«Perché mai, o padre, Dio non ha accordato l’intelletto a tutti?».
«È perché ha voluto, figlio mio, che l’intelletto fosse posto tra le anime come un premio che queste dovessero guadagnarsi».
«E dove l’ha dunque posto?».
«Ne ha colmato un grande cratere che ha inviato sulla terra, e ha assoldato un araldo con l’ordine di proclamare ai cuori degli uomini queste parole: “Immergiti, tu che lo puoi, in questo cratere, tu che credi nella risalita verso Colui che ha inviato sulla terra il cratere, tu che sai per quale fine sei venuto all’essere”. Tutti coloro che hanno quindi prestato orecchio alla proclamazione e sono stati battezzati (con questo battesimo) dell’intelletto hanno avuto parte alla conoscenza, divenendo uomini perfetti perché hanno ricevuto l’intelletto. Coloro invece che non hanno dato ascolto al proclama sono rimasti dei logici, perché non hanno acquisito in sovrappiù l’intelletto, sicché ignorano la meta per la quale sono venuti all’essere e chi sono gli autori della creazione».
(Corpus Hermeticum, 4: 3-4)
La vera difficoltà del testo dipende dall’accostamento dei due termini battesimo e cratere. Se da una parte, infatti, nulla è più comune, sia fra gli ebrei che presso i pagani, di un battesimo di purificazione, anteriore, nei misteri pagani, ai riti propri dell’iniziazione, e se, dall’altra, nulla è meglio attestato in alcuni misteri pagani del rito che vedeva il sacerdote far bere all’iniziato una sorsata di vino, di un vino che veniva precisamente attinto da un cratere, non risulta invece alcun esempio di battesimo in un cratere.
Supporre a questo punto un’influenza del cristianesimo non chiarisce alcunché: dove si è mai visto che i cristiani abbiano battezzato in un cratere?
È perciò mia intenzione mostrare come l’autore del trattato ermetico in questione abbia arbitrariamente mescolato due riti, il primo dei quali non è il battesimo, ma l’assunzione sacramentale del vino attinto da un cratere, e tentare non di risolvere completamente il problema, ma di indicare la probabile direzione che occorre seguire per ritrovare la forma di pensiero in cui un tale accostamento ha potuto aver luogo il più naturalmente possibile.
È chiaro innanzitutto che qui si tratta di un rito misterico cultuale utilizzato come metafora in un mistero letterario. Ciò è pienamente dimostrato dalla menzione dell’«araldo» che, come a Eleusi e in molte feste greche, annuncia la cerimonia. L’immagine dell’araldo che invita gli uomini a bere da un cratere per ottenere l’iniziazione perfetta si trova già nella traduzione greca dei Proverbi, 9: 1-6; da qui è poi passata in tutta la mistica ellenistica influenzata dall’ebraismo per divenire infine uno dei più diffusi luoghi comuni.
Citiamo per intero, secondo la versione dei Settanta, quel testo d’importanza capitale da cui deriva una lunga tradizione:
La Sapienza si è costruita una casa, ha drizzato sette colonne. Ha immolato le vittime e ha miscelato il vino nel cratere, ha imbandito la sua tavola. Ha inviato le sue ancelle affinché invitassero con un bando solenne (ad avvicinarsi) al cratere, dicendo: «Chi non ha intelligenza, si sieda a tavola accanto a me». A coloro che sono sprovvisti di intendimento, ella dice: «Venite, mangiate il mio pane, bevete il vino che ho miscelato per voi, abbandonate l’insipienza, al fine di regnare nell’eternità, ricercate l’intelligenza e raddrizzate la via del discernimento nella conoscenza».
(Proverbi, 9: 1-6)
L’ultimo versetto offre la chiave del passo. Vi notiamo un prototipo della predicazione del pentimento che è uno dei tratti comuni del proselitismo pagano e cristiano, e la predicazione che utilizza un’immagine tratta dai misteri del paganesimo invita alle pure ebbrezze della sapienza. Viene data forma, forse per la prima volta, al celebre topos in cui la mistica ellenistica opporrà alle pesanti ubriacature della non conoscenza la sobria ebrietas (νηφάλιος μέθη) della gnosi.
