Mastro Eckhart – Praedica verbum

Oggi e domani si legge un versetto sul nostro san Domenico. San Paolo lo scrive nella sua epistola ed esso in volgare dice così: «Di’ la parola, pronunciala, esprimila, predicala, Kush-spirale-tempogenera la parola!» (2 Timoteo, 4: 2).

È meraviglioso che una cosa si espanda al di fuori e tuttavia rimanga in sé. Che la parola si espanda al di fuori e tuttavia rimanga in sé, è assai meraviglioso; che tutte le creature si espandano al di fuori e tuttavia rimangano in sé, è assai meraviglioso; ciò che Dio ha dato e ciò che ha promesso di dare è assai meraviglioso, inconcepibile e incredibile. Ed è bene che sia così: se fosse concepibile e credibile, non sarebbe bene.

Dio è in tutte le cose: più è nelle cose, più è fuori delle cose; quanto più è interiore, tanto più è esteriore; quanto più è esteriore, tanto più è interiore.
Ho detto più volte che Dio crea ora, assolutamente, tutto questo mondo. Tutto ciò che Dio ha creato seimila e più anni fa, allorché fece il mondo, Dio lo crea tutto ora. Dio è in tutte le cose, ma in quanto è divino e intelligibile non è in alcun luogo così veramente come nell’anima e nell’angelo, se vuoi, nel punto più intimo, nel punto più elevato dell’anima.

Quando dico «il più intimo» intendo dire il più elevato, e quando dico «il più elevato» intendo dire il più intimo. Nel punto più intimo e più elevato dell’anima intendo dire i due in uno solo. Là dove il tempo non penetrò mai, né immagine splendette, nel punto più intimo e più elevato dell’anima, Dio crea tutto questo mondo. Tutto ciò che Dio creò seimila anni fa quando Dio fece il mondo, e tutto ciò che Dio creerà ancora nei prossimi mille anni, qualora il mondo duri ancora tanto, Dio lo crea nel punto più intimo e più elevato dell’anima.

Tutto ciò che è passato, tutto ciò che è presente e tutto ciò che è futuro, Dio lo crea nel punto più intimo dell’anima. Tutto ciò che Dio opera in tutti i santi, Dio lo opera nel più intimo dell’anima. Il Padre genera il Figlio suo nel più intimo dell’anima, e genera te insieme col suo Figlio unigenito, non minore. Se devo essere Figlio è necessario che io sia Figlio nello stesso essere nel quale egli è Figlio, e in nessun altro. Se devo essere un uomo, non posso essere un uomo nell’essere di un animale, devo essere un uomo nell’essere di un uomo, ma se devo essere questo uomo, devo essere questo uomo in quanto essere. Ora, san Giovanni dice: «Voi siete figli di Dio».

Wilson-scritture

«Di’ la parola, pronunciala, esprimila, predicala, genera la parola!». “Pronunciala!”. Ciò che viene detto in te dall’esterno è una cosa logora: quella invece è pronunciata all’interno. “Pronunciala!”, cioè scopri ciò che è in te.
Il profeta dice: «Dio disse una parola e io ne udii due». Sì, è vero. Dio ne disse una soltanto. Il suo dire non è che uno. In questo unico dire egli dice suo Figlio e lo Spirito Santo e, insieme, tutte le creature, e in Dio questo dire non è che uno. Ma il profeta dice: «Io ne udii due»; cioè, io compresi Dio e le creature. Là dove Dio la dice essa è Dio, ma qua essa è creatura. Le persone pensano che Dio sia diventato uomo soltanto là. Ma non è così: poiché Dio si è fatto uomo sia qua che là, e si è fatto uomo per generarti come suo Figlio unigenito e non meno.

Ieri stavo seduto in un luogo e citai una parola che è nel Pater noster e che dice: «Sia fatta la tua volontà!». O piuttosto, sarebbe meglio: «Che la volontà sia tua!», che la mia volontà diventi la sua volontà, sicché io diventi lui: questo vuol dire il Pater noster.
Questa parola ha due significati. L’uno è questo: Dormi su tutte le cose, cioè non saper nulla né del tempo né delle creature né delle immagini. I maestri dicono: Un uomo che dormisse profondamente, se dormisse cent’anni, non saprebbe nulla delle creature, non saprebbe nulla né del tempo né delle immagini – e allora tu puoi capire ciò che Dio opera in te. Perciò l’anima dice nel Libro dell’Amore: «Io dormo ma il mio cuore veglia» (Il Picasso-testa-donna-addormentataCantico dei Cantici, 5: 2). Perciò: se tutte le creature dormono in te, puoi capire ciò che Dio opera in te.

