati di una rappresentazione dello spazio fisico, anziché assecondare la loro intuizione, diciamo così, più moderna.
L’intuizione che il desiderio non è immobile, che il desiderio non è mai lo Stesso – che, anzi, da qualunque parte lo prendi, con le buone o con le cattive, esso è il Differente, il Mutante, il Traslocante, capace di essere a modo suo presente a tutti i propri mutamenti d’«intensità», e capace – soprattutto – di mettersi al proprio passato e, in questo modo, di dare un fondamento a ogni sua illusione di «presenza» a un mondo.
Non è un caso se l’ultimo dei Platonici d’Occidente, il nostro compianto Deleuze, proprio da qui è ripartito: non dal Desiderio come entità statica, movente in sé immobile, identica e immutabile – ma dalle sue variazioni di frequenza, dalle sue «intensità» d’onda, più o meno travolgenti.
Perché il Desiderio è in-tenso. Prima di ex-tendersi nel mondo, prima di posarsi su una «res extensa», il Desiderio è, in sé, tensione.
Tensione di un suo proprio spazio «cogitante», di quello che Corbin chiama lo «spazio immaginale» dei viandanti visionari. Tensione di uno spazio che è dentro la loro immaginazione.
Ma è là dentro, bisogna domandarsi, da sempre, innato nel loro cogito, come dote naturale, o questo spazio trascendentale sorge solo dopo l’«incontro di un Angelo»? d’altronde, che senso avrebbe parlare di un viaggio, o di una «seconda nascita», se il Desiderio fosse fuori dal tempo? Cioè a dire: fuori dal Racconto – dal momento che il Tempo è nel dire del Racconto?
In-tendendosi, il Desiderio si differenzia in se stesso da se stesso, o è l’Altro, il Soggiacente che giace sul fondo della mente del viandante, il Morto che parla dalle voci del Racconto che si sono depositate nel suo sentito dire, a scandirgli da laggiù, a sua insaputa, i «possibili» della sua voce interiore, ovvero le «bugie» inconsce a cui essa può dare esistenza viva e vera solo grazie all’eco che da laggiù ritorna, dal Passato [di Esaù, dell’Altro, del Primogenito che fu]?
Se in-tendere è comprendere, lo è però nel senso che Mastro Dante attribuisce alle moventi del Terzo cielo, quello di Venere – e chi più di Venere è figura, divina figura, del Desiderio? L’in-tendere del Desiderio è la sua propria comprensione nello spazio che la sua stessa «intensità» è capace di darsi mentre, come suol dirsi, è sotto la botta impressionato. E perciò, quanto più si tende nello spazio intimo delle sue «impressioni», tanto più il Desiderio si de-vasta, si trova cioè a dover patire la sua simultanea presenza a due «vastità» differenti: il cielo e la terra, il Passato dell’Altro e il suo proprio individuale Presente, l’Essere necessario (come mamma natura l’ha fatto) e l’esserci (il poter godere di una gioia viva e presente).
Voi che intendendo il terzo ciel movete
In-tendere può, a occhi chiusi, solo la voce che segue il Desiderio fino alla «confluenza dei due fiumi», fino alla sua passione de-vastata dallo strabismo «erotico». Altro che perplessità logica, come interpreta Platone, altro che la fatica intellettuale di rimettere ordine nella confusione di «oggetti» opposti, altro che la facile promessa di un ritorno all’Idea Pura, alla Luce senz’ombra dell’ala dell’Angelo, al di là del tempo. La voce del Primogenito era infatti già in viaggio, già oscillava nelle sue «monotone» ripetizioni, quando fu tentata da un altro «ritmo». Portami!, le disse quel ritmo scandito dalle «stelle» del Terzo Cielo, oh sì!, le Seducenti apparizioni nel segno di Venere. Le disse: Portami dove vuoi! Per tutto lo spazio di cui sei capace, noi due ci intenderemo.
Trovarsi simultaneamente – ubiquamente – al centro e alla periferia, di fronte all’Angelo e al Diavolo, nella Notte insieme bianca e nera: solo la voce può farsi carico di questo «strabismo». Solo essa può in-tendere i richiami che le «inviate» di Venere vengono a sovrascrivere alle «scritture» di Ermes (quelle del Secondo Cielo).
Solo la voce è capace di sostenere la loro «paradossale identità», perché sono due cieli «ideali» a incontrarsi, due ritmi «incompatibili» a scontrarsi: le «volontà» del cielo di Mercurio discordano dalle nuove pretese «inguinali».
Solo nella voce possono confluire questi due fiumi: sull’onda dell’eco del Passato che i morti rimandano da laggiù, da dove il linguaggio umano, come la fenice, a ogni istante rinasce dalle sue ceneri, basta che venga a galla una sola sillaba per sostenere alle «volontà amorose» un’illusoria presenza a un «oggetto» di desiderio.
L’oggetto semplicemente non è, eppure c’è. A dare esistenza, a dare un «ci», un «luogo» ove esserci, un Oriente a cui orientarsi, una prima «coscienza», un primo «in-tendersi», alle nuove ondate «erotiche», sono proprio le vecchie «scritture» quelle patite nei primissimi tempi dell’infanzia.
La loro «discordanza», solo la voce la può in-vocare simultaneamente.
Noi siamo i fogli presenti del Vecchio Testamento, disse Gesù al suo discepolo perplesso.
È il Racconto a lasciarci un «resto» del Passato, un’oncia della sua propria «materia trascendentale»: sta a noi riscriverla, a noi darle o sottrarle futuro. È questa «voce» che fa eco a se stessa, è essa sola a scoprirsi insieme il centro e la circonferenza del Testamento, il Passato Eterno del Desiderio Umano e il Presente che passa e muta e incessantemente trasloca nel Linguaggio di cielo in cielo, appresso a sempre nuove provocazioni.