Due o tre giorni fa, in mezzo a un gruppo di persone di cui tanto la vista esteriore quanto la visione interiore erano oscurate da quella malattia degli occhi che si chiama bigottismo, un tale, assai mal informato riguardo agli antichi shaykh, teneva discorsi insensati, denigrando l’eminente dignità dei maestri e delle guide della via mistica.
In quell’occasione, costui, per rincarare la dose della sua cattiveria, prese a deridere certi termini del gergo di cui fanno uso i maestri spirituali di epoca recente, e volle a ogni costo raccontare un aneddoto sul Maestro Abû ‘Alî Fârmadhî – che Dio l’abbia nella sua misericordia.
Qualcuno aveva domandato al suddetto maestro: «Com’è che i [sufi] blu-vestiti designano certi suoni come fruscii delle ali di Gabriele?».
Il maestro rispose: «Sappi che la maggior parte delle cose di cui i tuoi sensi sono testimoni, sono altrettanti fruscii delle ali di Gabriele». Poi, rivolto al suo interlocutore, aggiunse: «In quanto a te, sì pure tu sei soltanto un fruscio delle ali di Gabriele».
E qui, il nostro ostinato bigotto montando su tutte le furie, rivolto a quelle persone, domandava: «Come dite d’interpretare simili parole? Non vi sembrano solo patacche ammantate di falso splendore?».
A tanto essendosi spinta la sua temerarietà, io non potei, per amore della verità, fare a meno di rispondere alla sua furia con altrettanta veemenza. Con un’alzata di spalle mi sbarazzai di ogni ipocrisia formale, mi rimboccai le maniche della pazienza e sedetti sulle ginocchia della saggezza.
Per provocarlo, lo trattai da stupido e volgare: «Fa’ attenzione! – gli dissi. – Con ferma decisione e un giudizio pertinente alla cosa, ora ti spiego io cos’è il fruscio delle ali di Gabriele. Se sei degno del nome d’uomo, se dell’uomo hai l’ingegno, tu ascolta e cerca di comprendere».
Ecco perché ho intitolato questo scritto: «Il fruscio delle ali di Gabriele».
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Una volta, quando ero bambino, mi riuscì di eludere la sorveglianza delle donne, e di spogliarmi di lacci e brindelli vari con cui mi tenevano legato. Quella notte l’oscurità s’era versata a secchi sulla volta azzurra, e la tenebra, alleata fraterna del non-essere, s’era sparsa fino agli estremi confini del mondo. A ogni assalto del sonno cadevo in uno stato di disperazione. In preda all’inquietudine, afferrai una candela e mi diressi verso le stanze degli uomini. Tutta la notte la passai ad andare su e giù per il palazzo fino all’alba – quand’ecco mi prese il desiderio di fare visita alla tenda (khângâh) di mio padre. Questa tenda aveva due porte: una dava sulla città, l’altra sul giardino e la pianura sconfinata.
E così andai. Chiusi la porta che dava sulla città e, assicuratomi che fosse ben chiusa, mi accinsi ad aprire la porta che dava sulla pianura sconfinata. L’aprii e guardai attentamente. Ed ecco che vi scorsi dei Sapienti di bello e amabile aspetto, i cui rispettivi posti formavano un ordine gerarchico ascendente. Le loro sembianze, la loro magnificenza, la loro maestà, la loro nobiltà, il loro splendore, mi suscitarono la più grande meraviglia, e dinanzi alla loro grazia, alla loro bellezza, ai loro capelli bianchi, al loro comportamento, un tale stupore mi colse che mi venne meno la parola. Preso da un timore immenso e da un tremore diffuso per tutto il mio essere, feci un passo in avanti ma per fare subito dopo un passo indietro.
Mi dicevo: «Mostrati coraggioso! Preparati ad affrontarli, accada quel che accada!».
E così, a piccoli passi, mi avvicinai. Ma proprio mentre mi accingevo a rivolgere il saluto al Sapiente assiso all’estremità della fila, la sua estrema bontà naturale fece sì che mi precedesse. Fu lui a rivolgermi un sorriso, e per giunta così aperto, che potei vedergli i denti.