La parola: «Datti da fare in tutte le cose» ha tre significati. Essa vuol dire: «Cerca il tuo vantaggio in tutte le cose», poiché Dio è in tutte le cose. Sant’Agostino dice: «Dio ha creato tutte le cose, e non le ha fatte divenire per poi continuare la sua strada, ma è rimasto in esse» (Confessioni, 4: 12).
Le persone credono, quando hanno le cose insieme con Dio, di possedere di più che se possedessero Dio senza le cose. Ma hanno torto, perché tutte le cose insieme con Dio non sono più di Dio solo; e se qualcuno che ha il Figlio e insieme con lui anche il Padre, credesse di avere di più che se avesse il Figlio senza il Padre, si sbaglierebbe. Poiché il Padre con il Figlio non è di più del Figlio solo; e allo stesso modo, il Figlio con il Padre non è di più del Padre solo. Perciò cogli Dio in tutte le cose, e questo è un segno che egli ti ha generato come suo Figlio unigenito e non minore.

L’altro significato è questo: «Cerca il tuo vantaggio in tutte le cose». Cioè: «Ama Dio sopra tutte le cose e il prossimo tuo come te stesso». E questo è un comandamento di Dio. Ma io dico che non è soltanto un comando: è anche un qualcosa che Dio ha dato e ha promesso di dare. Se ami che cento marchi siano tuoi piuttosto che di un altro, ti sbagli, e se ami tuo padre e tua madre e te stesso più di un altro, ti sbagli, e se ami la beatitudine più in te che in un altro, ti sbagli. – «Che Dio ci benedica! Che dite mai? Non devo amare la beatitudine più in me che in un altro?». Molte persone colte non capiscono e pensano che ciò sia difficile; eppure non è difficile, anzi è facile. Voglio mostrarti che non è difficile.

Vedete, la natura ha «due intenzioni» per ogni membro che opera nell’uomo. La prima intenzione alla quale essa mira nelle sue opere è di servire anzitutto il corpo intero e poi ogni singolo membro, come se stessa e non meno di se stessa, e nelle sue operazioni essa non mira più a se stessa che a un altro membro.

Ciò vale ancor più riguardo alla grazia. Dio dev’essere una regola e un fondamento del tuo amore. La prima intenzione del tuo amore deve mirare soltanto a Dio e poi al tuo prossimo come a te stesso, e non meno che a te stesso. E se ami la beatitudine in te più icona-roveto-ardenteche in un altro, ti sbagli, poiché se ami la beatitudine in te più che in un altro, ami te stesso, e se ami te stesso, Dio non è il tuo solo amore, e hai torto. Ora, se ami la beatitudine in san Pietro e in san Paolo come in te stesso, possiedi la loro stessa beatitudine. E se ami la beatitudine negli angeli come in te, e se ami la beatitudine in Nostra Signora come in te, godi della stessa beatitudine come ne gode lei stessa: essa appartiene a te come a lei. Perciò nel Libro della Sapienza si dice: «Egli lo ha fatto simile ai suoi santi».

Il terzo significato delle parole: «Cerca il tuo vantaggio in tutte le cose». Ama Dio egualmente in tutte le cose; cioè: ama Dio volentieri nella povertà come nella ricchezza, amalo nella malattia come nella salute, amalo quando sei tentato e quando non sei tentato, amalo quando soffri e quando non soffri.
Oh sì, più la sofferenza è grande, più la sofferenza è leggera; come due secchi: più l’uno è pesante, più l’altro è leggero; e più l’uomo abbandona, più gli è facile abbandonare. Per un uomo che ama Dio sarebbe facile abbandonare tutto questo mondo quanto un uovo. Più egli abbandona e più gli riesce facile abbandonare. Così era per gli apostoli: più pesanti diventavano le loro sofferenze, più facilmente essi le sopportavano.

