C’era una volta un’indiana madre di parecchi figli, fra cui una ragazza fornita di una lunga capigliatura rossa. Pare che quest’ultima avesse sposato un uomo delle parti di Gowasdi [località a nord-est del lago Klamath]. Ma essa tornava spesso in famiglia perché era innamorata del fratello minore e ogni volta pretendeva che fosse lui a riaccompagnarla.
Una volta, tornando, dovettero accamparsi per la notte e la donna andò a infilarsi accanto al fratello addormentato. Quello si destò e rimase scandalizzato nel trovarsela stretta al suo fianco: «Che pazza! Pretendere di diventare la sposa del proprio fratello!». Si alzò senza far rumore, mise al suo posto un grosso ramo e tornò al villaggio. Quando riferì l’accaduto alla madre, questa predisse le più tremende sventure.
Il sole era già alto quando la donna si svegliò. Piena di furore per l’abbandono, appiccò un immenso incendio che si propagò dovunque e arse i fratelli e lo loro spose, ma risparmiò la madre.
Nel frugare fra la cenere, la vecchia trovò il cadavere di Storno, una delle nuore, la quale, essendo incinta, aveva cercato di ripararsi il ventre sotto un mortaio. Dalla sua schiena scavata dal fuoco la suocera riuscì a estrarre due bambini, un maschio e una femmina. Presentendo che quest’ultima sarebbe stata il ritratto della malvagia zia, essa incollò i bambini con la resina e ne fece un’unica creatura con due teste e di sesso maschile. Raccomandò poi al fanciullo di non chinarsi mai a guardare la propria ombra e di non scagliare mai una freccia contro il cielo.
Il ragazzo crescendo cominciò a sospettare che ci fosse sotto qualche mistero. Un uccello di una specie chiassosa, il piviere Kildir, lo convinse a tirare in aria una freccia che ricadde verticalmente e separò le due creature. Il ragazzo, che non aveva mai visto l’altra sua testa, rimase molto sorpreso nel trovarsi una bambina accanto. Fu lei a dirgli che era sua sorella. Quando tornarono alla capanna, la nonna si rassegnò di fronte al fatto compiuto.
La ragazza accompagnava sempre il fratello a caccia e lo assillava di domande: «Chi siamo noi? Perché non abbiamo né padre né madre? Cos’ha mai la nonna da piangere continuamente? Interroghiamo il sole e se non vuol rispondere tiriamogli una freccia».
Quando il sole sorse, lo interrogarono a lungo ma, siccome quello non prestava attenzione, la ragazza gli trafisse una guancia con un colpo di freccia e il segno nero che gli procurò è tuttora visibile. L’astro ferito li supplicò di estrargli la freccia e acconsentì a parlare. Disse che colei che aveva reso orfani i due bambini viveva nell’acqua, e indicò il posto preciso.
Giunto l’inverno, la ragazza volle recarsi in quel posto insieme al fratello, con la scusa di pescare con le lampare. Per notti e notti catturarono grandi quantità di pesce e di uccelli acquatici finché udirono il grido dell’assassina “gochgochgochgodjip”!
Lo udì anche la nonna ed ebbe il presentimento che un giorno o l’altro, scaricando il pesce, avrebbe trovato nel paniere la testa tagliata della figlia.
E infatti così accadde, e grande fu il suo dolore perché lei amava la figlia, benché avesse sterminato tutti i suoi.
Temendo la collera della vecchia, i due giovani decisero di fuggire dalla capanna attraverso il focolare. Raccomandarono a tutti gli utensili domestici di non tradirli, e richiusero con la brace l’orifizio che avevano scavato nella cenere per scappare. Ma si erano dimenticati di avvertire la lesina, e questa indicò alla vecchia come avevano fatto ad uscire. Immediatamente la vecchia si mise a rincorrerli. I fuggitivi avevano però un vantaggio di parecchi giorni.
Una volta il ragazzo perse una freccia su di un albero e pregò la sorella di andare a cercarla. Lei rifiutò ponendo come condizione che il fratello precisasse soddisfacentemente qual era il loro rapporto di parentela.
«Sei mia sorella? – No. – Mia zia? – No. – E allora che cosa? mia madre? – No». Egli suggerì tutti i gradi di parentela uno dopo l’altro, ma la ragazza continuò a rifiutarli finché non fu pronunciata la parola «sposa». Allora, su istigazione della ragazza, si unirono e poi vissero come marito e moglie, sebbene fossero fratello e sorella.
