Deleuze – La sinfonia dell’idea discordante

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Bambini, mi raccomando, non fate la fesseria di Gilgameš di addormentarvi sul più bello. Lo so, il Racconto è lungo, e voi non vedete l’ora d’andare per conto vostro a sognare come finisce. Capisco: se di mezzo ci si mettono pure i filosofi (e i filosofi sono chiacchieroni), non potete trattenere lo sbadiglio. Ma, è per il vostro bene che ve lo dico: rinviate ancora un poco il sonno, e state a sentire.

Il Racconto dice di un Ragno Nascosto che tesse la sua «fiaba» in ciascuno di voi, ma in modo che l’una sia con l’altra intrecciata, l’una nell’altra impigliata in una sola struttura «aracnoidea». E dice che ogni «favola» comincia con la brusca scoperta che ciascuno di voi per conto suo farà, allorché sarà colto da una «sensazione simultanea di differenze contrapposte». Ciascuno di voi sarà destato alla «conoscenza» dalla violenta passione che la loro «incompatibilità» gli farà patire.

Non so se il riassunto è chiaro, ma non importa – perché le sue «oscurità» hanno molto più da «dire» che non l’evidenza del «chiaro e distinto». È vero, per secoli, platonici e visionari, mistici e teologi, poeti e musici l’hanno riassunto come l’«incontro con l’Angelo». Ed è vero anche che l’«Angelo» è la Luce dell’Idea, lo Splendore della Qualità Pura, ma nondimeno non si può tacere (non più), quasi fosse una vergogna, che di fronte all’«Angelo», in stridente contrasto con la sua Bellezza, nella «sensazione originaria» compare anche il «Diavolo»… ed è «timore e tremore»… è turbamento e violenza, sabotaggio e distruzione ciò che la sua presenza comporta.

Per secoli siamo stati abituati a interpretare il «Diavolo» come il «malvisto», il «malocchio», che si contrappone alla visione chiara e distinta. E a pensare la sua «oscurità» come una perversione e un degrado dello sguardo della nostra Natura Perfetta (così come dio la fece con le Sue Mani). E, sulla scia di Platone, a concludere che solo il Bene Price-anatomia-angeloveramente è, e che solo grazie alla reminiscenza ci è possibile riconquistare il grado di cui allora godeva la nostra intelligenza – quando era , nella sua pura e immacolata «realtà immediata».

Sicché, per secoli la «relazione originaria» con ciò che ogni bambino (fra i tre e i quattro anni) incontra – la relazione che dà «origine» e «risveglia» in lui le facoltà «dormienti» – è stata interpretata alla luce dello schema «angelico».
Qualcuno s’era accorto dell’ingenuità di questa interpretazione, e aveva detto: sì, ma com’è che il racconto dice che l’Angelo, oltre a quella di luce, ha anche un’ala di tenebre? E un altro aveva fatto notare che, se nel racconto biblico Giacobbe è costretto a combattere contro l’Angelo, una ragione ci deve pur essere. E un altro ancora aveva poetato che sì l‘Angelo è bello, ma insieme è anche terribile – che la sua Gloria è sì Luce, ma che la sua Maestà è Rigore, Orrore, Terrore.

Se qualcuno perciò vi chiede, sì proprio mentre vi state addormentando, se qualcuno vi chiede: chi è l’Uomo? – voi, non siate così sciocchi da affrettarvi a rispondere. Domandate piuttosto: di quale uomo, di quale tempo e luogo, vuoi sapere l’«essenza»? Perché l’Uomo muta, si trasforma, e con lui si trasformano le sue facoltà: alcune si atrofizzano e muoiono, altre nascono e crescono. E a volte succede che le «moribonde», prima di abbandonarsi al sonno perpetuo, lascino un testamento, sì – un testo da interpretare – alle facoltà «neonate». E, cosa ancor più meravigliosa, in questo testo (che, c’è bisogno di dirlo?, voi portate scritto nel vostro corpo) le nuove «facoltà» finiranno per scoprire d’essere già state presentite, anticipate e implicite in esso. Come se il testo parlasse (a volte per secoli, per millenni) prima di suscitare il suo ermeneuta (facoltativo).

