Nel 1584 si aprì in Inghilterra una clamorosa controversia intorno all’arte della memoria. Ad aprirla fu il De umbra rationis di Alexander Dicson, che è un’imitazione fedele delle Ombre di Bruno (di cui echeggia anche il titolo).
I dialoghi d’apertura costituiscono l’aspetto più notevole dell’opera, essendo lunghi quasi quanto l’arte di memoria bruniana a cui fanno da introduzione. Si rammenterà che Bruno introduce le Ombre con la conversazione fra Ermes, che presenta il libro sulle «ombre delle idee» come un metodo di scrittura interiore; Filotimo, che dà ad esso il benvenuto come a un segreto «egizio»; e Logifero, il pedante, il cui schiamazzo è paragonato a rumori animali, e che disprezza l’arte della memoria. Dicson modifica lievemente questi personaggi: uno degli interlocutori è lo stesso, e precisamente Mercurio (Ermes), gli altri sono Thamus, Theutates e Socrate.
Dicson ha in mente il passo del Fedro platonico, in cui Socrate racconta la storia dell’incontro fra il re egizio, Thamus, e il saggio Theuth, che aveva appena inventato l’arte della scrittura. Thamus dice che l’invenzione della scrittura non migliora la memoria, anzi la distruggerà, perché gli egiziani porranno fede in questi «caratteri esterni, che non sono parte di loro stessi», e questo scoraggerà l’uso della «loro propria memoria interiore».
Questo argomento è riprodotto con perfetta aderenza da Dicson nella conversazione fra il suo Thamus e il suo Theutates.
Il Mercurio del dialogo di Dicson è un personaggio distinto dal suo Theutates; e questo, sulle prime, appare strano, perché Mercurio (o Ermes) Trismegisto è identificato solitamente con Thot-Ermes, l’inventore della scrittura. Ma Dicson segue Bruno nel fare di Mercurio l’inventore, non dell’alfabeto, ma della «scrittura interna» dell’arte mnemonica. Egli simboleggia quindi il sapere interiore che – dice Thamus – gli egizi perdettero quando fu inventata la scrittura esterna con le lettere. Per Dicson, come per Bruno, Mercurio Trismegisto è il patrono della memoria ermetica o occultista.
Nel Fedro è Socrate che narra la storia del modo in cui Thamus reagì all’invenzione dell’alfabeto. Ma nel dialogo di Dicson, Socrate è divenuto il pedante ciarliero, il personaggio superficiale che non può capire l’antico sapere egizio racchiuso nell’arte di memoria ermetica, il maestro di un metodo superficiale, falsamente dialettico, mentre il suo Mercurio è il rappresentante di un più antico e migliore sapere, quello egizio, come è rappresentato nella scrittura interna della memoria occulta.
Una volta intesi origine e significato dei quattro interlocutori, il dialogo che Dicson pone loro in bocca diventa comprensibile, o almeno comprensibile entro i suoi propri termini di riferimento.
Mercurio dice di vedere dinanzi a sé un gran numero di bestie. Thamus dice di scorgere uomini, non bestie, ma Mercurio insiste che questi uomini sono bestie in forma umana, perché la vera forma dell’uomo è la mens e questi uomini, per aver trascurato la loro vera forma, sono caduti in forme bestiali e ricadono sotto le «pene della materia».
«Che cosa intendi con queste punizioni della materia?», domanda Thamus.
E Mercurio replica: «Si tratta del duodenario, espulso dal denario».
È questo un riferimento al tredicesimo trattato del Corpus Hermeticum, dove si descrive l’esperienza rigenerativa ermetica, in cui l’anima sfugge al dominio della materia (descritto come le dodici «pene» o vizi) e si riempie dei dieci poteri o virtù. L’esperienza è un’ascesa per le sfere nel corso della quale l’anima depone le influenze maligne o materiali, che la raggiungono dallo zodiaco (il duodenario), e ascende alle stelle nella loro pura forma, senza la contaminazione di influssi materiali, e lassù si riempie dei poteri o virtù (il «denario») e canta l’inno della rigenerazione.
Questo è ciò che intende Mercurio nel dialogo di Dicson quando dice che il «duodenario» dell’immersione nella materia e nelle forme ferine deve essere espulso per mezzo del «denario», quando l’anima si fa colma di divini poteri nell’esperienza rigenerante degli ermetici.
Thamus ora presenta come bestia Theutates, e Theutates protesta con forza: «Tu calunni, Thamus… l’uso delle lettere, della matematica: sono, queste, opere di bestie?». Al che Thamus replica, stretto alla lettera dell’aneddoto platonico, che, quando si trovava nella città chiamata Tebe egizia, gli uomini scrivevano sulle loro anime con la conoscenza, ma da allora Theutates ha fornito loro un cattivo aiuto per la memoria inventando la scrittura. Questo ha introdotto superficialità e dispute e reso gli uomini di poco migliori delle bestie.