Intanto la nonna, che aveva previsto quanto era accaduto, continuava a inseguirli. Osservando le ceneri dei fuochi che avevano lasciato, notò l’incavo provocato dal ventre della nipote e capì che era incinta. Trovò anche la pelliccia di un orso che il nipote, ormai adulto, aveva ucciso e se la mise addosso.
Nel frattempo era nato il bambino, e il giovane padre, secondo la tradizione, dovette isolarsi nella boscaglia per pregare, digiunare e ottenere la protezione degli spiriti. La vecchia, trasformata in orsa, lo raggiunse, lo uccise e lo mangiò. Poi si presentò alla nipote e le chiese da bere.
Mentre la nonna era intenta a dissetarsi, quest’ultima le infilò nell’ano delle pietre arroventate. Poi, con la scusa di farle vomitare l’eccesso d’acqua che aveva bevuto, si mise a pestarle lo stomaco in modo che le pietre roventi, mescolare all’acqua, la portarono a ebollizione. Cotta dall’interno, l’orchessa morì. La giovane sposa innalzò un rogo, gli dette fuoco, e ci si volle buttare sopra, col bambino sulla schiena.
Kmúkamch vide la scena dall’alto di un pendio dove si trovava e fu preso da ammirazione per la bellezza del bambino. Mentre la madre saltava sul rogo, egli colpì il fanciullo con un mazzuolo e lo fece cadere lontano. Poi lo raccolse, tentò invano di fissarselo sulla fronte, sul collo… e alla fine se lo introdusse in un ginocchio.
Tornò a casa zoppicando e si lamentò di fronte alla figlia perché aveva una gamba gonfia. Quella diagnosticò un ascesso, lo incise e vide spuntare dei capelli. Venne fuori il bambino, strillando. Invano il padre e la figlia gli proposero tutti i nomi possibili e immaginabili; solo quello di Aishísh lo calmò.
Il bambino crebbe e, una volta adulto, sposò un gran numero di mogli: Gallinella d’Acqua, Airone Verde, Uccello delle Nevi, Scoiattolo, Anitra Selvatica…
Kmúkamch sbirciava Scoiattolo mentre si spulciava e si domandava perché il figlio la preferiva alle altre spose. Anche Anitra Selvatica, gelosa, faceva le stesse riflessioni. Kmúkamch arrivò al punto di desiderare la bella nuora, e metteva nel focolare dei ceppi che provocavano tante scintille perché queste, sprizzandole addosso, costringevano Scoiattolo, sempre nuda sotto, a scoprire le sue bellezze sollevando le gonne per proteggersi gli abiti.
Kmúkamch decise allora di uccidere il figlio. Cercò a lungo come avrebbe potuto fare. Un giorno vide nella prateria una pianta, forse una canna, dove gli storni avevano fatto il nido. Raccontò ad Aishísh che aveva scoperto un nido di aquile, ma così alto che lui si sentiva troppo vecchio per raggiungerlo. Fece arrampicare il figlio dopo averlo costretto a spogliarsi. La canna cominciò a crescere e, quando Aishísh fu arrivato al nido, dove trovò solo degli uccellini che gettò a terra, non poté più ridiscendere.
Bloccato in cima alla pianta, senza mangiare, cominciò a dimagrire. Kmúkamch prese in moglie la piccola Scoiattolo. Le sorelle Farfalle, che volavano intorno all’albero, afferrarono un capello che volteggiava nell’aria e si misero a cercare di dove venisse.
Scoprirono così Aishísh ormai ridotto uno scheletro e mezzo morto dalla fame e dalla sete, lo fecero scendere e lo ospitarono in casa loro.
L’eroe stava sdraiato dalla mattina alla sera vicino al focolare, ma questo non gli impedì di sposare un’altra decina di donne: le sorelle Farfalle, Cavalletta, Formica e altre ancora.
Ogni giorno venivano dei porcospini a danzare sul suo corpo, lo sporcavano di polvere e lo sfidavano: «Chi ci taglierà i polsi?». Se ne approfittavano perché era malato, ma appena si sentì meglio, egli li uccise, tagliò loro polsi e caviglie e con gli aculei fece delle collane per le sue spose. Ecco perché la cavalletta porta ancora una collana. Egli fabbricò per loro anche dei mocassini e forse anche degli orecchini.