Malgrado l’affabilità del suo comportamento e la sua manifesta benevolenza, il timore reverenziale che m’incuteva, continuava però a dominarmi.
Gli domandai: «In due parole, dimmi: questi nobili Signori, chi sono e da dove si sono degnati di venire?».
Il Sapiente mi rispose: «Siamo una confraternita di esseri immateriali. Veniamo tutti dal Paese del non-dove (Nâ-kojâ-âbâd)».
Non capivo. E perciò gli chiesi: «A quale clima appartiene codesta città?».
Il Sapiente: «A un clima a cui non c’è dito che possa indicare la via».
Dal che compresi d’essere in presenza di un Sapiente la cui elevata conoscenza penetrava fin nel fondo delle cose.
Gli dissi allora: «Di grazia, istruiscimi. Come passate la maggior parte del vostro tempo?».
Il Sapiente: «Sappi che noi siamo sarti, e il tempo lo passiamo cucendo. Tutti assieme noi tessiamo il Verbo di Dio, o facendo dei lunghi viaggi».
«Ma – gli domandai ancora – questi Sapienti che siedono al di sopra di te, perché da quando sono qui [al contrario di te] non mi rivolgono la parola?».
Il Sapiente: «È perché nella situazione in cui siete, tu e i tuoi simili, non siete atti a entrare in relazione con loro. Sono io il loro interprete [la loro lingua], ma essi non possono colloquiare direttamente con te e i tuoi simili». […]
Gli chiesi: «Avete voi dei figli, dei possedimenti, o roba del genere?».
Il Sapiente: «Sebbene nessuno di noi abbia una sposa, ciascuno ha però un bambino. […] Io stesso non ho una sposa, ma dispongo di una serva abissina. Giammai poso lo sguardo su di lei, né faccio il benché minimo movimento. Ma quando la rotazione delle sfere celesti, riflettendosi nella pupilla di questa fanciulla nera, s’incontra col mio sguardo – ecco, allora, che un bambino mi nasce nel suo grembo, senza che io compia alcun movimento né patisca alcuna alterazione».
E io: «Questa contemplazione, quest’incontro, questo faccia a faccia, come conviene rappresentarli?».
Il Sapiente: «Queste non sono che allusioni a una certa attitudine, a un certo grado di preparazione. Non vogliono significare nient’altro».
E io: «Ma allora dimmi: come hai fatto a discendere in questa tenda, se poi rivendichi esplicitamente l’assenza di moto e di alterazione in tutto ciò che ti concerne?».
Il Sapiente: «O cuore semplice! Il sole brilla sempre in cielo, e tuttavia succede che un cieco non abbia coscienza, né percezione, né sentimento della sua presenza, ma non per questo si può dire che il sole non esiste, né che abbia arrestato la sua corsa. Se per caso il cieco guarirà della sua malattia, non credi che finirà per domandargli: “Perché prima non eri al mondo? Perché non ti curavi del tuo moto circolare?”. Poiché il sole è costante nel suo eterno moto, non dipende dal sole, ma dalla condizione del cieco, se si è prodotto un mutamento. E così è anche per noi [dieci Sapienti]: formiamo eternamente la presente gerarchia. Il fatto che tu non ci veda non è affatto una prova del nostro non-essere, non più di quanto, qualora tu giungessi a vederci, questo non indicherebbe un mutamento o uno spostamento da parte nostra. Il mutamento, è in te, nel tuo proprio stato, che avviene».
E io: «Dite delle preghiere e levate inni a Dio?».
Il Sapiente: «Nient’affatto. Il fatto che noi siamo dei testimoni oculari immersi nella Presenza divina, non ci lascia il tempo di praticare un culto. D’altronde, se esiste un servizio divino, non è con la lingua né con i gesti che lo si adempie; né il movimento né l’agitazione ne fanno parte».
E io: «Suvvia, perché non m’insegni la scienza della cucitura?».
