Colli – La ragnatela espressiva

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Come l’umore bavoso di un ragno nascosto, una vischiosità trasudante dalle espressioni sorgive, ecco l’indistinta rappresentazione in quanto nesso, la quale si affina poi come categoria, acquietata nella parola, divenuta filo e tela che si avvolgono ovunque, sino ad appendersi al principio supremo del mondo come astrazione, al vertice contrapposto all’immediatezza.

Con categorie non intendiamo quindi i generi dei predicati, né le divisioni dell’essere, né le funzioni logiche dei giudizi, ma semplicemente le rappresentazioni come nessi, in quanto espresse nel linguaggio. Le categorie non esprimono gli universali, bensì il loro connettivo. L’infedeltà espressiva della parola, che risulta, di fronte a una rappresentazione come oggetto, dall’inadeguatezza a restituirne la corposità o la plasticità, si attenua invece di fronte alla rappresentazione come nesso, dove è soltanto l’aggrovigliarsi dell’intreccio a venir semplificato.

Quando un animale scansa nella sua corsa un albero, girandovi attorno, oppure fugge dinanzi a un altro animale o lo insegue, quando un infante tende opportunamente la mano per afferrare qualcosa, nella conoscenza di questi individui si manifestano già le rappresentazioni, espresse dalla causalità e dall’unità, prima che il linguaggio le bimbo-fiorecostituisca come categorie.
La rappresentazione in quanto nesso, che si esprime verbalmente nella categoria, è infatti già presente talora in un momento prelinguistico, come nel costituirsi dell’oggetto integrato.

La causalità esprime il nesso produttivo dell’oggetto astratto, ossia è la categoria esprimente la rappresentazione come nesso che interviene a formare tale oggetto. Secondo un’interpretazione metafisica, la causalità contribuisce a esprimere indirettamente la radice di violenza che sta nell’immediato; dal punto di vista della rappresentazione, la causalità è un aspetto del necessario, cioè esprime un nesso che fa parte della relazione di necessità, nella quale viene sceverata entro la sfera astratta la violenza dell’immediato.

Se la somiglianza dei ricordi degli attimi si afferma come causa dell’oggetto integrato, se la somiglianza tra gli oggetti integrati è la causa dell’universale e se la somiglianza tra gli universali è la causa di altri universali, allora questo produrre, mediante un’estensione universale della somiglianza, è espresso dalla categoria della causalità, che lega in linea ascendente tutte le rappresentazioni astratte. D’altra parte l’unidirezionalità del nesso causale è un indizio di grande rilievo in favore dell’ipotesi del mondo come espressione.

Il ricordare quello che «era» attraverso quello che «è» adesso (e giustificare la realtà dell’«è» con la violenza dell’«era») significa pensare la rappresentazione attuale come effetto di quella passata. L’espressione che è presente nel ricordo postula come sua condizione – proprio perché la sua sostanza è di esprimere – un qualcosa che essa esprime e che appare come causa.

(Colli, Filosofia dell’espressione)

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Con la ragnatela c’è questo rischio: se ci metti le mani, non fai altro che aggrovigliarla ancora di più. La ragnatela è appiccicosa. I fili con cui il Ragno Nascosto la tesse, sono impregnati della sua bava, dei suoi umori, delle sue secrezioni. I fili sono vischiosi. Perciò chi in queste faccende complicate s’invischia, corre il serio pericoloso di fare la fine del moscerino.

Lasciamo per ora da parte la questione dell’identità del Ragno (Aracne, la Tessitrice ching, o Penelope). Possiamo limitarci a osservare che esso non fa altro che ripetere la tessitura di una trama del suo Volere, della sua Fame. E che, da quando in questa trama entra in gioco la parola, la ripetizione eleva le «espressioni sorgive» a un altro piano linguistico: a un piano, cioè, del linguaggio che è più distante dal «nascondiglio» del suo Ripetitore; a un piano a cui più non giunge che l’eco distorta delle «espressioni sorgive»; a un piano a cui l’immediatezza può essere solo ricordata, solo nostalgicamente evocata, ma non più direttamente «espressa». La parola infatti non è il vagito, lo strillo, il gemito del neonato, e neanche è più il balbettio, il μύ, il mythos che sono i fili della ragnatela più prossimi alla Sorgente. Perciò la parola corre un grave rischio, se e quando presume di ragnatela-noirpoter impunemente manipolare la Ragnatela.

Il Ragno, il Ripetente, non si vede. Si vedono i fili della sua Ripetizione, e si intravede una struttura dei suoi «umori». L’immediatezza li «esprime», li «sbava», li «secerne» dalla sua bocca: sono i suoi «raggi». L’immediatezza «irradia» i suoi umori. E questi umori sono vischiosi, appiccicosi, tali da potersi attaccare reciprocamente, combinare tra loro, annodare trasversalmente (dianoeticamente, direbbe Platone).
Questi altri fili, questi fili secondi non sono più «irradiazioni» dirette del linguaggio primitivo del Ragno. Escono pur essi, è vero, dalla sua bocca, ma parlano un’altra lingua: la lingua dei nessi. Non si tratta più di «flussi», ma di «riflussi» espressivi che connettono tra loro, richiamano e associano l’uno all’altro, due differenti «raggi» umorali: due diversi umori, due distinti fiumi confluiscono così nel «nesso» [sintetico di una prima memoria].

