Rella – Il corpo di Narciso e l’ora del risveglio

Narciso, raccontano, è morto per amore di sé. Ma la sua morte è preceduta da una scoperta sconvolgente in cui l’amore, che nei racconti tiene di solito il primo posto, ha un ruolo di pura spinta iniziale. Infatti Narciso muore per essersi conosciuto, vale a dire Moreau-Narcisodopo aver scoperto nella sua immagine la corporeità e la morte.
L’esperienza è paradossale e straordinaria, in quanto la scoperta del corpo – della sua mortalità – avviene attraverso la sua immagine riflessa, attraverso la sua ombra. La rivelazione del corpo, e della sua bellezza, è anche la rivelazione di ciò che non è corpo, ma che tuttavia è contenuto in esso e nella sua immagine: l’evanescenza dell’ombra, la precarietà, la fugacità, l’impermanenza; il non essere che si profila immediatamente lungo i bordi dell’essere.

Narciso, a questo punto, potrebbe essere salvato soltanto volgendo lo sguardo verso ciò che è immagine e figura del permanente e dell’eterno, verso l’anima, al di là dell’ombra, nella profondità del corpo. O forse volgendosi a un terzo personaggio, che spezzi il cerchio mortale, e che attragga a sé lo sguardo e il pensiero.
Eco, nel mito, ha assunto questo ruolo. Ha cercato di distrarre Narciso da se stesso e di trarlo a sé. Ma il tentativo è fallito. Eco è diventata essa stessa specchio, costretta, ormai senza corpo proprio, a moltiplicare all’infinito l’orrore dell’ombra, ripetendo senza pausa la voce mormorante di Narciso e del «folle amore», frammenti di parole e suoni che mai più potranno comporsi in una frase, in un discorso, in un compiuto linguaggio. […]

Nel corpo è nascosta una verità che l’orrore non riesce ad occultare, portandola anzi ad una sua più radicale manifestazione. Infatti a chi manca l’esperienza di un corpo sconosciuto e senza nome, il corpo proprio o altrui, manca una verità che non è possibile trovare altrove.
E così Flaubert può scrivere: «Chi non si è mai svegliato in un letto senza nome manca di qualche cosa; chi non ha mai visto sul suo cuscino una testa che non vedrà mai più, chi non è passato, uscendo di lì all’alba, sui ponti con la voglia di buttarsi di sotto in acqua, tanto la vita gli risaliva in rutti dal fondo del cuore alla testa…».

Ogni corpo, anche quello più prossimo e familiare, può diventare questo corpo oscuro, questa testa senza nome che posa sul cuscino vicino alla nostra. E talvolta capita di Tyrrell-amantitrovarsi immobili, silenziosi, con gli occhi spalancati nel buio, attenti a non destare il corpo che ci sta accanto, affondato nella palude del sonno, increspata dagli aliti ora morbidi e profondi, ora rapidi e aspri del sogno. Infatti nessuno sa cosa il corpo può portare con sé ritornando da quelle regioni, e quale sarà il suono della sua voce, e il dure imperio delle sue domande. […]

E quando i corpi, muovendosi, approssimandosi, intrecciandosi, mescolano il loro spazio, cercando di costruire attraverso i gesti uno spazio nuovo che li comprenda entrambi, dov’è allora il confine fra l’esaltazione del piacere e il dolore? Il confine tra l’amore e la crudeltà? Qual è il segreto, che sembra svelarsi improvviso fra le linee di un volto, che si decompongono e che trasformano, per un attimo, i tratti abituali in una diversa figura? E il segreto di quelle mani, che si tendono e che si afferrano, come per frenare una caduta possibile e inarrestabile?

Sono state attivate molte tecniche per offuscare l’enigma del corpo, per rendere opaca la sua evidenza, o per celarla dietro una luminosità abbagliante. Mishima, per esempio, parla degli esercizi che hanno trasformato il suo corpo in sole e acciaio, in luminosità e forza pura. L’esercizio fisico qui si confonde, fino ad essere indistinguibile, con la macerazione che i mistici hanno operato sul corpo, non per elevarlo, ma per abbassarlo e inabissarlo al di fuori del campo visivo e percettivo.