Lo vedo, qualcuno di voi già dorme. L’ho fatta lunga. Ma, scusate, ve lo dovevo dire. Per il vostro bene è bene che sappiate che colui che verrà a svegliarvi domattina, o quando sarà, è insieme Angelo e Diavolo. Perché oggi ce lo possiamo finalmente dire. Perché oggi, dopo un travaglio di secoli, si è finalmente sviluppata in noi quella facoltà (che in omaggio a Nietzsche che le prestò la sua vita diremo) «dionisiaca»: la facoltà di interpretare l’Oscuro, l’Intruso, l’Inquietante, l’Estraneo che era già contemplato nella «perplessità originaria» di Platone – già nel testo di Platone contrapposto al Bello e Buono e Luminoso e Puro.

Platone non aveva potuto ignorarne la presenza «oscura» all’origine stessa della «conoscenza». Ma l’aveva risolta, interpretandola come un difetto o un’impotenza della sensazione.
Oggi, però, che questa nuova facoltà «dionisiaca» è giunta a maturazione – e più vi sarà difficile nella vita credere all’«ingenuità» dei racconti angelici – per il vostro bene è bene che vi svegliate a una nuova «conoscenza»: a una «coscienza» che non arretri intimorita di fronte all’«oscurità» dell’Irriconoscibile che insieme si traveste da Angelo e da Demone, per iniziarvi a un «umano» che sarebbe stato «troppo umano» per Platone. Troppo perché lui, e con lui, dopo di lui, secoli di mistici e di visionari, non si pentissero d’aver dato ospitalità all’Oscuro nel racconto del loro proprio Inizio.

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Ciò che è essenzialmente incontrato, ciò che deve distinguersi da ogni riconoscimento, è definito nella Repubblica come l’oggetto di una «sensazione nello stesso tempo opposta». Mentre il dito non è altro che un dito, ed è sempre un «dito» a sollecitare l’intellezione, il duro non è mai duro senza essere anche molle, in quanto è inseparabile da un divenire o da una relazione che mettano in esso l’opposto (e lo stesso vale per il grande e il piccolo, l’uno e il molteplice). È pertanto la coesistenza degli opposti, la coesistenza del più e del meno in un divenire qualitativo illimitato, a costituire il segno o il punto di partenza di ciò che costringe a pensare. Tuttavia, il riconoscimento misura e limita la qualità riferendola a qualcosa, arrestandone così il folle divenire.

Resta da chiedersi se nel definire la prima istanza come forma di opposizione o di contrasto qualitativo, Platone non confonda già l’essere del sensibile con un semplice essere sensibile, con un essere qualitativo puro (aisthetéon).
Il sospetto si rafforza non appena si considera la seconda istanza, quella della reminiscenza. Difatti è solo in apparenza che la reminiscenza rompe col modello del riconoscimento, dato che si limita piuttosto a complicarne lo schema: mentre l’intellezione si fonda su un oggetto percepibile o percepito, la reminiscenza si fonda su un altro oggetto, che si suppone associato al primo se non in esso implicito, ed esige Bogatov-san-Micheledi essere riconosciuto per se stesso indipendentemente da una percezione distinta.

Ora l’altra cosa, implicita nel segno [incontrato dalla sensazione perplessa], dovrebbe nel contempo essere il «malvisto» e tuttavia il «già riconosciuto», l’inquietante estraneità. Può essere quindi suggestivo dire poeticamente che la tal cosa è stata vista, ma in un’altra vita, in un presente mitico: tu sei la somiglianza…
Ma in tal modo tutto è travisato: lo è, in primo luogo, la natura dell’incontro in quanto essa non propone al riconoscimento una prova particolarmente difficile, un intrico particolarmente difficile da sciogliere, ma si oppone ad ogni riconoscimento possibile; in secondo luogo, lo è la natura della memoria trascendentale e di ciò che può essere solo ricordato, poiché questa seconda istanza è concepita soltanto nella forma della similitudine nella reminiscenza.

