In quanto alla discordanza

barca-naufragio

Solo la coda di poppa, solo un’eco rimane… del Passato – solo una vaga rimembranza di quel tempo là e della sua «forma pura» (del tempo che fu, del tempo che ignorava di passare). Schiacciata dalle Rupi Cozzanti, stretta da ambo i lati nella morsa delle Simplegadi, la nave Argo è affondata nell’Oceano delle perplessità. Si è spezzato di colpo il ritmo dei rematori, e il traino dei canti è andato a sbattere contro lo scoglio di una discordanza «originale». Che ne è più di quell’incantamento?

Non lo so, ma se per caso è davvero la «filosofia» a custodire la sinfonia di questa fatale «discordanza», in che altro modo, mi domando, può custodirla se non facendo risuonare la voce della Discordia nella reciproca «gelosia» dei suoi menestrelli – che tanto più le saranno devoti, quanto più ciascun «filosofo» oserà remare contro il Coro, per inseguire l’eco del suo ritmo perduto…? ciascuno a domandarsi: dove, come, quando l’ho perduto? com’è che più non m’incanto?

Rivolgila dentro di te, ascolta la tua «voce interiore», attendi l’eco e medita da dove proviene. Laggiù, nella caverna (proprio come suggerisce Platone, o come racconta Omero a proposito di Odisseo), là – nelle cavità invisibili del tuo corpo, in quegli abissi che del tuo corpo sono soltanto udibili, là dove tutto è impercettibile «fruscio dell’ala dell’Angelo», lascia che la tua voce affondi, e aspetta l’eco che la Sibilla senza corpo te ne sposa-abissirimanda!
Tornerai… non tornerai – ambigua suonerà la sentenza a ogni marinaio che la interroghi. M’ama… non m’ama…? di nuovo nella caverna echeggerà l’irrisolvibile «perplessità» che li destò, uno per uno, alla coscienza.

Da qui, dice Platone, da questo «simultaneo» patire due incompatibili, duro e molle, bianco e nero, ecc., da questo accogliere e insieme respingere il «quale» percepito, ecco da dove ci destiamo alla conoscenza. L’incertezza del segno incontrato ci stimola, dice, alla reminiscenza dell’Idea Pura.
Ma tu non starlo a sentire, dicono i Douala e i Bambara, ascolta noi che siamo più antichi, più ingenui, più iniziali di lui: esistere è cantare. La «discordanza» da cui, non la conoscenza, ma l’esistenza stessa della lingua umana prende l’avvio non è che un fenomeno «acustico». Non c’entra la Qualità dell’«oggetto» percepito, ma la dissonanza che viene a spezzare il ritmo che prima ci cullava nell’incoscienza.

Esistere è andare a tempo con quel «resto» che, sibillina eco, la caverna a ciascuna voce restituisce d’un vecchio anonimo incantesimo.
Esistere è divenire raggiungibili, nel proprio essere più intimo, dalle voci dei morti che su un’onda anomala a noi risalgono da un remoto ritmo, infranto al tempo della Prima Discordanza.

Perciò, non rivolgerla al chiasso, al clamore, al successo presente. Rivolgi la tua voce all’indietro, e falla rivivere là dove fu vivificata la prima volta. Dove le fu dato «predire» la sua prima «parola». E lascia che di nuovo laggiù risuoni, come quella volta, l’antica «discordanza», lasciala vibrare di nuovo nel tuo corpo, nella tua cassa di risonanza. E non dare nessun peso alle «qualità» tra loro incompatibili che la «inquietano», perché tra essere ed esistere – tra essere nell’immediatezza ed esistere nel mondo delle mediazioni umane – non c’è che una «stonatura», quella che si appropriò del tuo o del mio «io», e che li «incrinò» (condizione sine qua non) per farli passare a esistere di qua dalle Simplegadi.

Se inquieta com’è tu la lasci andare, la tua voce interiore giungerà fino alla caverna di Polifemo – dove l’attende il «demone» del salto, dell’intervallo «d’insania» ritmica, della spezzatura e dell’infrazione temporale.
La caverna, dicono i Primitivi, la «cavità invisibile» del tuo essere, il non-dove solo Beksinski-cassa-volanteudibile del tuo corpo, il «duende» degli echi e delle risonanze, si nasconde dentro la «montagna dei morti». Come altrimenti chiamarla, visto che laggiù davvero c’è una montagna di voci morte, di voci senza corpo, di spiriti che non anelano che a rivivere nei rimpianti della tua voce? – oh, tornerai… non tornerai, mio amato Apollo, bisbigliò gemendo la Sibilla, e quel suo gemito, tra mille altre voci confuso, ancora s’ode.

Chi la tiene tuttora «disgiunta» da Apollo? Chi ancora insiste a intendere l’incompatibilità di Eco e Narciso come una dissidenza «qualitativa»?
No, non c’è «cosa» al mondo – dice il primitivo –, nessuna che non «parli», né c’è materia muta che, battuta o soffiata, non funga da «cassa di risonanza» di un (linguaggio) immateriale.
Ecco perché al filosofo conviene qui discordare da Platone: la «perplessità originaria» non è una questione di Qualità (da «riconoscere» e da ricondurre con la «reminiscenza» a un’archetipica Idea Pura al di là del tempo). Si tratta, molto più ingenuamente, di una questione «ritmica», di una variazione «temporale». Si tratta, per il tempo, di farsi «udire» da un corpo che cresce, da una cassa di risonanza che muta.

Da un ritmo all’altro – ecco per dove passano i «rottami» dell’infranta nave Argo. Passano dal ritmo che una volta «accomunava» senza distinzione d’«oggetti» l’onda, il serpente, la montagna e la mandria (il ritmo indifferente alle «qualità», al «chi è?» o al «che cos’è?», all’essere come al non-essere delle «cose», il ritmo di un’antica ripetizione inconscia) a quest’altro ritmo a cui li desta bruscamente la violenza degli scogli «dissonanti».
Niente di categorico, niente di logico, niente di concettuale – ma soltanto una «aritmia», la spezzatura di una vecchia abitudine, un’incrinatura, che so?, sul fianco della nave, uno squarcio nella cassa di risonanza, nuove facoltà che si destano alla vita e vogliono «dire» la loro, ma che per dirla devono tutte ricorrere a una sola voce.

L’Idea, diceva Artaud, non è innata. Non precede, ma consegue al naufragio tra i due «scogli», tra i due «voleri» di quella sola voce. L’idea è genitale. È quando a chiedere la parola per esprimere il proprio «volere» vengono anche i genitali – è allora che il tempo s’incrina.
Da quel momento Narciso, dice il Racconto, non ne vuole più sapere di Eco. La rigetta nel suo Passato. Perciò ogni marinaio sopravvissuto al naufragio, per risuscitarla, deve inviare la sua voce laggiù. E attendere che qualcuno dalla «montagna dei morti» gli risponda.