Sublimare il corpo fino alla solarità corrisponde all’annientamento del corpo che il mistico ha conosciuto nella sofferenza, che lo ha portato, attraverso l’estasi, all’oblio del corpo stesso. Qui il corpo tace, si dimentica, come avviene, si dice, nella salute. Il corpo sano tace, solo quello malato parla, come una inquietante macchina ciarliera, nell’eccesso febbrile, nella malattia nell’agone mortale. La salute perfetta è invece uno stato simile alla mistica marziale di Mishima, o a quella religiosa di Juan de la Crux, in cui il benessere è oblio del corpo, negazione di quella che Nietzsche, un malato appunto, aveva definito «la sua grande ragione».

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Eppure questa «ragione», che sembra manifestarsi soprattutto negli stati di disagio, è l’oggetto di una grande esplorazione, di una delle più grandi imprese che l’uomo può compiere. È l’esplorazione che il bambino comincia percorrendo lo spazio del suo corpo, scoprendo in esso felicità e terrore. È l’esperienza che l’uomo prosegue per tutta la vita, in quanto, come afferma Valery, «anche di fronte a se stesso, al suo corpo, al suo io, a ciò che lo definisce più direttamente, l’uomo si mette naturalmente nell’atteggiamento dell’esploratore, dell’analizzatore, di colui che modifica. Si fa sconosciuto. Si tasta. Agisce sul suo essere. Si vede solo in parte. Ha disuguale familiarità con le regioni della sua superficie. Fa delle scoperte».

Ma c’è un momento in cui, forse, il corpo si rivela più direttamente che nell’immagine riflessa. Un momento in cui la sua voce emerge, più nitida e udibile, che nel disagio della malattia, o anche nella tensione del piacere. Un momento in cui la sua memoria, la sua ragione, si dispiegano con una forza sconosciuta, che non è raggiunta nemmeno nelle più accanite esplorazioni, quando gli occhi e le mani percorrono il proprio corpo o il corpo Key-risveglioaltrui, con ansia, con urgenza e il bacio si trasforma in violenza, e la tensione conoscitiva si dissolve in una sorta di follia distruttiva.

È il momento del confronto fra lo spazio del corpo e lo spazio esterno, quando essi, corpo e spazio, non sono stati ancora dominati dalla forza semplificatrice dell’abitudine. Anche questo momento appartiene in primo luogo all’esperienza infantile, ma si manifesta anche nella vita adulta.
Pensiamo al momento del risveglio, come ci è stato descritto da Cartesio in Olympica, ma soprattutto da Proust, in alcune pagine della Ricerca del tempo perduto, che ci offrono uno degli aspetti più decisivi e importanti della sua opera, e, nelle sue conseguenze, della letteratura e del pensiero contemporanei.

C’è un attimo di straniamento assoluto che sfiora in terrore puro, quando ci si sveglia, talvolta, in un luogo sconosciuto. Forse esso è dovuto a una sorta di muta protesta delle cose straniere di fronte alla possibilità di un nostro futuro in cui esse non saranno. Ma questo attimo di straniamento si verifica anche quando ci svegliamo nella nostra stanza, in mezzo alle cose nostre. È un attimo che balena istantaneo, così rapido che spesso non è nemmeno percepito. Ma quella piccola, quasi inavvertibile frazione di tempo, che è tra l’attimo in cui usciamo dal sonno, in cui tutto ci è ancora estraneo e sconosciuto, e il momento in cui, svegli, le cose si ricompongono nelle immagini consuete, esiste, ed è una frattura ineliminabile, che ha nella nostra vita un’importanza che quasi mai siamo disposti a riconoscere.

Spesso il bambino sperimenta questo attimo come se esso avesse una durata infinita. Egli si sveglia la notte, o la mattina quando le cose sono ancora immerse nella luce ambigua, che penetra dalle fessure senza vincere il buio. Egli si alza, cammina, e si perde nella sua stessa stanza, urtando in angoli sconosciuti, in cose inconoscibili, cercando una via d’uscita da uno spazio che per lui si è trasformato in un terribile labirinto.