A questo punto sorge la stessa obiezione: la reminiscenza confonde l’essere del passato con un essere passato e, non potendo assegnare un momento empirico in cui il passato è stato presente, invoca un presente originario o mitico.
Il grande merito del concetto di reminiscenza (ciò per cui si distingue radicalmente dal concetto cartesiano di inneità), è d’introdurre il tempo, la durata del tempo nel pensiero come tale: in tal modo, esso stabilisce un’opacità propria del pensiero, segno di una cattiva natura come di una cattiva volontà, che devono essere scosse dal di fuori, dai segni.

Ma, poiché il tempo è qui introdotto soltanto come un ciclo fisico, e non nella sua forma pura o nella sua essenza, il pensiero è supposto ancora in possesso di una buona natura, di una fulgente chiarezza, semplicemente offuscate o smarrite nei mutamenti del ciclo naturale. La reminiscenza è ancora un rifugio per il modello del riconoscimento, e al pari di Kant, anche Platone ricalca l’esercizio della memoria trascendentale sulla figura dell’esercizio empirico (come si vede chiaramente nell’esposizione del Fedone). […]

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Ma questa memoria, come ogni facoltà trascendentale, va piuttosto riportata a quel punto estremo di disordine, ove si trova quasi alla mercé di una triplice violenza: quella di ciò che la costringe a esercitarsi, di ciò che è costretta a cogliere e che essa sola può cogliere, e dunque anche dell’inafferrabile (dal punto di vista dell’esercizio empirico). È il triplice limite dell’ultima potenza. Ogni facoltà scopre allora la passione che le è propria, cioè la sua radicale differenza e la sua eterna ripetizione, il suo elemento differenziale e ripetitivo, come l’istantaneo prodursi del proprio atto e l’eterna ripetizione del proprio oggetto, il suo modo di nascere già ripetendo.

Ci si può chiedere, ad esempio, che cosa costringe la sensibilità a sentire, e che cosa può essere solo sentito, e essere al tempo stesso l’insensibile. E la domanda va ancora posta non soltanto per la memoria e il pensiero, ma anche per l’immaginazione (c’è un imaginandum, un phantastéon, che sia anche il limite, l’impossibile da immaginare?), per il linguaggio (c’è un loquendum, al tempo stesso silenzio?), e per altre facoltà che ritroverebbero il loro posto in una dottrina completa come la vitalità, il cui oggetto trascendente sarebbe anche il morto, o la socialità, il cui oggetto trascendente sarebbe Kopera-uomo-piantaanche l’anarchia, nonché infine persino per facoltà non ancora sospettate, ancora da scoprire.

Giacché non si può dire nulla in anticipo, non si può pregiudicare la ricerca: è possibile che talune facoltà, ben note – troppo note – si rivelino prive di limite proprio, di aggettivo verbale, perché imposte e operanti solo nella forma del senso comune; è possibile, tuttavia, che si destino nuove facoltà un tempo respinte dalla forma del senso comune. Questa incertezza riguardo ai risultati della ricerca, questa complessità nello studio del caso particolare di ogni facoltà, non hanno niente d’increscioso per una dottrina in generale e viceversa l’empirismo trascendentale è il solo mezzo di non ricalcare il trascendentale sulle figure dell’empirico.

Il nostro compito non è ora di stabilire una dottrina delle facoltà, quanto di determinare la natura delle sue esigenze. Ma sotto tale aspetto le determinazioni platoniche non possono essere soddisfacenti. Difatti non si tratta di figure già mediate e riferite alla rappresentazione, ma al contrario di stati liberi e selvaggi della differenza in sé, capaci di portare le facoltà ai loro rispettivi limiti. Non si tratta dell’opposizione qualitativa nel sensibile, ma di un elemento che è in sé differenza, e crea la qualità nel sensibile nonché l’esercizio trascendente nella sensibilità: questo elemento è l’intensità, come pura differenza in sé, a un tempo l’insensibile per la sensibilità empirica che non coglie intensità se non rivestite o mediate dalla qualità che crea, e ciò che può essere sentito soltanto dal punto di vista della sensibilità trascendente che l’apprende immediatamente nell’incontro.

