Le concezioni magiche, religiose o filosofiche dei popoli primitivi e delle antiche culture superiori sono tutte guidate, in modo più o meno evidente, dall’idea che la realtà visibile e tangibile di ogni giorno non rappresenti la realtà ultima, ma che l’essere autentico delle cose si celi sotto le loro manifestazioni esterne e affondi le sue radici ultime nel suono.
L’uomo primitivo è colpito dal primo dubbio sull’identità di un oggetto in un certo arco di tempo quando osserva il divenire dei fenomeni. Pur credendo profondamente nella realtà di un fenomeno che si verifica in un determinato momento, trova difficile ammettere che per esempio una pianta ancora tutta avvolta su se stessa (e tanto più il seme o il germe) sia in tutto e per tutto lo stesso essere della pianta dischiusa o cresciuta. Non si può capacitare che in uno stesso individuo l’ira o la calma siano solo stati d’animo transitori e non realtà in se stesse; tanto più che esse possono assumere forme analoghe in persone del tutto diverse.
Molto più che l’idea astratta, generica e statica di forma, egli ritiene importanti ed essenziali la voce e le movenze individuali e caratteristiche del momento, vale a dire l’espressione occasionale, se pur fuggevole certamente più incisiva, del ritmo individuale di un dato momento. Per tale motivo l’uomo primitivo chiama spesso uno stesso oggetto coi nomi più vari, a seconda della «voce» che ha (Douala), a seconda del momento, dell’età o delle circostanze in cui si trova, a seconda dello scopo a cui serve o della funzione che svolge. Uno stesso spazio vuoto può essere ora un recipiente, ora un cappello o un tamburo. La grande ricchezza e la qualità del vocabolario e dei ritmi musicali delle culture antiche sono il frutto di un tipo di osservazione che si fissa morfologicamente più sulla pluralità del dinamismo di certe condizioni che sull’astrazione della loro staticità.
Un oggetto è come un involucro vuoto, reale solo nella misura in cui è riempito e ravvivato da quei ritmi vitali a lui congeniali, a cui cioè può servire come da cassa armonica. La realtà si esprime propriamente nel ritmo della figura viva, non nella sua forma statica.
Questo è il motivo per cui le cose più svariate diventano reciprocamente affini allorché in esse si manifesta un ritmo uguale o analogo. L’individuo che in un dato momento assume le movenze di un pinguino, in quell’istante è un pinguino; se canta come un gallo, è un gallo.
Se il vento, movendo le onde, le chiome degli alberi o i cespugli, li fa risuonare cupamente o muovere con le movenze di un serpente, o li fa somigliare a un pesante pachiderma o alle groppe dondolanti di una mandria che scende dal monte, in quel momento il negro Douala ravvisa in quei quattro fenomeni (serpente, onda, cespuglio, mandria) un’unità ritmica (quindi essenziale) che egli è immediatamente capace di ridurre al suo comune denominatore con un ritmo di tamburo corrispondente.
Questo denominatore comune di natura acustica è la vera sostanza del ritmo delle cose. Un suonatore di tamburo Douala mi diceva con tutta chiarezza: «Suonando il tamburo ho detto tutto assieme con la massima verità». Il pensiero analogico dell’uomo primitivo è profondamente ed essenzialmente di natura musicale.
L’uomo primitivo rifugge in genere dai concetti estensivi, troppo generici e incolori. Nel caso che se ne serva per esprimere l’essenziale, non fa ricorso alla specie (uomo, animale, vegetale) bensì al ritmo comune. La natura delle cose non è ricercata nell’elemento costante ma nei fenomeni che, sia pur transitori, ne sono caratteristici; ed è fondamentalmente considerata reale, come «energia nuda» (Bambara), soltanto per la sua espressione acustica.
Tali ritmi sono definiti «parole della vita» (Baule) o «canti della vita» (Douala, Sangvi). Quando un negro si sente vecchio o malato ricorre allo stregone pregandolo di dargli le «parole della vita», cioè un ritmo nuovo e un’energia rinnovata. Questa forza o energia, che per noi europei è un attributo della persona, per il negro rappresenta l’essenza dell’individuo: solo in virtù di essa un essere è ciò che è.
Il ritmo è l’autentica forza e realtà dell’individuo, pur essendo differente nei vari momenti e nei diversi periodi di crescita in cui l’uomo si trova. L’unico elemento che il tempo non intacca è il puro «suono individuale» di ciascun uomo. Questo suono, che l’uomo si porta con sé anche dopo la morte, è l’equivalente del concetto di «uomo in se stesso» a cui la filosofia Bantù contrappone ancora il corpo, l’ombra e il respiro.
Il suono individuale, noto soltanto a chi lo possiede, è la forza che l’uomo detiene sia da vivo che da morto. Il suono o ritmo con cui l’uomo si colloca nel suo ambiente è definito «coro» (Baule) o «suono udibile» (Douala). Esiste poi anche il notissimo «canto individuale» da cui l’uomo è delimitato come persona individuale nell’ambito della società.