Non c’è bisogno qui di riprendere il tema dell’ebbrezza mistica negli scritti di Filone, degli gnostici e dei Padri. Basti distinguervi due grandi correnti, a seconda se il saggio attinga la conoscenza alla fontana di vita o al cratere.
Il secondo aspetto della metafora è quello che ci interessa più direttamente. Ne fanno uso Filone, la Pistis Sophia, il IV Libro di Esdra, lo gnostico Marco. In termini generali, che si tratti di acqua o di vino, la formula «bere la conoscenza» pare sia utilizzata come termine tecnico in tutte le ramificazioni della gnosi; anche Clemente d’Alessandria non manca di utilizzarla.
La costanza di quest’immagine: «bere la Sapienza, l’intelligenza, la conoscenza, il Logos, la Grazia», in una letteratura tanto vicina ai trattati ermetici, e la menzione del cratere in tanti testi imparentati suggerirebbero, per il nostro passo, un significato del tutto naturale, non già il difficile «immergiti» che vi leggiamo.
La cerimonia annunciata dall’araldo non consisterebbe in un bagno, in un battesimo, ma nell’assunzione del noûs: l’anima è invitata a bere l’intelletto, dono di Dio, per conseguire l’iniziazione perfetta.
La tradizione letteraria sembra imporre tale senso in maniera così evidente che ho d’acchito pensato di adottarlo, intendendo l’«immergiti» nell’accezione metaforica che si ritrova egualmente nell’«essere immersi nel vino, essere ebbri». È così che nel Simposio di Platone (176b) Aristofane designa i bevitori che «ne hanno bevuto fin sopra la testa» con lo stesso verbo (βαπτίζεσθαι). Non è rara l’espressione «essere immersi in un bagno di sonno». Delle anime, Stobeo dice che «sono immerse nella carne e nel sangue». Un tale uso metaforico potrebbe sembrare plausibile per il nostro passo.
Collegato così al tema dell’ebbrezza mistica, il nostro passo si potrebbe quindi comprendere in modo più chiaro: «Immergiti in questo cratere dell’intelletto», vale a dire «bevine fino all’ebbrezza, tu che sei in grado di sopportarne la forza».
Tutte queste considerazioni avrebbero determinato la mia scelta, e non avrei esitato ad arrendermi a questa esegesi, se non ci fosse stato, ad indurmi a intendere l’«immersione» nel senso di un vero e proprio «bagno, lavacro di purificazione», un testo notevole col quale abbiamo a lungo comparato il presente.
Si tratta di un brano della gnosi valentiniana citato da Clemente d’Alessandria: «Non è soltanto il bagno a liberare, ma anche la conoscenza, (sapere) chi eravamo, ciò che siamo diventati; dove eravamo, dove siamo stati posti; verso cosa ci affrettiamo, da cosa siamo riscattati; ciò che è la nascita, ciò che è la rinascita».
L’autore non nega che il «bagno» liberi, ma riconosce al rito tale virtù soltanto se vi si aggiunge la conoscenza della rigenerazione.
È quindi indubbio che per il valentiniano la gnosi sia legata a un rito battesimale in senso stretto: l’anima si immerge nella vasca non per bere, ma per lavarsi.
La peculiarità del nostro passo è quindi la mescolanza di due riti: da una parte, l’assunzione di una bevanda sacra attinta dal cratere, dall’altra, un bagno di purificazione e di iniziazione. L’indizio di tale mescolanza è l’accostamento stesso delle parole «immergiti» e «cratere».
Compito di questa mescolanza è di conferire «la conoscenza» che rende compiutamente iniziati o, per precisare ulteriormente, che divinizza l’uomo permettendogli di risalire senza difficoltà fino all’Uno e Unico, attraverso le sfere degli astri e i cori dei demoni.
Secondo la terminologia cattolica potremmo dire che il nostro testo fonde insieme i due sacramenti del Battesimo e dell’Eucarestia che nella Chiesa primitiva erano immediatamente connessi e si conferivano insieme con una singola cerimonia.
(Festugière, Ermetismo e mistica pagana)
***
L’anima è invitata a bere per acquisire il noûs. Fino a quando non beve un sorso dal cratere (perché è nel cratere che il suo noûs è nascosto), l’anima brancola nell’ignoranza di sé e del proprio «destino».