E quando la sensibilità trasmette la sua costrizione all’immaginazione, quando l’immaginazione si leva a sua volta all’esercizio trascendente, è il fantasma, la disparità nel fantasma a costituire il phantastéon, ciò che può essere solo immaginato, l’inimmaginabile empirico.

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E quando giunge il momento della memoria, non è la similitudine nella reminiscenza, ma viceversa il dissimile nella forma pura del tempo a costituire l’immemoriale di una memoria trascendente. E un Io incrinato da questa forma del tempo si trova infine costretto a pensare ciò che non può essere solo pensato, non lo Stesso, ma quel «punto aleatorio» trascendente, sempre Altro per natura, in cui tutte le essenze sono coinvolte come differenziali del pensiero, e che non significa la più alta potenza di pensare se non ostinandosi a designare anche l’impensabile o l’impotenza a pensare nell’uso empirico.

A questo proposito, si rammentino le profonde osservazioni di Heidegger quando dimostra che finché il pensiero si ferma al presupposto della sua buona natura e della sua buona volontà, nella forma di un senso comune, di una ratio, di una cogitatio natura universalis, esso non pensa affatto, ma resta prigioniero dell’opinione, irrigidito in una possibilità astratta…: «L’uomo sa pensare in quanto ne ha la possibilità, ma questo possibile non ci garantisce ancora che ne siamo capaci»; il pensiero non pensa se non costretto e forzato, davanti a ciò che «dà da pensare», a ciò che va pensato, e ciò che va pensato è poi l’impensabile o il non-pensato, cioè il fatto perpetuo che «noi non pensiamo ancora» (secondo la pura forma del tempo) (Heidegger, Che cosa significa pensare).

Vero è che sulla via che conduce a ciò che va pensato, tutto muove dalla sensibilità. Dall’intensivo al pensiero, è sempre attraverso una intensità che il pensiero ci giunge. Il Petelin-diavoloprivilegio della sensibilità come origine appare in questo, che ciò che costringe a sentire e ciò che può essere solo sentito sono una sola e stessa cosa nell’incontro, mentre le due istanze sono distinte negli altri casi.

In effetti l’intensivo, la differenza nell’intensità, è a un tempo l’oggetto dell’incontro e l’oggetto a cui l’incontro innalza la sensibilità. Non gli dèi sono incontrati (perché anche nascosti, gli dèi non sono che forme per il riconoscimento), ma i demoni, le potenze del salto, dell’intervallo, dell’intensivo o dell’istante, che colmano la differenza solo col differente: sono essi i porta-segni.

E, cosa più importante, dalla sensibilità all’immaginazione, dall’immaginazione alla memoria, dalla memoria al pensiero – quando ogni facoltà disgiunta comunica all’altra la violenza che la porta al proprio limite – è ogni volta una libera figura della differenza a risvegliare la facoltà, e a risvegliarla come il differente di questa differenza: come la differenza nell’intensità, la disparità nel fantasma, la dissomiglianza nella forma del tempo, il differenziale nel pensiero.

L’opposizione, la somiglianza, l’identità e persino l’analogia non sono se non effetti prodotti da queste presentazioni della differenza, anziché essere le condizioni che subordinano a sé la differenza e ne fanno qualcosa di rappresentato. Non si può mai parlare di una philìa, espressione di un desiderio, di un amore, di una buona natura o di una buona volontà per cui le facoltà possiederebbero già, o tenderebbero verso l’oggetto al quale la violenza le innalza, e presentirebbero un’analogia con esso o un’omologia tra loro. Ogni facoltà, ivi compreso il pensiero, non ha altra avventura se non quella dell’involontario, mentre l’uso volontario resta immerso nell’empirico. Il Logos si frantuma in geroglifici, ognuno dei quali parla il linguaggio trascendente di una facoltà. Persino il punto di partenza, la sensibilità nell’incontro con ciò che costringe a sentire, non presuppone alcuna affinità o predestinazione.

