Plotino – L’anima è ciò che ricorda

Una volta che l’anima è uscita di là [dal mondo intelligibile] sbalzata fuori dall’Uno, finisce per compiacersi di se stessa e, volendo essere altro ancora, si sporge per così dire all’infuori [del suo essere] e da quel momento, a quanto pare, comincia a ricordare. Il ricordo delle cose di là (ἐκεῖ) le impedisce di cadere, mentre quello delle cose di qua Smith-anima(ἐνθαῦτα) l’attrae quaggiù, e quello delle cose celesti la trattiene lassù: in generale, l’anima è e diventa ciò di cui si ricorda.

Il suo ricordare è un pensare o immaginare; ora, l’immaginazione non gode in sé di un suo modo d’essere a priori, ma si costituisce sulla base di ciò che contempla: nel caso delle percezioni sensibili, è il modo in cui le contempla a decidere anche la sua stessa profondità. Come a dire che l’anima si appropria sì di tutte le cose, ma in secondo grado e non così perfettamente [come il noûs da cui si sporge]. E così essa diventa tutte le cose [che immagina]: facendo di se stessa la frontiera, può da qui sconfinare dall’una e dall’altra parte.

Se dunque sconfina di là (ἐκεῖ), l’anima può arrivare a contemplare finanche il Bene attraversando il [mondo del] noûs: questo, infatti, non le è così oscuro da restarle inaccessibile, dal momento che tra loro non c’è di mezzo nessun corpo che funga da impedimento; e se anche si frapponessero dei corpi, il passaggio dal primo [il noûs] al terzo [che in questo caso verrebbe a essere la psiche] sarebbe comunque possibile in molti altri modi.
Se invece essa si volge alle cose di quaggiù, non vi può cogliere che desideri conformi a ciò che ricorda o immagina. Perciò il ricordo, fosse pure delle cose più elevate, non è tra le cose più elevate.

Ma la memoria non bisogna prenderla solo per l’atto di quel momento in cui fissiamo a mente ciò che percepiamo e come lo percepiamo, perché essa è anche quell’atto tardivo con cui risuscitiamo a noi precedenti impressioni e contemplazioni [che non sapevamo d’aver percepito]. Poiché è possibile, anche senza avere coscienza di avere, che si abbia in sé qualcosa e con maggior forza di quando se ne è coscienti.
Chi ne è cosciente, infatti, ci mette poco a capire di avere a che fare con qualcosa di altro da lui [qualcosa che possiede solo nel ricordo o nell’immaginazione], qualcosa che lui non è – mentre chi ne è incosciente rischia di essere ciò che ha [solo nel ricordo o nell’immaginazione]: ed è proprio questa affezione che fa cadere l’anima [da là a qua].

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Ma se l’anima, staccandosi di là, riprende i suoi ricordi [e rientra in sé], vuol dire che quei ricordi essa li conservava anche durante la sua permanenza oltre confine: ne aveva di certo la facoltà, anche se la forza in atto (ἐνέργεια) esercitata dalle potenze di là ne oscurava la memoria [impediva cioè che se ne stampasse un’immagine-ricordo]. Non erano lì come tracce impresse [in una memoria] – anche se, detta così, la cosa ci porta a conseguenze assurde – ma vi erano come ricordi potenziali che più tardi dovevano passare in atto.
Una volta cessata l’azione della forza in atto nell’intelligibile, l’anima vede sì ciò che le è accaduto, ma le prende per cose accadute prima di sconfinare di là [ossia per «ricordi» antecedenti alle sue incursioni nell’intelligibile].

E che dunque? È proprio questa potenza, con cui si ha il ricordo [questa memoria potenziale], essa da sé a spingersi in atto?
La questione è se quei ricordi potenziali sono proprio quelli che abbiamo contemplato in se stessi, e se così fosse, se nel ricordo lo sguardo con cui l’anima li contemplava di là [quando era «immersa nel noûs] sia ancora lo stesso [al suo «risveglio»].
Questo potere si desta infatti a coloro in cui si desta, suscitando in loro la sensazione di contemplare [coi propri occhi] ciò che si dice [del noûs].

Perché esso si manifesti, non è necessario infatti ricorrere a una congettura o a un sillogismo che traggono altrove le loro premesse, ma è possibile parlare degli intelligibili Yankus-anima-in-bottigliaallo stesso modo in cui ne parlano le anime che sono quaggiù, grazie proprio a quel potere che ha la facoltà di contemplare le cose di là. E quando in noi questo potere si risveglia, bisogna contemplare le cose di là, e perciò bisogna che ci destiamo [al mondo] di là [e alla sua «realtà»].
È come se uno dall’alto di un osservatorio volga intorno lo sguardo e veda cose che nessuno di coloro che non sono saliti con lui può vedere.