Socrate interviene in difesa di Theutates, lodando la sua grande invenzione della scrittura e sfidando Thamus a provare che quando gli uomini conobbero le lettere essi curarono meno la memoria.
Thamus allora scaglia un’appassionata invettiva contro Socrate come sofista e bugiardo. Egli ha sottratto ogni criterio di verità, riducendo i saggi al livello di fanciulli maliziosi nel disputare; egli non sa nulla di Dio e non lo cerca nelle sue vestigia e nelle sue «ombre», nella fabrica mundi; non può scorgere nulla di ciò che è bello e buono, perché l’anima non può scorgere tali cose quando è imprigionata nelle passioni del corpo; incoraggia tali passioni, inculcando cupidigia e ira; è immerso nell’oscurità della materia, benché si vanti di conoscenza superiore: «perché, a meno che la mens sia presente e gli uomini siano stati immersi nel cratere della rigenerazione, invano le lodi li rendono gloriosi».
Qui si fa ancora riferimento alla rigenerazione ermetica, a quell’immersione nel vaso (crater) rigeneratore, che è il tema del quarto trattato del Corpus Hermeticum, Ermes a Tat sul Cratere o la Monade.
Socrate si sforza di difendersi e di contrattaccare, per esempio rimproverando a Thamus di non aver scritto nulla. In considerazione del tema del dialogo questa linea di difesa era un errore. Egli viene schiacciato dalla replica di Thamus, che egli ha scritto, nei «luoghi di memoria», e viene messo da parte come futile greco.
La presentazione dei greci come superficiali e poveri di profondo sapere aveva dietro di sé una lunga storia, nella forma, però, di un’antitesi troiano-greca, dove i troiani apparivano come il popolo più sapiente e più profondo. I dialoghi antigreci di Dicson conservano una reminiscenza di questa tradizione, ma gli egiziani vi sono i rappresentanti di una sapienza e di una virtù superiore.
Nella sua antitesi greco-egizia Dicson può aver subito l’influsso del sedicesimo trattato del Corpus Hermeticum, dove re Ammone raccomanda che il trattato non sia trascritto dall’egiziano al greco, vana e vuota lingua, perché una traduzione determinerebbe la perdita dell’«efficace virtù» della lingua egiziana.
Dal passo platonico che stava utilizzando doveva aver appreso che Ammone non era se non lo stesso dio Thamus. Questo potrebbe avergli suggerito di fare del Thamus del racconto platonico l’oppositore della futilità greca, tipizzata in Socrate. Se Dicson aveva visto il sedicesimo trattato del Corpus Hermeticum nella traduzione latina di Ludovico Lazzarelli, può anche aver visto il trattato di Lazzarelli, il Crater Hermetis, che descrive il passaggio, da maestro a discepolo, di un’esperienza rigeneratrice ermetica.
Quando Mercurio cita passi degli Hermetica, naturalmente si suppone che egli citi opere proprie. Egli parla come Mercurio Trismegisto, colui che insegna, attraverso gli scritti ermetici, l’antica sapienza egizia. E questo stesso Mercurio è colui che insegna la «scrittura interna» della memoria occulta.
Il discepolo di Bruno chiarisce abbondantemente quello che abbiamo già capito dalle opere stesse di Bruno sulla memoria, e cioè che l’arte della memoria, quale era da lui insegnata, era strettamente congiunta con un culto religioso ermetico.
Il tema dei singolarissimi dialoghi di Dicson è che la scrittura interna dell’arte di memoria rappresenta la profondità e l’intuito spirituale degli egizi, porta con sé esperienze rigenerative egizie come sono descritte da Trismegisto, ed è l’antitesi dei modi ferini, della frivolezza e superficialità greca di coloro che non hanno avuto l’esperienza ermetica, non hanno realizzato la «gnosi», non hanno scorto le vestigia del divino nella fabrica mundi, non hanno raggiunto l’unità con esso riflettendolo nel loro interno.
(Yates, L’arte della memoria)
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Spingere Platone al di là del platonismo stesso – questa è l’impresa. Fare onore a ciò che Platone scrive a proposito della scrittura, è possibile solo attraverso un’interpretazione coraggiosa del suo «testo», solo osando una lettura che tenga conto più di ciò che vi è non-scritto, o che vi è scritto solo tra le righe, che di quello che si può leggere alla luce del sole, e magari riscrivere con altre parole perfino più luminose.
