Lacan – Il numero irrazionale

È internandole che noi «creiamo» le cose – è iniettandole nelle nostre vene che ne scopriamo l’«essere». Ma, si domanda Lacan, quel che noi interiorizziamo, cos’è se non un «oggetto immaginale»? cos’altro se non una «immagine» della «cosa»?
L’immagine non è la «cosa» di cui è immagine, anzi non è nessuna «cosa». Una «cosa», lo può diventare ma a condizione che, nell’intimo della mente in cui è «internata», giunga fino a essere «nominata», investita cioè di quel (gioco di) prestigio «simbolico» che la renda infinito-quadrato«equivalente» a ciò che immagine non è. Equivalente di quella stessa «equivalenza irrazionale» che corre tra due incommensurabili, come il quadrato e la diagonale – l’equivalenza tra «visibile» (immagine) e «acustico» (nome) che realmente non hanno nessuna misura comune.

Se, dunque, l’«oggetto» preso nella sua «massa» e con tutto il peso della sua «gravità» è il reale bruto, il reale allo stato grezzo – quel che ne interiorizziamo ne è solo un’immagine. Si tratta ancora di un «oggetto» reale (io realmente l’immagino), ma di un altro ordine di «realtà». Di una realtà in cui si parla un’altra lingua – la lingua delle immaginazioni e dei desideri, i cui pesi e le cui misure sono di un altro ordine e grado di realtà.

Sono immaginali tutti, indistintamente, gli oggetti di desiderio. A crearli e a dare loro questa «seconda» realtà, è l’«energia» stessa del desiderio, la libido – come volgarmente si chiama. Nulla, dice Lacan, «vi è di più fecondo della libido nella creazione di oggetti corrispondenti alle tappe del suo sviluppo». La libido «si sviluppa» e nel corso della sua evoluzione, gli «oggetti» reali, essa realmente se li «immagina» in funzione delle sue metempsicosi. La nostra psiche, di mutamento in mutamento, è realmente sottomessa alle relazioni che intrattiene coi suoi «oggetti amorosi», realmente obbligata a identificarsi con essi, a mutare cioè d’identità mutando (più o meno capricciosamente) i suoi «amati».

Non le basta però creare sempre nuove «creature» a sua propria immagine e somiglianza, né nuove «maschere» al suo desiderato, per restituire i suoi «oggetti» interni alla «realtà bruta» a cui ha sottratto la loro materia prima.
Non le riesce di dare un senso ai suoi desideri (è condannata cioè a lasciarli pascolare allo stato brado e selvaggio) finché «astraendo» non li eleva a una «terza» realtà, finché non li «scrive» in un ordine simbolico, nel quale scopre «l’interno di ciò che le è più intimo», ossia: le sue proprie profondità acustiche. Senza Eco, nessun Narciso va al di là del rapporto duale tra lui e la sua immagine. Finché Narciso non lo nomina, finché non se lo dichiara intimamente nella lingua degli echi «senza immagine», finché nella trama del suo racconto non confonde il «quadrato» e la «diagonale», finché non tratta come «equivalenti» gli incommensurabili (l’immaginale e il nominale), il suo desiderio non ha sbocchi.

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Koch-addormentata

Il soggetto sogna. Ma l’esperienza dimostra che il sogno non è fatto in un momento qualsiasi, né in un modo qualsiasi, e che è rivolto sempre a qualcuno. Il sogno ha il valore di una dichiarazione diretta del soggetto. È nel fatto stesso di comunicarlo che egli si giudica da solo di avere un determinato atteggiamento inibito, difficile in certi casi, facile invece in altri, femminile o maschile, ecc.: è qui la leva dell’analisi.
Non è superfluo che egli possa dirlo a parole. L’esperienza è, fin dall’inizio, organizzata nell’ordine simbolico. L’ordine legale in cui egli viene introdotto quasi fin dall’origine dà senso alle relazioni immaginarie, in funzione di ciò che chiamo il discorso inconscio del soggetto.

Per questo il soggetto vuol dire qualcosa e in un linguaggio che è virtualmente pronto a diventare una parola, a essere cioè comunicato. La delucidazione parlata è la molla del progresso. Le immagini prendono senso in un discorso più vasto, in cui la storia del soggetto viene integrata. Il soggetto è come tale storicizzato da capo a fondo. È qui che si svolge l’analisi – al confine del simbolico con l’immaginario.

Il soggetto non ha un rapporto duale con un oggetto che gli sta di fronte, è rispetto a un altro soggetto che le sue relazioni con questo oggetto acquistano senso e, nello stesso Plotnic-triangolo-amoretempo, valore. Inversamente, se ha rapporti con questo oggetto, è perché anche un altro soggetto, diverso da lui, ha rapporti con questo oggetto, e ambedue possono nominarlo, in un ordine diverso dal reale.
Dal momento in cui può essere nominato, la sua presenza può essere evocata come dimensione originaria, distinta dalla realtà. La nominazione è evocazione della presenza, e sostegno della presenza nell’assenza.

Il soggetto non solo sogna, ma si racconta. Che egli si racconti è la molla dinamica dell’analisi. Le lacerazioni che appaiono, grazie a cui si può andare al di là di ciò che racconta, non sono a lato del discorso, si producono nel testo del discorso. È in quanto qualcosa nel discorso appare come irrazionale, che potete far intervenire le immagini nel loro valore simbolico.