Da quanto si è detto, è manifesto dunque che il ricordo comincia dal cielo, a partire dal momento in cui l’anima abbandona i luoghi di là. Se di qui poi essa risale in cielo e vi pone la propria dimora, non c’è ragione di meravigliarsi se ancora conserva il ricordo delle molte cose terrene di cui quaggiù si dice, e che riconosca molte anime fra quelle conosciute prima, se è vero che esse devono essere rivestite di corpi in forme simili. Se poi invece mutassero la loro figura e assumessero forme sferiche, potrebbero comunque essere riconosciute dal loro carattere e dai loro comportamenti. Non è assurdo. Pure ammettendo che abbiano deposto le loro passioni, nulla tuttavia impedisce che il carattere resti. E se poi hanno almeno la parola per dialogare, anche solo da questo possono essere riconosciute.

Ma quando le anime discendono dall’Intelligibile, come [possono esse «riconoscere» e ricordare quello che hanno contemplato di là]?
Esse richiameranno alla memoria il ricordo sì di quelle cose, ma più debole di quanto quelle cose siano state patite là, vuoi perché avranno anche altre cose da ricordare, vuoi perché un tempo più lungo avrà fatto loro completamente dimenticare molte cose.

Ma, se rivolte al mondo sensibile esse cadono quaggiù nel divenire, quale sarà il tempo [di durata] dei loro ricordi?
Non è detto che col tempo esse debbano ineluttabilmente sprofondare nell’oblio più totale, perché è pur sempre possibile che nel loro movimento [di caduta] ci sia un arresto, e nulla impedisce che riprendano a salire, prima di toccare il punto più basso del divenire.

(Plotino, Enneadi, 4: 4.3-5)

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A differenza di quanto si legge nel Corpus Hermeticum, il noûs non è un «dono» divino che l’anima deve conquistarsi immergendosi nella gnosi, bensì un grado di pensiero e d’intelligenza in cui essa era già immersa, ma che, avendolo perduto, l’anima ha semmai da riconquistarsi.
Per Plotino e i neoplatonici, infatti, in principio non è l’Anima, ma il Noûs. In principio è l’Intelligenza che «di là», dalla sua realtà immediata, intellige al grado supremo e più intimo del Pensiero (inconscio); e l’anima, la psiche, non entra in scena che in un secondo momento, cioè nel momento «narcisistico» dell’autocompiacimento contemplativo allorché, attratta dall’immagine che «vede» come altro da sé, fuori di sé, e in un certo modo tutta per sé, l’anima si sporge nel tentativo di acciuffarla, ed eccola sbalzare, come Fetonte, giù dal Carro delle sue visioni «di là», in caduta libera eccola precipitare giù dalla merkaba delle sue remote contemplazioni.

E tuttavia – nella caduta l’anima porta con sé il ricordo. Anzi, dice Plotino, l’anima non è altro, e soprattutto altro non può diventare, che ciò che ricorda di quel che ha contemplato «di là». Nient’altro che l’immagine-ricordo in cui Narciso si è contemplato, staccandosi dall’immediatezza del noûs. L’anima non è che questo. Nient’altro che un Reischl-perambolaricordare, e con ciò un rallentare, un mettersi in ritardo, un eccepirsi del noûs a se stesso, un andare contromano alla sua propria immediatezza. L’anima non è che un rifluire del pensiero inconscio su se stesso. Un ritornare là dove, nella ripetizione inconscia, ha colto una differenza, e ha goduto di un miraggio.

L’anima si costruisce sui ricordi, e il suo modo d’essere si adegua al modo in cui immagina quei ricordi. Come l’immaginazione, l’anima non ha una sua costituzione innata. Sono i ricordi, le immagini e quant’altro resta delle rovine delle sue contemplazioni inconsce, che obbligano l’anima ad adattarsi alle loro forme e al loro grado di profondità. Non le danno libertà di scelta. Le impongono il loro destino, il loro volere, i loro aneliti.

In quanto a questi «tiranni» che sono i ricordi, tu fa’ attenzione a quel che qui dice Plotino. Dice che ci sono ricordi inconsci – ricordi che non abbiamo la coscienza di avere, ricordi di cui non ricordiamo quando dove e come li abbiamo fissati a mente. Eppure, essi sono in noi – sono nientemeno la nostra anima! Ricordi vuoti di contenuto, senza rimandi a un «fatto», memorie immemori di se stesse e della loro provenienza – eppure, è ai loro richiami che risponde la nostra anima.