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Viceversa, il fortuito o la contingenza dell’incontro garantisce la necessità di ciò che costringe a pensare, non un’amicizia, come quella del simile con lo Stesso, o anche unendo gli opposti, che leghi già la sensibilità al sentiendum. È sufficiente il triste precursore a far comunicare il differente come tale, a farlo comunicare con la differenza: il triste precursore non è un amico.
Il presidente Schreber riprendeva a suo modo i tre momenti di Platone, restituendoli alla loro violenza originaria e comunicativa: i nervi e la connessione dei nervi, le anime esaminate e l’assassinio di anime, il pensiero costretto o la costrizione a pensare.

Il principio stesso di una comunicazione, sia pure nei modi della violenza, sembra conservare la forma di un senso comune. Ma non è così. Certo esiste una concatenazione delle facoltà, e un ordine in tale concatenazione. Ma né l’ordine né la concatenazione implicano una collaborazione su una forma di oggetto che si supponga identico o su un’unità soggettiva della natura dell’io penso. Si tratta di una catena obbligata e spezzata, che percorre i resti di un io dissolto come i confini di un io incrinato.

L’uso trascendente delle facoltà è un uso propriamente paradossale, che si oppone al loro esercizio secondo la regola di un senso comune. Pertanto l’accordo delle facoltà non può prodursi se non come un accordo discordante, poiché ciascuna non comunica all’altra se non la violenza che la pone in presenza della propria differenza e della propria Bosch-angeli-ribellidivergenza con tutte le altre.
Kant per primo ha mostrato la possibilità di un tale accordo mediante la discordanza, con l’esempio del rapporto dell’immaginazione e del pensiero così come si esercitano nel sublime. C’è dunque qualcosa che si comunica sì da una facoltà all’altra, ma che si trasforma, e non forma un senso comune. Si potrebbe anche dire che ci sono Idee che pervadono tutte le facoltà, senza essere l’oggetto di alcuna in particolare.

Forse, in effetti, il termine di Idee va riservato non ai puri cogitando, quanto piuttosto a istanze che vanno dalla sensibilità al pensiero, e dal pensiero alla sensibilità, in grado di generare in ogni caso, secondo un loro ordine proprio, l’oggetto-limite o trascendente di ogni facoltà. Le Idee sono i problemi, ma i problemi recano soltanto le condizioni in cui le facoltà accedono al loro esercizio superiore. Sotto questo aspetto le Idee, lungi dal contare su un buon senso o un senso comune di sfondo, rinviano a un parasenso che determina la sola comunicazione delle facoltà disgiunte. Così esse non sono rischiarate da una luce naturale, ma producono luce, come lucori differenziali che oscillano e si trasformano. La concezione stessa di una luce naturale non è separabile da un certo valore dato dell’idea, il «chiaro e distinto», e da una certa origine data, «l’inneità». Ma l’inneità rappresenta soltanto la buona natura del pensiero, dal punto di vista di una teologia cristiana o, più generalmente, delle esigenze della creazione (onde Platone opponeva la reminiscenza all’inneità, rimproverando a quest’ultima di ignorare il ruolo di una forma del tempo nell’anima in funzione del pensiero puro, o la necessità di una distinzione formale tra un Prima e un Dopo, in grado di fondare l’oblio in ciò che costringe a pensare).

Il «chiaro e distinto» a sua volta non è separabile dal modello del riconoscimento come strumento di ogni ortodossia, sia pure razionale. Il chiaro e il distinto costituiscono la logica del riconoscimento, come l’inneità costituisce la teologia del senso comune, dato che ambedue hanno già istituito l’idea nella rappresentazione.
La restituzione dell’idea nella dottrina delle facoltà comporta la rottura del chiaro e distinto, o la scoperta di un valore dionisiaco secondo cui l’idea è necessariamente oscura in quanto distinta, tanto più oscura quanto più è distinta. Il «distinto-oscuro» diviene qui la vera tonalità della filosofia, la sinfonia dell’idea discordante.

(Deleuze, Differenza e ripetizione)