Il Sapiente (sorridendo): «Ahimé! I tuoi simili e congeneri non possono apprenderla. Questa scienza non è accessibile alla specie a cui tu appartieni, perché la nostra cucitura non comporta né azione né attrezzi. Tuttavia, di questa scienza della cucitura, ti insegnerò quanto basta perché, se un giorno tu avessi bisogno di rammendare gli stracci del tuo ruvido vestito, almeno questo tu possa farlo».
E me lo insegnò – finché io, di nuovo, lo pregai: «Insegnami ora il Verbo di Dio».
Il Sapiente: «Il cammino è lungo, e finché tu abiti in questa città, non puoi apprendere granché del Verbo di Dio. Ma quel poco che ti è accessibile, io te l’insegnerò».
Prese allora la mia tavoletta e vi scrisse un alfabeto così portentoso che con le sue lettere potevo comprendere qualunque versetto coranico volessi.
Il Sapiente: «A chi conosce questo alfabeto, i segreti del Verbo di Dio gli si riveleranno [personalmente] senza l’imposizione [di un’autorità dogmatica]. In chi poi arriva a conoscere a fondo tutti i modi di questo alfabeto, si manifestano superiorità e profondità di pensiero».
Appresi poi la scienza dell’abjad [la scienza del valore numero delle lettere], e una volta che m’immersi nel suo studio, coprii di tali e tanti segni la tavoletta, per quali e quanti mi erano concessi dal mio grado di capacità, e nella misura in cui il mio pensiero si elevava in un rapimento celeste. Mi apparvero così tante cose meravigliose tra i significati segreti del Verbo di Dio, che non stanno nei limiti di una spiegazione. Ogni volta che sorgeva una difficoltà, io la presentavo al Sapiente, e il problema era subito risolto.
Ci fu un momento in cui il colloquio riguardò il soffio dello pneuma. Il Sapiente mi rivelò che anche questo soffio proviene dallo Spirito Santo.
Io: «Ma come posso comprendere la relazione tra questi due?».
Il Sapiente: «Tutto ciò che discende nelle quattro parti del mondo inferiore, proviene dalle ali di Gabriele».
Io: «Com’è che stanno le cose?».
Il Sapiente: «Sappi che l’Altissimo ha un certo numero di Verbi Maggiori che emanano dallo splendore del suo augusto Volto. Questi Verbi formano un ordine gerarchico. La Prima Luce a essere emanata è il Verbo Supremo, tale che nessun altro Verbo gli è superiore. Il suo rapporto con gli altri Verbi, in quanto alla luce e allo splendore epifanico, è simile al rapporto che ha il Sole con gli altri astri. Dall’irradiazione luminosa di questo Verbo procede un altro Verbo, e così di seguito, uno per uno, fino al completamento del loro numero. Questi sono i Verbi Perfetti.
«L’ultimo di questi Verbi Perfetti è Gabriele, e gli spiriti umani che emanano da questo che è l’ultimo Verbo, formano una sola e identica specie. Chi ha lo spirito [dell’Uomo] è il Verbo, o per meglio dire, i due nomi, Spirito e Verbo, non designano che una sola e identica realtà essenziale, quella che concerne l’essere umano. Dal Verbo Maggiore che dei Verbi Maggiori è l’ultimo (Gabriele, lo Spirito Umano) procedono innumerevoli Verbi Minori. Tutto è stato creato dall’irradiazione di luce di questo decimo e ultimo Verbo Maggiore, così come è detto nella Torâh: Ho creato dalla mia Luce gli spiriti che infiammano l’ardente desiderio. Ora questa Luce è lo Spirito Santo. Perciò Salomone, quando qualcuno lo chiamò mago, si affrettò a rispondere: “Non sono un mago; sono solamente un Verbo tra i Verbi di Dio”. Oltre ai Maggiori e ai Minori, infine, l’Altissimo ha anche dei Verbi Intermedi: sono quelli che il Corano designa “ministri di un ordine”, ossia gli Angeli che muovono le sfere celesti. Ecco: gli Angeli sono i Verbi Intermedi».
E io: «Parlami ora delle ali di Gabriele».