Ora, questo «connessione», questa «simpatia» tra due diverse corde «sorgive», la parola «raffinata» del nostro logos è ormai avvezza a chiamarla «categoria», almeno da Aristotele in poi.
Requiescat in pace. La parola mette a dormire la «connessione», la seppellisce sotto la logica più o meno peripatetica delle «categorie». La parola della rappresentazione riduce i «fili traversi» della Ragnatela a generi di predicati, a divisioni dell’essere, a funzioni dei giudizi, e via dicendo. I «nessi» invece sono più antichi della parola. Più arcaici del logos, e perfino del mythos. I «nessi» sono già all’opera nel «balbettio d’infante». Come dice Colli, sono gli «umori», non gli «universali» [di una ipotetica Sorbona innata] a connettersi: è il «sudore» stesso, lo ὑδωρ di Talete, che si diffonde da un filo all’altro, appiccicandoli tra loro.

La parola è infedele, la parola è in malafede (l’abbiamo già sentito dire), la parola finge di non sapere d’essere inadeguata a «dire» gli umori che la alimentano, d’essere dannata a maledire le sue radici prelinguistiche. E tuttavia, dice Colli, essa è pur sempre in grado di «alleggerire» la propria infedeltà, a condizione che sia disposta a scavare sotto la logica delle categorie, per dare voce e rappresentazione al nesso prelogico, al nesso umorale, ragno-ragnatela-disegnoall’associazione vaga e indistinta di fili espressivi che non hanno nessuna (platonica) «idea» in sé, se non il Volere dell’Uno, solo e unicamente la Fame del Ragno Nascosto.

Il grande paradosso è che bisogna nientemeno arrampicarsi fino al vertice dell’astrazione, sulle cime dei monti della Logica, o nell’abisso più profondo di un poetico delirio (qual è il Paradiso di Dante) per avvistare le parole che più somiglino al balbettio, o che, quantomeno, al balbettio restituiscano i diritti di primogenitura della parola.
Il paradosso è che la parola, più lontano si avventura, più finisce per rendersi cosciente della propria infedeltà al Volere del Ragno. Più in alto si arrampica nella scala delle astrazioni, e più ha bisogno di poggiare i piedi su qualcosa di duro che parola non è.

Quella di Colli è, forse, la sfida di un alpinista aggrappato a uno spuntone di roccia, da cui ha visto le categorie della sua propria logica (gli attrezzi grazie a cui si è arrampicato fin lassù) come escrescenze verbali, come tumefazioni vere e proprie del linguaggio cresciute sopra i nessi delle «espressioni sorgive».
È salito fin lassù per rivedere il suo proprio inizio linguistico. Quell’inizio che non lo vuole conoscente di una conoscenza diversa da quella dell’animale che insegue o è inseguito da un altro animale – che lo vuole già implicato nelle relazioni, già preso nella smania di congiunzioni e di nessi, già inumidito dalla bava del Ragno, già appiccicato a alpinista-disegnoquesto e a quell’anelito del suo Volere, già in simpatia e in antipatia col tale o talaltro filo della Ragnatela.

Se il mondo è espressione, allora la Ragnatela è lo spartito del mondo. Di lassù, da quello spuntone di roccia, l’alpinista crede di avvistare addirittura il segreto della «creazione» degli oggetti astratti. Ma poi, quando si tratta di venirlo a raccontare a noi, ecco… ci si mette di mezzo la parola. E la parola acquieta, la parola canta la ninnananna, per mettere a tacere la violenza delle sue origini. La violenza della Necessità che l’ha costretta a escogitarsi nel nesso, e a impregnarsi dei suoi umori e della sua passione connettiva, per sfuggire al «cannibalismo» dell’immediatezza e delle sue espressioni sorgive.

La parola è in malafede. Ma se per redimerla ci vogliono cento canti, bene: io cento canti canterò, disse Mastro Dante, finché lassù, al culmine dell’enfasi, la mia parola non li avrà restituiti, uno per uno, all’umore analfabetico dei miei nessi infantili.
Quei nessi mi «fabbricarono» i primi oggetti illusori. Non sapevo ancora parlare, ma già connettevo trasversalmente «serie espressive» tra loro distinte, o addirittura incompatibili.

Colli, non me ne voglia, ma è un po’ ingenuo quando si appella alla causalità e alla somiglianza dei ricordi: l’una e l’altra presuppongono già il tempo, già qualcosa come una «sintesi temporale» prima della parola – il che è, semmai, tutto da dimostrare, né più né meno com’è tutto da dimostrare che cosa c’era prima del tempo, prima della «creazione» [di oggetti astratti].
Forse che l’oggetto astratto per antonomasia non è proprio la parola del logos? E se le «espressioni sorgive» sono preverbali, e sono fatte solo degli umori del Ragno Nascosto, di quegli stessi umori con cui il Ragno produce anche i nessi tra di loro, perché correre anzitempo a mettersi al riparo del tempo che passa tra la causa e l’effetto, tra l’«era» e l’«è», tra l’allora e l’ora?

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L’alpinista, dal suo spuntone di roccia, non vede che un’immagine piatta della Ragnatela espressiva, quando si tratta piuttosto di una Sfera di ragnatele che s’irradiano in tutte le direzioni, intrecciandosi tra loro.
Non c’è a priori una ragnatela espressiva individuale. C’è la Rete delle espressioni del mondo intero, e le espressioni dei membri di una stessa Specie più facilmente tra loro s’intrecciano, si combinano e si scombinano, si agiscono e si patiscono reciprocamente in un comune linguaggio.

Faccio per dire: e se il Ragno Nascosto fosse la Langue? se fosse la Macchina Simbolica a detenere il segreto monopolio delle sintesi spaziali e temporali? se fosse la Coscienza della Tribù o della Polis a radunare le singole «espressioni sorgive» intorno ai suoi nodi, ai suoi punti nevralgici, essa a creare l’illusione del «tempo che passa», del «tempo irreversibile» così caro e indispensabile alla messinscena delle sue rappresentazioni?