Le spose erano molto fiere di questi ornamenti e si davano da fare per raccogliere radici commestibili. Solo la pigra Cavalletta non faceva che cantare e consumava i mocassini sfregandosi le gambe l’una contro l’altra.
Aishísh fu preso dalla voglia di tornare a casa e si congedò dalle sue spose: «Ora avete tutto il necessario», disse loro; infatti aveva avuto cura di rifornirle abbondantemente.
Laggiù al paese, le sue prime mogli erano inconsolabili, tranne Anitra Selvatica che gli serbava rancore per la sua indifferenza, e Scoiattolo che giaceva con Kmúkamch benché sapesse benissimo che non era suo marito.
Uccello delle Nevi aveva un figlio. Fu lui a scorgere per primo il padre e a riconoscerlo. Aishísh [pensa la narratrice] recuperò le sue spose.
L’eroe ordinò al figlioletto di gettare nel fuoco i cuori di Kmúkamch [la narratrice afferma che ne aveva parecchi]; questi scoppiarono tra le fiamme e produssero una pece resinosa che ricoprì tutta la terra.
Aishísh mise al riparo i suoi, ma Gallinella d’Acqua volle vedere quello che succedeva e le gocce di pece le produssero delle macchie intorno al naso.
[La narratrice non si ricorda se c’era un seguito: «Forse le capitava di addormentarsi mentre si raccontavano i miti»].
***
Considerato nel suo insieme, questo mito presenta una struttura periodica: infatti gli episodi si riproducono da una sequenza all’altra.
Vi sono tre successivi incesti: il primo, frustrato, di una donna – sposata lontano da casa sua – con un fratello rimasto in seno alla famiglia; il secondo, riuscito, tra un fratello e una sorella che sono cresciuti incollati insieme; il terzo fra il suocero e la sposa di un figlio che era nato in un certo senso incollato a lui.
Due gruppi familiari periscono ad opera del fuoco, insieme o uno dopo l’altro: prima, dei fratelli con le loro spose, poi una madre e infine la figlia di lei. Lo storno interviene in due riprese: come personaggio umano, salva i propri figli nascondendoli nella terra; come uccello, rischia di far perire il figlio del suo complice alzandolo verso il cielo.
Coppie di parenti prossimi subiscono alternativamente congiunzioni e disgiunzioni: fratello e sorella congiunti dalla resina che li incolla l’uno all’altra e poi disgiunti dalla freccia che li separa; madre e figlio congiunti dal fuoco (nel momento in cui stanno per morire insieme sul rogo) e poi disgiunti dal maglio del demiurgo; padre e figlio congiunti quando l’uno si rende incinto dell’altro e poi disgiunti quando, invece, il padre cerca di sbarazzarsi del figlio per approfittare delle mogli di lui.
La freccia disgiuntrice ha una funzione inversa a quella della resina in quanto scolla i gemelli cadendo dall’alto in basso. Ma, tirata dal basso verso l’alto, essa ha, nei confronti del sole, la stessa funzione della resina che cola dall’alto verso il basso sulla gallinella d’acqua, poiché in entrambi i casi la vittima conserva un segno nero sul volto.
Nella gallinella d’acqua questo segno dimostra che il cielo e la terra furono per un momento incollati insieme a opera della resina; nel sole dimostra che un fratello e una sorella furono scollati l’uno dall’altra, nonostante la resina che li saldava, facendone un essere unico. […]
Conviene tuttavia attirare subito l’attenzione sulla rigorosa architettura della prima parte del mito. Lasciando da parte per il momento il figlio dell’eroina, il quale diventerà Aishísh e assumerà il ruolo principale nella seconda parte, l’intreccio coinvolge dei personaggi che appartengono a tre generazioni successive: prima la vecchia madre, poi la figlia e i figli di lei con le loro spose, infine i due nipoti.
Nella generazione intermedia il mito qualifica solo tre personaggi: un ragazzo celibe, affiancato in un certo senso da una sorella incestuosa che sappiamo sposata a un uomo geograficamente lontano, e da una cognata che si chiama Storno, come l’uccello che connota la congiunzione del cielo e della terra.
Il sistema appare dunque limitato alle due estremità da funzioni semantiche in duplice contrasto: unione/disgiunzione e asse verticale/asse orizzontale. All’interno di questo sistema, man mano che l’azione si sviluppa, la madre finisce col sostituire la figlia morta nel ruolo di orchessa (in senso figurato e sessuale per la prima, in senso proprio e alimentare per l’altra); simultaneamente questa stessa figlia, in quanto cacciata a opera della madre dalla posizione che occupava, va a prendere il posto della nipote, anch’essa sorella incestuosa, mentre il fratello, restio di fronte alle sollecitazioni della prima, si muta in un nipote che cede alle sollecitazioni dell’altra.