Il canto individuale può essere notoriamente cantato soltanto da colui che lo «possiede», anche se è morto (Sangvi, Douala). Ma nel caso che un canto individuale sia una melodia generale, può trovarsi sulla bocca di tutti. Questa contraddizione scompare non appena si studia più a fondo il canto individuale.
La specificità individuale consiste nel tono datogli dal cantore, nel modo particolare e nel ritmo personale, assolutamente inimitabile, con cui egli lo canta; infatti la melodia in se stessa non è proprietà esclusiva di chi ne è investito. Se tuttavia un individuo riesce a imitare perfettamente anche il modo di cantare, ciò significa che egli è sostanzialmente imparentato con i depositari generalmente riconosciuti del canto stesso, oppure è uno stregone, che per sua natura può in qualsiasi momento imitare i ritmi altrui perché «profondamente imparentato con tutte le cose» (Douala).
Per conoscere la natura di un individuo, quale si manifesta nella voce, non è sufficiente osservarne il ritmo, occorre anche studiarne il timbro. Questi due fattori aprono l’accesso alla sostanza profonda e alle qualità specifiche di un certo oggetto. Dalla voce si intuisce se una persona è audace o paurosa, decisa o incerta. Lo stesso suono di una moneta o il rumore di un albero percosso rivelano la condizione in cui l’oggetto si trova. Pertanto, la sostanza acustica esiste anche nelle cose che solo indirettamente sono provviste di voce.
In quanto alla «voce interiore», si tratta fondamentalmente di una specie di ultrasuono impercettibile, la cui sostanza sonora si può udire solo se affiora alla periferia del suo soggetto. […]
La sostanza sonora ritmica, insita in tutte le cose, è presente anche là dove l’uomo comune non la percepisce. È qui che comincia necessariamente l’arte dello stregone il quale, grazie alla sua forza ricettiva e amplificatrice dei suoni e al suo forte legame con la natura e con il mondo dei morti, è capace di riconoscere e di riprodurre tutte le sostanze sonore. Imitando quelle sostanze egli parla direttamente alle cose e ha perciò il potere di influenzarle.
Avendo ogni cosa una «voce», lo stregone ha un canto, per esempio, per ogni malattia, con il quale rende percepibile quella voce (Baule). Quanto più un individuo diventa come una cassa armonica e quanto più il suo talento è poliritmico, tanto più efficace è la sua forza magica e tanto meno il suo corpo costituisce una limitazione della sua persona; la sua capacità ricettiva e amplificatrice ne estende il potere ricettivo stesso e il suo canto ne allarga il raggio di irradiazione. I simboli di potere magico, così frequenti nella mitologia (la mazza di ferro che l’eroe può allungare o accorciare a volontà; il braccio che raggiunge il cielo; il martello che dà lampi e tuoni e che penetra nella terra sette o nove tese ritornando poi al suo padrone come un boomerang o che scompare come sperma per ricomparire sotto la figura di un neonato), non sono che simboli del suo creatore e della sua eco o risposta. […]
Il suono vince il tempo perché la sua sede primitiva si trova nella caverna che si spalanca entro la montagna dei morti, in cui sono presenti in germe tutti i princìpi e tutte le possibilità temporali, che entrano nel tempo soltanto partendo da quella cavità armonica. Lo stregone attinge ogni forza conoscitiva e ogni potere attivo da quell’antro nella montagna dei morti; deve però essere capace di accattivarsi gli spiriti col suo canto.
Quando uno sciamano californiano canta un canto magico, viene lo spirito a cui quel canto corrisponde e dice: «Tu canti un canto che davvero mi piace, è il mio canto; perciò ti concedo anche la mia forza. Se tu hai cura di me, anch’io ne avrò di te. Quando udrò il tuo canto, verrò».
Nella letteratura l’energia insita in un essere è perlopiù chiamata mana o orenda, parole che designano la parte di energia o sostanza sonora, non specificamente individuale, che emana da ogni canto od oggetto, sia essa udibile o meno. È l’energia delle relazioni con l’ambiente, vale a dire la sostanza sonora che rimane dopo la sottrazione del suono personale, cioè del ritmo specifico del suo depositario.
Per tale motivo le ossa dei morti posseggono una forza magica particolarmente grande, e più ancora la posseggono le trombe o i flauti ricavati dalle ossa dei morti per risvegliare e rendere efficace la voce, o sostanza sonora percepibile, dei morti stessi.
L’orenda che emana dai morti è pertanto una forza impersonale che può essere partecipata o nuovamente sottratta ad altre persone o cose, per esempio a uno strumento musicale (Baule), particolarmente mediante lo «scaricamento» o «espirazione» (per i Douala mediante il respiro leggero). Non è perciò intrinseca al suo soggetto, come non è il calore a una pietra arroventata o un certo suono a una corda musicale. La forza o tensione che permea ritmicamente un oggetto, è l’elemento che rende stabile una casa, mantiene in equilibrio un’imbarcazione, dà a una corda un certo suono.