«Datti da fare in tutte le cose!». Cioè: quando ritrovi te stesso più nella molteplicità delle cose che nella nuda, pura e semplice essenza, allora devi darti da fare; cioè: «Datti da fare in tutte le cose», compi il tuo dovere. È come dire: «Alza la testa!». E ciò ha due significati.
Il primo è questo: liberati da tutto ciò che è tuo e appropriati di Dio: così Dio diventa il tuo stesso bene come egli lo è per sé, ed è Dio per te come è Dio per se stesso, e non meno. Ciò che è mio non lo ho da nessuno; ma se lo ho da un altro, esso non è mio ma di colui dal quale lo ho.
Il secondo significato è questo: «Alza la testa!», vuol dire: dirigi verso Dio tutte le tue opere. Sono molte le persone che non capiscono, e io non me ne stupisco: infatti l’uomo che deve capire dev’essere distaccato ed elevato al di sopra di tutte le cose.
Che Dio ci aiuti ad arrivare a questa perfezione. Amen.

(Mastro Eckhart, Sermoni tedeschi)

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Blake-angelo-Zaccaria

Praedica verbum – (pronuncia la parola, dilla), ma all’Angelo. Dicendo all’Angelo, la parola non fluisce all’esterno, ma si interna proprio là nell’immagine, nell’Imago, dove non penetra il tempo della successione. «Quella parola è pronunciata interiormente. “Pronunciala!”, significa che devi diventare interiore di ciò che è in te», dice Mastro Eckhart.
Vi è la parola che si parla, la parola che esce da noi e si irrigidisce nella rappresentazione, che diviene proprietà di ciò che designa, che si deposita nel designatum. Ma vi è la parola che permane in chi la pronuncia, come le immagini originarie delle creature permangono nel Padre, che pure è Logos.

Il dire all’Angelo rammemora precisamente questo pronunciare la parola: dire bisogna, partecipare all’azione del Verbum, corrispondervi, ma ritornando in sé attraverso questo stesso dire.
Dire in forma tale che l’ex-primersi capovolga il proprio «senso» e si trasformi in rammemorazione del più intimo di sé, «dove non penetrò mai il tempo, dove non risplendette mai un’immagine», come dice Mastro Eckhart – e cioè: dire in forma tale che l’ex-primersi sia un lodare l’invisibile, senza nulla attendersi da esso, senza nulla «provocare» in esso. Questo dire riedifica in cuore, invisibile, la cosa.

(Cacciari, L’Angelo necessario)

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Non è l’Angelo (alla lettera: il nunzio, il messaggero) a dover dire qualcosa a noi. Per dire qualcosa, l’Angelo non ci è necessario. Non più perlomeno, dice Cacciari. Ma questo non Luca-Giordano-Giacobbe-angelocomporta, aggiunge subito dopo, che l’Angelo sia sparito dall’orizzonte del nostro dire. Significa soltanto che adesso è l’Angelo a dipendere da noi, da ciò che noi diciamo, e dunque dal destino del nostro dire –, dire a cui forse solo qualche residuo poeta visionario si ostina a tenerlo aggrappato. L’Angelo non è più necessario che a chi rimane, lui, aggrappato all’enigma dell’incipit del suo proprio «dire», lui a combattere per (ma anche contro) l’Angelo dal cui miraggio muto fu iniziato alla parola.

Perché il nostro Angelo (alla lettera: il messaggero che una volta portava lui a noi la parola) oggi è ridotto al silenzio e la parola è lui che viene a mendicarla da noi. È come per i sogni: più si resta impressionati dal fulgore «visibile» delle sue immagini, e più ci sfugge che è l’«acustico» [di una mezza parola] la loro materia «angelica».
Finché si insiste a dire e a credere (o a non credere) d’averlo «visto», l’Angelo si ritrova a essere ricacciato sempre più indietro nell’inconscio del nostro «dire». L’Angelo, dovrebbe bastare la parola «angelo», per dire che non si vede – che il messaggio tra lui e l’anima è invisibile per definizione. Quel che di lui «appare» nella visione, nel miraggio – è la veste, l’ornamento, il segno di cui l’Angelo si serve per guidarci alla parola: a quella parola che si aspetta che il suo «visionario» gli restituisca. Perché l’Angelo è il Poeta a cui, nel nostro «dire», è stata tolta la parola. E perciò poeta non è se non chi al suo Angelo muto la sua parola rivolge. Chi non la spreca per sedurre il mondo. Chi ricorda d’averla detta dentro di sé, quando dall’Angelo fu lui a essere sedotto.