Invece di uno «spirito senz’anima» che bevendo la «conoscenza» viene iniziato alla vita psichica, come contempla lo scenario gnostico abituale, il quarto trattato del Corpus Hermeticum mette al contrario in scena un’anima senza noûs, un’anima dispersa nelle tenebre dell’ignoranza fino a quando non scopre il noûs che Dio le ha nascosto tra i doni «contingenti». Tra quei «doni» cioè che, a differenza delle sue passioni (delle «sintesi passive» che sono l’ordito «necessario», e per così dire «gratuito», della sua Ragnatela espressiva), l’anima deve invece attivamente «guadagnarsi» (o, come suol dirsi, «meritarsi») usando memoria e intelligenza.
Questi «doni», Dio li ha nascosti nel cratere, dice il testo ermetico. La Sapienza ha immolato le sue vittime e le ha miscelate nel vino del cratere, si legge nei Proverbi.
In entrambe le versioni, in fondo, di «proverbiale» non c’è che il cratere. Dalla coppa di Jamshîd al cratere del Corvo, dal sacro Graal al calice dell’eucarestia, è sempre l’antico «oggetto proverbiale» che ritorna da chissà quale remoto Passato, per venire, ridotto ormai a un’eco, appena a un segno astratto, a dirci qualcosa che nessuno di noi è più in condizione di comprendere. Ma che importa? non bisogna comprendere il cratere, ma fare semmai in modo d’esserne compreso, quale che sia il sapore di quel sorso di «sapienza», di quel goccio di divina contingenza che per caso tocca a ciascuno di noi.
È questo il punto: non bisogna comprendere il significato delle parole, per bersi una favola ed immergersi nelle astrazioni del Racconto Umano. I «logici» non prenderanno mai in considerazione la possibilità che siamo sì animali problematici, ma problematici perché erotici. Matematici poetici artistici chiacchieroni alle prese con le nostre perplessità di desiderio, con le nostre ricchezze immaginali e le nostre povertà reali. L’intelligenza, il noûs, la conoscenza, la comprensione del significato di ogni goccia d’acqua o di vino, viene dopo. E solo a chi è così eccitato da voler «bere» quello che gli «si dice» proverbialmente.
Ma sì, fatti un altro sorso… tanto il problema non l’ha risolto la Sapienza, come puoi risolverlo tu? La Sapienza non fa che immolare i sapienti, per poi miscelare nel vino della Parola le loro sapienze. Bevi, e lascia che sia il caso a decidere il dono che Dio ti ha nascosto nel cratere. Tutta la tua sapienza sarà un sorso nell’Oceano delle credenze a cui sarà battezzato domani un altro neofita. Immolati, ubriacati, sii perplesso! – ché, se vuole sapere di sé, la tua anima deve ricorrere alla sapienza della parola dell’Altro.
A quella di Apollo per es., come era consuetudine credere una volta. O a quella di Dio o della sua Sapienza Personificata, come invece credevano gnostici, ermetici ed ebrei. Ma chi sarà mai questa divina Sophia, se non quella Persona sovrapersonale a cui i «grammatici» alludono quando parlano del SI, impersonale soggetto dei «si dice»? Cambiano i tempi, cambiano le nomenclature, ma è sempre alla parola dell’Altro che ci si riferisce. Sempre si ha a che fare col «pensiero di uno spirito comune» (Hölderlin). Nessuna Ragnatela «espressiva» è isolata dal mondo. Nessuna sfugge alla necessità dell’intreccio, della reciprocità e dei rimandi della Rete «dialettica», del «si dialoga», del «ci si parla», del «ci si influenza».
Tutte le influenze, flussi e riflussi, confluiscono nel Cratere. Diventano così «proverbiali», per il semplice fatto che si mescolano nell’«oggetto» che la metafora predilige per farne il «continente» di tutti i Paesi immaginali che sono stati battezzati a un nome, a un simbolo, a una parola. Tutti vi sono mescolati e rimescolati in una «dialettica», di cui il Cratere è il proverbiale «contesto» in cui deve «immergersi» l’anima che vuole conoscere il proprio destino nel mondo, il proprio posto e il proprio ruolo nel Racconto.