Il concatenarsi di queste commutazioni durante tutto l’arco del racconto non impedisce che i loro fondamenti logici si presentino con una perfetta simmetria. Nonostante le azioni criminose della seconda, le due donne più anziane sono profondamente attaccate l’una all’altra: la figlia risparmia la madre, la madre si angoscia quando per la figlia assassina si avvicina l’ora del castigo; dopodiché non pensa che a vendicarla nella persona dei propri nipoti. Abbiamo perciò per le due donne un rapporto di contiguità.
Al contrario, la nipote si sente così poco vicina alla propria zia che la uccide con le sue stesse mani; eppure le somiglia – come non si stanca di ripetere la nonna nel corso del racconto: infatti essa riesce a compiere col fratello quell’incesto che l’altra avrebbe voluto commettere con il proprio.
Così, se la madre, contigua alla figlia, diventa veramente un’orchessa e sposta in senso reale quella funzione che la figlia rivestiva in senso figurato, simmetricamente la nipote, simile alla zia, commette un vero e proprio incesto e traspone nel senso proprio un atto che quella non aveva potuto compiere altro che in maniera figurata quando era andata a sdraiarsi senza successo accanto al fratello. […]
Ma chi è questa sorella incestuosa? La versione Barker la descrive servendosi di una perifrasi: «la donna dai capelli rossi del fiume Sprague», e questo ci dice qualcosa del suo aspetto fisico e della regione in cui abita insieme al marito (a nord-est del lago Klamath superiore; la località Gowasdi si trova infatti alla confluenza dello Sprague col fiume Williamson che si getta nel lago un po’ più a sud).
Il mito non precisa neppure quale sia l’animale acquatico dallo strano grido in cui essa si trasforma dopo aver perpetrato i suoi misfatti.
Ma a risolvere l’enigma della sua identità ci soccorre un celebre mito conosciuto col titolo di «Donna Colimbo», del quale la Demetracopoulou ha recensito e analizzato una quindicina di versioni tutte provenienti dalla California settentrionale. E la versione sincretica che ne dà è la seguente:
I parenti di un ragazzo dotato di eccezionale bellezza nascondono quest’ultimo agli sguardi di tutti, con particolare riguardo per le persone di sesso femminile.
Una donna, che spesso è la sorella dell’eroe, raccoglie un capello diverso dai soliti e decide che il possessore del capello diventerà suo sposo. Dopo averlo scoperto, lo trascina via con sé, ottiene dal sole un immediato tramonto e approfitta della notte per dividere il giaciglio dell’adolescente.
Questi o resiste alle profferte della rapitrice oppure si trova nell’impossibilità di cedere in quanto, prima della partenza, i genitori hanno previsto un mezzo per impedire l’accoppiamento. Egli fugge, lasciando al suo posto un ceppo di legno.
Temendo la collera della donna, tutta la famiglia decide di rifugiarsi in cielo, con o senza l’aiuto del ragno. Un passeggero commette lo sbaglio di guardare verso la terra durante l’ascensione, la corda si spezza ed egli cade con i suoi compagni tra le fiamme di un incendio appiccato dalla loro persecutrice, a meno che non siano stati proprio loro a dar fuoco alla capanna prima di fuggire.
Questo incendio assume proporzioni cosmiche. Le fiamme consumano le vittime, risparmiando solo i cuori che l’assassina raccoglie per farsene una collana. Oppure uno dei cuori salta fuori dalle fiamme e va a cadere in una terra lontana; lo scoprono due sorelle che ricostituiscono il corpo partendo proprio dal viscere risparmiato, lo rianimano e sposano il risuscitato.
Secondo altre versioni, fra cui quelle dei Klamath e dei Modoc, una delle vittime dell’incendio dà alla luce due bambini postumi e la nonna li salda in un essere unico; in seguito essi riacquistano la loro autonomia.
Questi fanciulli – oppure il figlio o i figli dell’eroe risuscitato – vengono a sapere la loro origine per bocca di un uccello che hanno risparmiato. Uccidono la donna colpevole, che si trasforma in uccello tuffatore, recuperano i cuori e risuscitano i familiari.
(Lévi-Strauss, L’uomo nudo)