È su questi ricordi inconsci che ci invita a meditare Plotino: su questi «solo ricordati», su questi «indimenticabili» di cui ci siamo scordati quando dove e come furono «scritti» tra i nostri ricordi – perché essi agiscono su di noi con maggior forza dei «ricordi consci», e ci espongono a quell’«affezione», a quella «pazzia», di prendere per realmente nostro ciò che possediamo solo nel ricordo o con l’immaginazione. Se andiamo dal «dottore», è perché sono certi tiranni inconsci che ci fanno «male».

Se sono «solo ricordati» o «indimenticabili» di cui ci siamo dimenticati, vuol dire che sono resti, avanzi, frammenti dispersi e vaghi cenni, a volte si tratta soltanto di un nome, o solo di un odore – ma il nome di chi? e l’odore di che cosa? – che ci sono rimasti Dalì-persistenza-memoria-clockaddosso, attaccati a qualche punto nevralgico del nostro essere, nientemeno nel luogo natio della nostra anima, e noi, proprio noi, non sappiamo come mai e perché.

Ricordi passivi – ecco cosa sono: ricordi di esperienze patite quando ancora non avevamo un’anima, quando ancora eravamo immersi nel flusso inconscio del Noûs. Allora – quando vagavamo – su di noi agiva l’ἐνέργεια propria degli «intelligibili». Essa ci trascinava nella sua «temporalità» senza pause, senza stazioni, senza ritardi. Nei suoi «flussi» senza riflussi.
non c’è memoria. C’è intelligenza e volontà. C’è intuizione e desiderio. Ma non c’è memoria. Nessuna traccia, nessuna impronta, nessuna differenza.
, se non c’è ricordo, non c’è neanche anima. è tutto e solo noûs. Tutto nel noûs è immerso.

E qui sorge il problema. Se non c’è anima, chi è là?
Plotino lo risolve a modo suo. , egli dice, non c’è memoria in atto, non c’è ancora un’anima in atto, ma c’è tuttavia memoria in potenza, un «possibile» dell’anima. Gli intelligibili, dice, non lasciano impronte del loro passaggio. I loro «segni», le loro «scritture», non vengono alla luce che quando l’anima «cade» dal Carro delle contemplazioni. Solo a posteriori si manifesta in atto un (vago) ricordo. Solo quando in qualcuno rispunta il ricordo di Nessuno. Solo quando scema l’«energia» del noûs, nasce il ricordo e, con esso, gli intelligibili mettono al mondo l’anima che ricorda.

La risvegliano, per così dire, dal sonno e dalla trance del non essere mai stata. Non ancora. Ma ecco che quando, ancora mezzo addormentata, l’anima si desta a certi ricordi «patiti» di là, proprio su di essi si confonde, in quanto li attribuisce a sue precedenti esperienze quaggiù, in terra [magari in una precedente vita].
Ma le cose non stanno così per Plotino. l’anima non c’è, c’è solo la Memoria Virtuale del Noûs. Là, nel reame dell’Intelligenza inconscia, nel regime della Realtà immediata, regna solo Mnemosine, la Signora che amministra e che dispensa le forme vuote degli «indimenticabili» a quanti cadono nella Rete dei suoi echi «impersonali».

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Cosa dobbiamo credere? – che sia Lei a passare dalla potenza all’atto? che sia la Memoria inconscia, lei in realtà, a «realizzarsi» nelle nostre anime?
Ma una volta che si sia «realizzata» destandosi in questa o quell’anima, essa è ancora quella che era «là», si domanda Plotino? e lo sguardo dell’anima in cui si «realizza» è ancora quello stesso con cui Narciso contemplò «di là» la sua propria immagine, quando ancora questa era soltanto un «possibile», ancora soltanto un «vuoto» ricordo?

E poi ancora: allorché questo ricordo sarà diventato un’anima, e quest’anima appesantita dal ricordo sarà caduta tra le «realtà in atto», cosa dobbiamo aspettarci? che la Memoria, divenendo col tempo sempre più debole, finirà per arrendersi all’Oblio totale, sicché, con la fine dei ricordi, cesseranno di esistere anche le anime, che di ricordi e di immaginazioni sussistono? O è possibile loro arrestare la caduta e, invertendo la rotta, risalire «attraverso le sfere» alla riconquista dell’intelligenza perduta? E quale altra via potranno seguire, se non proprio questa aperta da simili domande? In fondo, chi è che ancora insiste a farsi tante domande? Chi, se non una Memoria che non vuole arrendersi a una realtà che giorno per giorno la indebolisce?