La «parola» (il ritmo sonoro) secondo i Dogon è ciò che dona compattezza al tessuto, o alle piante la loro specifica forza risanatrice, che scaturisce dal dinamismo di un canto medicinale o dal fruscio dei boschetti sacri. […] Essi trebbiano il grano cantando canti erotici «per risvegliare la parola» (l’energia canora) dei semi e intesserla nei loro canti. Secondo l’affermazione di un loro stregone, quei canti formano una rete in cui i ritmi fruttiferi dei semi si impigliano. Dopo che la «parola fruttifera» ha abbandonato i tegumenti dei semi, i canti formano l’involucro sonoro in cui l’energia nuovamente si posa e si sviluppa. Gli stessi Dogon chiamano il canto magico «vaglio» in quanto trattiene l’energia buona, cioè sonora, del seme lasciando passare la polvere.
Interrogati perché fossero più precisi, i Douala, i Bambara e i Baule furono assai concordi sul significato del termine «parola». La «parola» è il ritmo sonoro della forza primordiale che genera tutte le cose sacrificando se stessa. Pur vivificando tutte le cose, tale energia sonora non è percepibile da ogni persona.
«Captare la parola» significa «catturare l’energia», «agire». La «parola» è il grande deposito di energia che, sgorgando ininterrottamente da tempi immemorabili, si riversa nel mondo dalla cavità sacrificale dei mitici antenati. Da questo canale «ricco di acque» tutte le generazioni attingono la loro forza mediante un’azione analoga, ripetendo la «parola» nella propria cavità armonica e sacrificale sulle rive del fiume della vita.
La cavità è il corpo, la centrale dell’alimentazione, in cui l’energia si genera mangiando le vivande sacrificali. Dal corpo tale forza si diffonde, «cantando impercettibilmente», in quattro canali che sboccano nei canali dell’aria e del cibo e negli organi escretori e genitali. Il corpo intero è considerato una cassa armonica alla cui superficie si forma la parte udibile della sostanza energetica sonora.
L’idea che la forza «canti», o sia addirittura un fenomeno acustico, è profondamente radicata nel genio dell’uomo primitivo. Per lui, dispendio di energia ed emissione di voce sono sempre strettamente collegati, per cui nel canto si trova il senso naturale di forza che proviene dal diaframma; senso che del resto è ben noto anche a ogni cantante europeo. (Di qui deriva anche la credenza che il fegato sia la sede della forza).
Ogni emissione di suono (forte respirazione) e ogni canto ritmico sono anche particolarmente adatti a sviluppare e accrescere l’energia latente e preesistente a ogni disposizione psichica, perché il suono concede un ampio campo d’azione all’irrazionale e alla periodicità del movimento. È molto più difficile improvvisare un testo – o addirittura un testo poetico – su un ritmo interiore (psicofisico) preesistente, che non inventare una melodia adattandovi un certo numero di parole sconclusionate.
Il termine «parola» indica piuttosto la forza «sonora» irrazionale che pulsa nella parola stessa, mentre è molto meno adeguato a definire un oggetto determinato. Volendo limitare l’estensione della «parola» al suo aspetto puramente psicologico, si potrebbe dire: il ritmo della «parola» emerge dalle parole comuni come l’ira o la bontà trapela dalla melodia stilistica di una frase. Mentre per noi la parola si riduce a essere una denominazione, la «parola» è in realtà il ritmo creatore, è la vera e propria sostanza energetica per cui la parola comune è permeata da una speciale intonazione magica, onde parole normali differenti possono essere compenetrate dalla stessa «parola».
La «parola» è il ritmo creatore, concettualmente ancora vuoto e logicamente indeterminato, che crea, stimola ed esalta le cose. Non equivale perciò, per esempio, all’idea pura, bensì al contenuto dinamico, cioè alla sostanza sonora primaria dell’azione; con la «parola», infatti, già comincia l’azione che non è la parola comune ma soltanto la designa.
La «parola» è il sacrificio sonoro grazie al quale le cose sono quel che sono, perché mediante il ritmo sonoro sono chiamate e mantenute in vita. Quando non esiste più la «parola», non resta che l’involucro vuoto della parola (la designazione dell’oggetto) privo di forza interiore.
La «parola» è la forza ritmica canora, in parte percettibile e in parte impercettibile, che dai tempi primitivi è trasmessa di generazione in generazione. Questo canto è polifono perché si dilata su quattro diversi livelli: nella vita spirituale, nell’alimentazione, nel mantenimento della forza e nella generazione.
Nel rituale dei popoli primitivi la «parola» si manifesta particolarmente nei solenni giochi mitici, nei riti sacrificali, nella medicina e nell’iniziazione dei giovani. I canti per la circoncisione, il cui primo scopo è di trasmettere al giovane la maturità spirituale e fisica mediante la forza della «parola», vengono cantati non a caso nel periodo in cui il candidato attraversa l’età del cambiamento di voce, quando cioè la sua energia canora sta subendo una trasformazione decisiva.
(Schneider, Il significato della musica)