Non è dunque un caso se Apollo è insieme l’antico depositario del Cratere e il dio che esorta a «conoscere» se stessi – a perseguire cioè la più astratta delle astrazioni, quella che tratta il Sé come «oggetto» di conoscenza. Solo che il racconto greco presenta un passaggio che manca nelle sceneggiate rituali del Medioriente. Il racconto greco dice che, al culmine della stagione secca, nel pieno dell’arsura estiva, Apollo fu afflitto dalla sete, e perciò affidò il Cratere al Corvo perché gli andasse a prendere dell’acqua alla fonte.
A quei tempi, dice il racconto, Corvo era «bianco» dello stesso «biancore» di Apollo, ingenuo quanto lui, ligio e fedele servo delle sue divine volontà. Ma adesso non è più così. Adesso il Corvo è nero. E il Cratere? Il Cratere, se mai fu riportato indietro, non fu ad Apollo, perché era pieno zeppo di chiacchiere e vuoto di quell’acqua «chiara ingenua e trasparente» che si attinge solo alla Fonte.
Cos’era successo al Corvo, è presto detto: s’era imbattuto per caso nella bella Coronide, la Vergine amata da Apollo, la sua Prediletta – ma, ahimé, l’aveva sorpresa proprio mentre la [crudele necessità della] Forza la stava violando.
Corvo s’era dunque imbattuto in uno spettacolo (c’è bisogno di dirlo?) libidinoso. Era inciampato nel problema della «fedeltà»: non solo dell’amato all’amante, e viceversa, ma della «fedeltà» reciproca che vincola il servo al padrone. Fin dove essere «fedeli»? fino a distruggere in nome della verità (te lo giuro, credimi, l’ho vista con i miei occhi!) l’«ingenuità» del padrone? perché non lasciarla nell’illusione del puro amore che mai incontra la «crudele necessità» che lo smentisce?
Su, dai, non perdere tempo, bevi, assaggia… è il sapore della Chiacchiera. C’è a chi tocca il dolce, e a chi l’amaro delle sue mitologie. A chi l’acqua «chiara fresca e dolce» della fonte senza malizie, a chi soltanto l’ultimo goccio rancido sul fondo del Cratere.
Dacché Apollo lo consegnò a Corvo, dice il racconto greco, il Cratere si è intorbidito di «parole» troppo servizievoli per non essere in malafede su quello che pretendevano di raccontare al loro padrone assetato.
Tu, dimmi piuttosto: perché ti sei fermato a guardare quello spettacolo, e non un altro? – avrebbe potuto domandare Apollo a Corvo. – Perché non hai tirato dritto per la tua strada, e ti sei fermato proprio là dove Coronide mi stava tradendo?
Corvo era troppo «logico», esageratamente «loico», per ammettere d’essersi sorpreso a scoprirsi «immerso» lui nell’erotismo dello spettacolo altrui casualmente incontrato. Il Corvo era troppo «loquace» (è l’accusa che gli fa Ovidio) per non nascondere dietro tutte quelle chiacchiere altro che la sua propria «malizia».
Coscienza greca. I Greci sapevano che nel Cratere è mescolato un po’ di vino sincero a infinite volte altrettante chiacchiere per sentito dire. I Greci sapevano che vi erano mescolate «loquacità» indotte dalla malafede del chiacchierone. E perciò si ponevano il problema di tenere distinte l’alêthé dalla doxa. Il sapore di sé dal sapere [astratto] di sé.
I Greci sapevano che le ragnatele s’intrigano a vicenda – che le menzogne camminano sulle gambe delle altrui verità, e viceversa.
Invece i loro tardi epigoni, gnostici ed ermetici in lingua greca, come se nulla fosse successo, continuavano a perseguire l’illusione che il Cratere fosse un’acquasantiera. Bastava che un sacerdote lo consacrasse, perché l’«ingenuità» del bevitore fosse tenuta al riparo da qualunque «tentazione», e la sua sete dissetata. Nelle loro mappe narrative del Corvo non c’è più traccia. Il suo posto è ormai sprofondato nell’inconscio del Racconto. Il Corvo è diventato Nero. E il Cratere è passato nelle mani di Bacco-Dioniso.