Il Sapiente: «Sappi che Gabriele ha due ali: una, quella di destra, è pura luce ed è, nella sua totalità, la sola e pura relazione dell’essere di Gabriele con Dio; l’altra, quella di sinistra, è coperta di una tenebra che somiglia al colore rossastro della Luna al crepuscolo, o a quello delle zampe del pavone. Questa impronta tenebrosa è il suo essere possibile, che ha un lato rivolto al non-essere [poiché può anche non-essere]. Viceversa, quando consideri Gabriele nel suo atto d’essere che è investito direttamente dall’essere di Dio, il suo essere è qualificato come necessario [poiché esso non può non essere, deve essere]. Ma quando lo consideri [non nel dovere, ma] nel diritto della sua essenza in sé, questo diritto è anche un diritto a non-essere, in quanto riguarda quell’essere che in se stesso non è che poter-essere.
Questi due sensi dell’essere [necessario e possibile] corrispondono all’una e all’altra ala di Gabriele. La sua relazione con l’essere necessario, è l’ala destra. Il diritto inerente alla sua essenza considerata in sé [indipendentemente dalla sua relazione con l’essere necessario], è l’ala sinistra.
Quando dallo Spirito Santo [cioè dall’ala destra di Gabriele] discende un raggio di luce, questo raggio di luce è il Verbo detto Minore [l’anima umana]. Dall’ala sinistra di Gabriele, quella che comporta una certa misura di tenebra, discende invece un’ombra, ed è da quest’ombra che sorge il mondo dei miraggi e delle illusioni. Questo mondo illusorio non è che l’eco e l’ombra dell’ala di Gabriele, intendo dire dell’ala sinistra, mentre le anime di luce emanano dalla sua ala destra. Da questa ala destra emanano altresì le verità e realtà spirituali che sono proiettate nelle coscienze, mentre la violenza, il grido di miseria e le vicissitudini proprie del mondo dell’illusione, tutto ciò proviene dall’ala sinistra di Gabriele – su di lui la benedizione e il saluto!».
E io: «Ma dimmi, infine: queste ali che forma hanno?».
Il Sapiente: «O ingenuo! non comprendi che si tratta di forme simboliche? Se le intendi alla lettera, esse non sono che inconcludenti forme vuote di senso».
Io: «C’è tra i Verbi qualcuno che abbia a che fare con il giorno e la notte?».
Il Sapiente: «O ingenuo! non comprendi che tutti i Verbi, nel grado loro più intimo e profondo, sono [voci della] Presenza divina? E la Presenza divina non conosce né giorno né notte. Ignora il tempo».
Io: «E quella città di cui l’Altissimo dice: “Facci uscire dalla città i cui abitanti sono oppressori” (Corano, 4: 77), qual è?».
Il Sapiente: «È il mondo dell’illusione, quello dove al presente ha messo su casa il Verbo Minore [l’anima umana]. Il Verbo Minore è esso stesso, da solo, una città: una di quelle città di cui ti racconteremo la storia (Corano, 7: 101), perché esse hanno sempre una fondazione e una rovina (Corano, 11: 102). Ciò che è sempre fondamento è il Verbo. Ciò che invece è rovina è il tempio materiale del Verbo [la lingua parlata, la lingua storica], di cui non restano che macerie. Ma tutto ciò che non è nel tempo, non è neanche nello spazio. E ciò che è al di fuori del tempo e dello spazio, sono i Verbi di Dio, maggiori e minori».
Appena però nella tenda di mio padre penetrò la prima luce dell’alba, la porta che dava su questo mondo [dei Sapienti] all’istante si richiuse, ed ecco s’aprì l’altra porta, quella che dava sulla città. E subito vi entrò una folla di mercanti indaffarati, mentre i Sapienti scomparivano alla mia vista. Cominciai a mordermi le dita e a sospirare. Erano appena spariti, e io già li rimpiangevo. Piangevo e gemevo, ma fu tutto inutile.
(Sohrawardî, Awâz-e Parr-e Jabrâ’yêl)