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Il grido di terrore, o il pianto senza speranza, alla fine richiamano le figure familiari, che lo aiutano a «rimettere le cose a posto», a farle uscire dall’ombra, a riconoscere nel sentiero lungo il quale si è smarrito, lo spazio che corre tra la parete della sua stanza e il suo letto o l’armadio, e che conduce ormai sicuramente alla porta, che si staglia luminosa fugando ogni oscurità. A riconoscere nelle cose, che hanno proteso verso di lui mani crudeli, i suoi giocattoli e a ritrovare in questo spazio il suo luogo.

L’adulto ha imparato a ridurre questa frazione di tempo, infinita per il bambino, in un istante quasi impercettibile. E Proust proprio in questo istante si è calato, in questo minuscolo segmento del tempo, per dilatarlo di nuovo alle dimensioni di un’esperienza possibile, riconoscendo in esso, e nell’inquietudine che lo accompagna, la memoria, la voce, lo sguardo, la ragione del corpo.

Nell’attimo del risveglio, scrive Proust, «il mio corpo… cercava… di ritrovare la posizione delle proprie membra per dedurre la direzione della parete, il posto dei mobili, per ricostruire e dare un nome alla dimora in cui esso era. La memoria di sé, la memoria delle proprie costole, dei ginocchi, delle spalle, gli metteva dinanzi successivamente molte delle camere dove aveva dormito».
Ma prima che il pensiero vigile intervenga a mettere ordine nelle cose, a fissare le pareti Bergman-boye i mobili al loro posto, il corpo fa fluttuare mura, pareti e oggetti, a formare altri luoghi, altri spazi, altre dimore, che credevamo per sempre perdute nell’oblio.

«Queste evocazioni vorticose non duravano mai più di qualche minuto». Talvolta non più di un istante, nel quale però è possibile riconoscere, accanto alla ragione vigile e alla sua voce, l’esistenza di un’altra ragione e di un’altra voce, in cui il corpo si manifesta, proponendo un suo ordine alle cose, un possibile ordine della nostra esperienza del mondo.

L’ordine che il corpo ci propone, nella sua strana e fluttuante costellazioni di immagini, è legato ad istanti di terrore puro in cui è celata, ma percepibile, una straordinaria felicità. Infatti, il passato che torna improvviso, a sconvolgere, al di fuori delle leggi della memoria volontaria, il senso e l’ordine abituale delle cose, organizzando un suo ordine e un suo spazio, non può non provocare un profondo e indicibile turbamento. Ma questo si trasforma in felicità, quando riconosciamo, o addirittura conosciamo come fosse veduto per la prima volta, ciò che ci è più prossimo e che l’abitudine aveva ingrigito e reso indistinto nell’ombra.

E dunque quando non riconosciamo, come Narciso, nella voce del corpo l’ombra della morte, ma la possibilità di far rinascere in noi sensazioni che erano state perdute, di cui non rimaneva nemmeno l’eco nella speranza e nella nostalgia. Anche il nostro atteggiamento nei confronti della morte muta di fronte all’esperienza della sopravvivenza di ciò che abbiamo vissuto, che vive ancora nelle cose che vengono, che devono ancora venire.

Walter Benjamin nel Passagen-Werk, l’opera decisiva e definitiva della sua vita, ha definito l’attimo del risveglio descritto da Proust come «l’ora della conoscibilità». In questa esperienza egli ha scorto un modello della «rivoluzione copernicana della memoria», che ci permette di conoscere e orientare diversamente il passato individuale e il passato collettivo. Infatti, il «sapere non ancora cosciente di ciò che è stato» ha la «struttura del risveglio».

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È chiaro che qui Benjamin persegue il tentativo di costruire quello che egli stesso definisce un «sapere paradossale», un «sapere sentito», che unisce al potere della ragione vigile la forza della sensazione e della memoria. Con questo sapere noi possiamo guardare alle cose con la stessa intensità con cui in sogno ci appaiono le immagini, ma al contempo riconoscerne la logica, il senso. La realtà ci appare con la forza di una epifania, ma senza il carattere effimero delle esperienze epifaniche.