È la prima volta che ammetto che ci sia qualcosa di irrazionale. Rassicuratevi, uso il termine in senso aritmetico. Ci sono numeri chiamati irrazionali e il primo che viene in mente, per scarsa che sia la vostra familiarità con questo argomento, è √2. Non c’è misura comune tra la diagonale e il lato del quadrato. Ci si è messo molto tempo ad ammettere questo. Per quanto piccola la scegliate, non la troverete. È ciò che si chiama irrazionale.

La geometria di Euclide si fonda proprio su questo, che ci si possa servire in modo equivalente di due realtà simbolizzate [nel nostro caso: la diagonale e il quadrato] che non hanno una misura comune. Ed è precisamente perché non hanno una misura comune che è possibile servirsene in modo equivalente.
È quel che fa Socrate nel Menone, nel suo dialogo con lo schiavo – Hai un quadrato; vuoi fare un quadrato due volte più grande, che cosa devi fare? Lo schiavo risponde che faràdiagonale-quadrato una lunghezza due volte più grande. Si tratta allora di fargli capire che, se raddoppia la lunghezza, avrà un quadrato quattro volte più grande. E non c’è modo di fare un quadrato due volte più grande.

Ma non si tratta né di quadrati né di riquadri da manipolare. Si tratta di linee tracciate, cioè introdotte nella realtà. È la cosa che Socrate non dice allo schiavo. Si crede che lo schiavo sappia tutto e che non abbia che da riconoscerlo. A condizione però che si sia lavorato per lui. Il lavoro consiste nel tracciare questa linea e nel servirsene in modo equivalente alla linea che è supposta data all’origine, supposta reale.
Quando si tratta semplicemente di più grande e di più piccolo, di riquadri reali, si introducono i numeri interi. In altri termini, le immagini danno un’apparenza di evidenza a ciò che è essenzialmente manipolazione simbolica. Se si arriva alla soluzione del problema, cioè al quadrato due volte più grande del primo quadrato, è perché si è cominciato col distruggere il primo quadrato in quanto tale, portandogli via un triangolo e ricomponendolo con un secondo quadrato. Questo suppone tutto un mondo di assunzioni simboliche nascoste dietro alla falsa evidenza cui si fa aderire lo schiavo.

Niente è meno evidente di uno spazio che conterrebbe in sé le proprie intuizioni. C’è voluta una quantità di agrimensori, di esercizi pratici, prima della gente che discorre così sapientemente nell’agorà di Atene, affinché lo schiavo non fosse più quel che poteva essere, vivendo sulle rive del grande fiume, allo stato selvaggio e naturale, in uno spazio di onde e di meandri di sabbia, su una spiaggia perennemente mobile, pseudopodica.
Si è dovuto per molto tempo imparare a ripiegare le cose sulle altre, a far coincidere le impronte, per cominciare a concepire uno spazio strutturato omogeneamente nelle tre spazio-euclideodimensioni. Le tre dimensioni, siete voi ad apportarle, con il vostro mondo simbolico.

L’incommensurabile del numero irrazionale introduce e ridà vita a queste prime strutturazioni immaginarie inerti, ridotte a operazioni del tipo di quelle che si trascinano ancora nei primi libri di Euclide. Ricordate con quali precauzioni si solleva il triangolo isoscele, si verifica che non si è mosso, lo si applica su se stesso. È da qui che si entra nella geometria ed è la traccia del suo cordone ombelicale.
In effetti, nulla è più essenziale per la costruzione euclidea che ripiegare su se stesso qualcosa che dopotutto è solo una traccia – neppure una traccia, niente di niente. Per questo si ha tanta paura, quando la si afferra, a farle fare delle operazioni in uno spazio che non è preparata ad affrontare. In verità, è qui che si vede fino a che punto è l’ordine simbolico che introduce tutta la realtà di ciò di cui si tratta.

Allo stesso modo, le immagini del soggetto vengono capitonné [usate a mo’ d’imbottiture] nel testo della sua storia, vengono prese nell’ordine simbolico, in cui il soggetto umano è introdotto nel momento più coalescente che si possa immaginare della relazione originaria, che siamo costretti ad ammettere come una specie di residuo del reale.
Non appena c’è nell’essere umano quel ritmo di opposizioni scandito dal primo vagito e dalla sua cessazione, si rivela qualcosa di operativo nell’ordine simbolico.

Tutti quelli che hanno osservato il bambino hanno visto che lo stesso colpo, lo stesso urto o lo stesso schiaffo non sono ricevuti allo stesso modo a seconda che siano punitivi o accidentali. Il più precocemente possibile, ancora prima della fissazione dell’immagine del soggetto, della prima immagine strutturante dell’io, si costituisce il rapporto simbolico, che introduce la dimensione del soggetto nel mondo, e che è capace di creare un’altra realtà rispetto a quella che si presenta come realtà bruta, come incontro di due masse, come cozzo di due bocce. Il più precocemente che sia concepibile l’esperienza immaginaria si iscrive nel registro dell’ordine simbolico. Tutto ciò che si produce nell’ordine della relazione oggettuale è strutturato in funzione della storia particolare del soggetto, ed ecco perché l’analisi è possibile, e il transfert.

(Lacan, Il Seminario: 2)