È strano, ma è così: l’Angelo è il Poeta Muto, e noi siamo le possibili parole della sua poesia, siamo le voci potenziali del suo «messaggio» silente.
Oh, intendiamoci, noi di questo «messaggio» possiamo essere al più un frammento, e solo quello là di cui, come dice Cioran, si può dire solo a un ubriaco o a un moribondo. Perché i sobri e i viventi sono immersi e dispersi nella parola che si parla al mondo. E la parola mondana quanto più parla dell’Angelo, tanto meno parla all’Angelo. E meno gli parla, più l’Angelo diventa solo un ricordo – un «vuoto» solo ricordato che, è vero, non è sparito dall’orizzonte del nostro dire, ma è condannato a vagare nell’inconscio della nostra parola.

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Perciò, fatti coraggio, tira il fiato – dice Mastro Eckhart – e… pronunciala! Su, dai, dilla la tua parola, ma non dirla, se non rivolta dentro, al tuo Angelo! Dai, parlaci tu all’Angelo tuo che è muto! Diglielo tu quello che lui non può più dirti, dacché nel Discorso le parole del suo «messaggio» non risuonano più.
E tu, poeta, almeno tu, ultimo ubriaco chissà come sopravvissuto alla sbornia del Discorso, di’ quella sola parola che l’Angelo salvi, la parola che da te s’aspetta – che a lui sia rivolta, e che a lui solo risponda, e solo ai numeri e ai ritmi dei suoi detti corrisponda, perché fu lui che te la rivolse la prima volta. Come? non ricordi che fu un Angelo Muto a introdurti nel dire dell’Uomo?

Su, fatti coraggio e dilla – ma dilla in modo che la tua parola torni a parlare là dove risuonò la sua prima eco, là dove abbozzò il suo più antico ritornello – tutta rivolta dentro, tutta rivolta al passato, tutta poesia dell’Angelo, che così, portandosele di là, a una a una «creava» le «cose». Capisci? – solo a quel modo ch’ei ditta dentro, la tua parola può essere creatrice.

Perché le «cose» vengono al mondo nell’intimità dell’anima – quando laggiù risuonano i loro «nomi». Le «cose» sorgono al mondo umano dai «nomi» che risuonano nelle Shannon-uomo-addormentatoprofondità «senza immagine» dell’anima, e la cui eco torna dal Reame dove tutto è «solo ricordato», memoria senza corpo, pura trasmissione invisibile – da là «dove nessuna luce risplendette mai».
È laggiù – in quelle sue pieghe più oscure, che all’anima avviene d’incontrare la prima volta l’Angelo, il suo Angelo personale. La potenza del miraggio, il fascino muto del «visibile», la dominazione silente dell’immagine, le induce una tale suggestione, da farla penetrare nei suoi abissi invisibili. E tutto ciò che, in questo movimento, essa trascina con sé laggiù, vi diviene «cosa» che prima non «era».

Laggiù, dunque, dove l’anima apprese a dare l’«essere» alle «cose», bisogna che l’anima si faccia di nuovo coraggio e «dica la parola». Bisogna che la pronunci e che pronunciandola, restituendola al Poeta a cui manca, susciti il suo consenso – ovvero quell’eco di un «solo ricordato» che è tutto ciò con cui l’Angelo può dire: «sì, è questo il nostro reciproco dirci e nominarci».

È una parola, soltanto una parola – ma, dice il profeta, «io ne udii due». Ero così «ebbro» che quell’unica parola la sentii doppiata dall’eco che ritornava a me dalle profondità della mia anima. Ero così «moribondo», dice il profeta, che trapassai a nuova vita: un’eco, appena un’eco, del Passato «generò» la mia presenza a un nuovo mondo – al mondo dove le «cose», dacché «nominate», mi divennero Presenti.

Dormivo – e finché dormivo, ogni cosa non era né sotto né sopra, né notte né giorno, né passato né presente. Stavo «dormendo» l’ultimo sonno prima di morire alla stagione inconscia della mia vita (ero nato, ma neanche me ne ero accorto!), quando udii il fruscio d’ali del Poeta che veniva a svegliarmi.
Fu la sua Immagine, la sua bellezza «muta», a istigarmi alla parola: dai, dimmela, dilla a me la nostra parola – mi parve d’intendere dal suo silenzio. Mi parve, anzi assonnato com’ero, ebbi la certezza che s’aspettasse da me che gli rispondessi per le rime. Aveva le ali, ma per volare al mio Angelo mancava un non so che di orecchiabile. Non potei offrirgli che un’eco raccolta dal fondo della nostra anima.