Platone, non c’è dubbio, vede nella scrittura (ovviamente anche nella sua) non più d’un «artificio» per richiamare dei «segni» alla memoria, solo, diremmo oggi, un «aiutino» alla memoria, ma il prezzo che la stessa memoria, la nostra «memoria interiore» deve pagare per goderne, è troppo alto: questo «artificio» – dice Platone per bocca di Thamus – finirà per distruggere la memoria, ovvero la relazione propria e individuale che ciascuno da bambino scopre e per tutta la vita deve, bene o male, intrattenere col suo e con l’altrui Passato, se vuole esserci anche lui nel Mondo Umano. La «scrittura esteriore», e qui Platone è facile profeta, finirà per eclissare e farci dimenticare la nostra propria «scoperta» del Passato. I suoi «segni», ideogrammi geroglifici o lettere alfabetiche che siano, spazzeranno via, o quantomeno distorceranno, quegli altri «segni», quelli della «scrittura interiore», dell’«archiscrittura» come la chiama Derrida.
Non è vero che noi impariamo prima a leggere, e poi a scrivere. C’è infatti una scrittura «arcaica» che precede l’apprendimento della lettura. E ci sono segni «scritti» in ciascuno di noi prima ancora di accostarci a un qualunque abbiccì.
Se provi a sbrogliare la matassa del pensiero di Giordano Bruno, come d’altronde prova a fare Dicson, questo è quanto di forte e di duro vi scopri: una coraggiosa infedele fedeltà al Fedro di Platone, una curiosità ermeneutica istigata ad avventurarsi in un’ipotetica «sapienza» più antica di quella greca, e a cui Platone stesso più volte alluderebbe nei suoi dialoghi. Una «sapienza» eretica, pagana, occultistica, egizia, in una sola parola: ermetica, la quale – essendo più antica dell’invenzione della «scrittura esteriore» – non poteva incorrere nel nostro errore visuale. A questa «sapienza» non poteva infatti sfuggire che c’è una «scrittura interiore»: anzi, per essa, non c’era altro da «leggere» che questa «scrittura» arcaicamente scritta in ciascuno di noi senza saper né leggere né scrivere.
Ora, il nostro Dicson riconduce Giordano Bruno e la sua «arte della memoria» dinanzi al «testo» platonico, come al «luogo» in cui ogni «scrittore» dovrebbe meditare sulle origini della propria scrittura interiore – della propria scoperta di quella relazione col Passato (la memoria) che è il fondamento della sua stessa costituzione esistenziale. Non del suo essere al mondo, ma del suo essere nel Mondo Umano. Impigliato nella Ragnatela del dire e del ricordare umano.
Dici memoria, dici coscienza, dici scrittura o dici tempo («sintesi temporale»), sempre di quell’origine, e di quella «scoperta» (occulta, e nient’affatto occultistica) stai tentando di parlare. Stai cercando di dare una rappresentazione, stai cercando di scrivere nei segni della «scrittura esteriore», ciò che invece in quel «luogo» (che non ha luogo in nessuna rappresentazione) è «scritto» da una sapienza analfabetica.
Che scrivere dunque? Cosa rimane da scrivere allo scrittore? Come può egli scrivere una qualunque «cosa», se questa non ha più nessun legame con la arkhé analfabetica della sua memoria – più nessun sapore della sua propria scoperta di una relazione col Passato, più nessuno sguardo che affondi in quelle (occulte) profondità?
Là dove esistenzialmente si costituisce ciascun «io» di noi, là dove ciascuno incontra la sua propria differance, «fuori da ogni testo», per ignoranza deformando e stravolgendo lo spazio lasciato vuoto tra una riga e l’altra delle «sacre» Scritture della Tribù – là sono archiviati tutti i segni, dimenticati ma non per questo annientati, delle nostre arcaiche «passioni».
Se fu Mercurio a scrivercele sull’anima (come amano credere Giordano Bruno e i suoi «lettori»), o se fu la Macchina Simbolica della Tribù (come preferisce credere l’«umanesimo» moderno) – questo è il problema, allo stato attuale della questione. Il problema è – se fu un «dio» a incidere col suo calamo le lettere del nostro destino, o se invece, come già un greco come Sofocle suggeriva, non è l’Oracolo del Racconto Umano, Madonna Pizia, o la Vox Populi ad assegnarci un posto e a tracciare la curva della nostra vita, ancora prima che nasciamo.
In entrambi i casi, la lezione che se ne trae, la «lettura» che le accomuna, è che la «scrittura interna» non può che essere una scrittura patita. È in tutti i casi l’Altro, di suo pugno, che ce la scrive dentro. E sebbene l’«energia» con cui la inscrive nei nostri centri nervosi sia indubbiamente «divina», numinosa, fascinosa, non per questo si può essere sicuri che la sua sia alla lettera la mano di Mercurio o dell’Angelo Gabriele. E viceversa, anche se la filosofia, l’antropologia, la linguistica e la psicologia dei nostri giorni si vantano d’aver smascherato l’Umano che si nasconde dietro le sembianze divine – l’Es, il SI dei «si dice», la Chiacchiera – nemmeno si può tuttavia venire a capo della sua «identità», trattandosi di un impersonale o di un personale sovraindividuale, ovvero di una Persona umana finché si vuole, ma tale che in nessun tempo e in nessun luogo compare in carne e ossa.