Nietzsche – Dell’origine della poesia

Coloro che amano il fantastico nell’uomo, e che rappresentano, al tempo stesso, la teoria della moralità istintiva, giungono a questa illazione: «Posto che in ogni tempo si sia venerato l’utile quale divinità suprema, donde mai è venuta in tutto il mondo la poesia? Questa ritmica del discorso che non è tanto vantaggiosa, quanto invece Dykstra-uomo-in-cubocontroproducente per la chiarezza della comunicazione che, nondimeno, quasi irridendo ad ogni vantaggiosa funzionalità, è sgorgata ovunque sulla terra e sgorga ancor oggi! L’irrazionalità barbaramente bella della poesia è una confutazione per voi, per voi utilitaristi. Proprio il voler togliersi di mezzo una buona volta l’utile, ha elevato l’uomo, lo ha ispirato alla moralità e all’arte!».

Ebbene, a questo punto, devo una volta tanto parlare a favore degli utilitaristi: hanno ragione così di rado da far pietà.
In quei tempi antichi che videro il nascere della poesia, si ebbe sempre di mira l’utilità e una grandissima utilità, allorquando si introdusse il ritmo nel discorso, quella potenza che dà un ordine nuovo a tutti gli atomi della proposizione, impone la scelta delle parole e conferisce un nuovo colore al pensiero rendendolo più cupo, più estraneo, più lontano: una superstiziosa utilità senza dubbio!

In virtù del ritmo doveva imprimersi più profondamente negli dèi una richiesta umana, essendosi notato che l’uomo tiene a mente con più facilità un verso che un discorso slegato: ugualmente si riteneva di farsi udire a più grandi distanze mediante il ritmico tic-tac; pareva che la preghiera ritmica potesse approssimarsi maggiormente all’orecchio degli dèi. Ma, soprattutto, si voleva trarre utilità da quel soggiogamento elementare che l’uomo prova dentro di sé ascoltando la musica: il ritmo è un costringimento; genera un irresistibile desiderio di assecondare, di mettersi in consonanza; non soltanto il movimento dei piedi, ma anche l’anima stessa si arrende alla misura del ritmo – probabilmente, si concludeva, anche l’anima degli dèi! Si tentava così di costringerli mediante il ritmo e di esercitare un potere su di essi: si gettava loro la poesia come un laccio magico.

Deren-danzatori

Esisteva anche una rappresentazione più singolare, e proprio questa forse ha influito in maniera quanto mai potente sull’origine della poesia.
Nei Pitagorici essa appare come teoria filosofica e artificio pedagogico: ma, gran tempo prima che esistessero dei filosofi, si attribuiva alla musica la forza di disgravare gli affetti, di purificare l’animo, di ammansire la ferocia animi – e in verità proprio in virtù dell’elemento ritmico della poesia. Quando la giusta tensione e armonia dell’anima erano andate perdute, si doveva danzare, seguendo la battuta del cantore: era la ricetta di questa terapia.

Con questa Terpandro pacificò un tumulto, Empedocle ammansì un delirante, Damone purificò un giovinetto languente d’amore: con essa anche gli dèi, divenuti selvaggi e bramosi di vendetta, venivano curati.
Questo era possibile spingendo innanzitutto al colmo il delirio e il disfrenamento dei loro affetti, rendendo quindi furibondo il delirante, ebbro di vendetta chi questa febbre consumava: tutti i culti orgiastici vogliono sgravare in una sola volta la ferocia di una divinità e portarla all’orgia perché dopo essa si senta più libera e più quieta e lasci l’uomo in pace. Melos significa, secondo la sua radice, un mezzo di ammansimento, non perché sia in se stesso mite, ma perché la sua efficacia rende miti.

E non solo nel canto culturale, ma anche nel canto profano dei tempi più antichi, vige il presupposto che l’elemento ritmico eserciti una forza magica, per esempio nell’attingere fumo-danzaacqua o nella voga: il canto è l’incantagione dei demoni, che si pensano in queste circostanze operanti, li rende condiscendenti, servi e strumento dell’uomo. E ogniqualvolta si compie una azione, si ha un motivo per cantare – ogni azione è connessa all’assistenza di spiriti: canto magico ed esorcismo sembra siano stati la forma originaria della poesia.

Se il verso venne impiegato anche dall’oracolo – i Greci dicevano che l’esametro era stato inventato a Delfi – fu perché, anche in questo caso, il ritmo doveva esercitare un costringimento. Farsi esprimere delle profezie originariamente significava (secondo l’etimo per me probabile della parola greca): farsi determinare qualche cosa; si crede di costringere il futuro col conquistarsi Apollo: secondo la rappresentazione più antica egli è molto più che un dio preveggente. Non appena la formula viene pronunciata, letteralmente e ritmicamente esatta, essa lega il futuro, ma la formula è il ritrovato di Apollo che, come dio dei ritmi, può legare anche le dee del destino.

In uno sguardo sintetico ci si può complessivamente domandare: ci fu in generale per l’antico, superstizioso genere umano, qualcosa di più utile del ritmo?
Con esso si poteva tutto: dare magicamente incremento a un lavoro; imporre a un dio d’apparire, di farsi vicino, di porgere ascolto; predisporsi il futuro secondo i propri voleri, sgravarsi l’anima di qualsivoglia eccesso (di paura, di follia, di pietà, di spirito vendicativo) e non soltanto l’anima propria, ma anche quella del peggiore demone: senza il verso non si era nulla, col verso si diveniva quasi un dio.

Un tale sentimento fondamentale non si lascia più sradicare completamente e ancor oggi, dopo un lavoro di secoli nel combattere questa superstizione, anche il più saggio di noi diventa all’occasione un invasato del ritmo, non fosse altro per il fatto che egli sente più vero un pensiero ove abbia una forma metrica e venga incontro, con un divino hop-là.
Non è una cosa assai divertente che ancor oggi i filosofi più seri, nonostante il rigore con cui sono soliti prendere ogni certezza, si richiamino a sentenze di poeti per dare forza e attendibilità al loro pensiero? Eppure è più pericoloso per una verità il fatto di trovarsi d’accordo con un poeta che l’essere da lui contraddetta! Infatti, come dice Omero: «Molto mentono gli aedi!».

(Nietzsche, La gaia scienza, 2: 84)