Il tentativo è inedito nella storia del pensiero, in quanto non può essere assimilato a quelle filosofie che hanno opposto alla ragione vigile, al «giorno», la «notte» del sogno e delle immagini arcaiche e mitiche che nel sogno hanno luogo. In esse, dice Benjamin, ciò che ci è vicino viene sospinto lontano da noi, sprofondato in una sorta di preistoria individuale e collettiva, in una foresta primordiale da cui esso ci spia, senza che ci sia mai possibile afferrarlo. Il pensiero deve invece portarci, attraverso queste zone, «alla felicità del ricordo di ciò che ci è più vicino», felicità che è mescolanza di lontananza e prossimità in una costellazione che si illumina nell’«attimo della conoscibilità».

Il modello di questo «indicibile sapere» è «il risveglio», quale è stato descritto da Proust, che «dovrebbe essere la sintesi della tesi della coscienza onirica e dell’antitesi della coscienza desta». L’attimo del risveglio «è identico all’ora della conoscibilità, in cui le ABC-tempo-perdutocose presentano il loro vero, surrealistico, aspetto».
Questo tempo, sospeso tra sonno e veglia, ha la struttura stessa della «dialettica in stato d’arresto», di quel movimento del pensiero in cui è possibile arrestare la bufera del tempo progressivo, che rade tutto al suolo e che rende tutto uguale e uniforme, e a strappare ad esso le cose, che ci si presentano così piene di «tempo autentico», «piene fino a scoppiare»: frutti maturi, pronti a donarci un sapore mai prima provato.

Una Zweideutigkeit, una ambiguità, una doppiezza, caratterizzano, come dice lo stesso Benjamin, questa dialettica e l’attimo del risveglio di Proust che ne è il modello nucleare. Klee, riprendendo il linguaggio della mistica del mundus imaginalis, aveva parlato di un «mondo di mezzo», in cui vive il ricordo che non ci incatena al passato, ma libera il passato stesso, «senza vincoli», per il nostro futuro. E Kafka aveva pure parlato di «una striscia assolata di felicità» che attraversa la nostra esistenza, in cui si raccoglie il frutto della memoria e il frutto della speranza.

Ed è in questo «spazio di mezzo», che si presentano le figure di un «nuovo pensiero», che ha la forza dell’immagine e la lucidità del concetto. Qui corre il confine fra l’esistenza implacabile dell’angelo e il muto istinto dell’animale, che invano artisti e poeti del moderno hanno cercato di infrangere per definire l’uomo, che non è, come ha detto Valery, né angelo né bestia, e nemmeno la loro mescolanza. Il nuovo pensiero trasforma questo luogo di ibridazione nella dimora propria dell’uomo, e dunque il confine si presenta ora come «la penombra che abbiamo attraversato», il terrore e lo spaesamento attraverso cui siamo giunti, come dice Proust, a una nuova percezione del mondo, ad un nuovo nostro essere nel mondo.

Narciso e l’ombra: la bellezza del corpo e la fascinazione della morte, e la salvezza da questa corporeità assoluta nel ricorso all’«enigma dell’anima», il puro che abita incontaminato nell’impuro di un’oscura prigione. Oppure l’idolatria del corpo di chi si fissa sulla sua buia materialità, sul suo cupo e indistinto mormorio. Ma nessuno di questi ha compreso che anche il corpo si conosce e si manifesta attraverso figure. E in questo senso la mistica dell’anima e la mistica del corpo sono fra loro solidali, ed entrambe complici della metafisica dominante, che ha sacrificato il corpo come parte maledetta per una salvezza cercata nel pensiero puro e senza mescolanze, o nell’assoluto dell’estasi.

La luce di questa «salvezza», come l’oscurità che l’ha generata e prodotta, finisce proprio per nascondere il corpo, il suo paesaggio, lo spazio in cui sono possibili infinite esplorazioni, incessanti scoperte. In cui è possibile riconoscere e trasmettere in una forma le molteplici traiettorie che costituiscono il senso stesso dell’esistenza umana.

(Rella, Metamorfosi)