Breton – Sono venuti a dirmi che Nadja è pazza

Sono venuti a dirmi, qualche mese fa, che Nadja è pazza. In seguito a certe stravaganze cui si era abbandonata, pare, nei corridoi del suo albergo, la si era dovuta internare nel manicomio di Vaucluse.
Lascio ad altri le troppo inutili spiegazioni intorno a questo fatto, nel quale non si rinuncerà a ravvisare lo sbocco fatale di tutto ciò che era accaduto in precedenza. I più Nadja-qui-est-elleavvertiti si affretteranno a ricercare in quanto ho riferito su Nadja, la parte che va imputata a idee già deliranti e forse attribuiranno al mio intervento nella sua vita, intervento praticamente favorevole allo svilupparsi di tali idee, un valore terribilmente determinante.

Quanto ai vari «se è così», «avete visto!», «lo dicevo, io!», «in quelle condizioni», per quel che riguarda tutti i cretini di infimo rango, non occorre dire che preferisco lasciarli perdere.
L’essenziale è che, per Nadja, non penso che possa esserci una differenza estrema tra l’interno di un manicomio e l’esterno. Una differenza però deve pur esserci, purtroppo! A farla può essere il rumore atroce di una chiave girata nella serratura, può essere la miserabile visuale su un giardino, l’arroganza con cui vi interrogano certe persone da cui non accettereste di farvi lucidare le scarpe, come ad esempio il professore Claude di Sainte-Anne, con quella fronte ignara e con quell’aria cocciuta che lo caratterizzano («Si sente odiato, vero?». «No, signore». «Mente, la settimana scorsa mi ha detto che si sente odiato». Oppure: «Lei sente delle voci, dica, sono voci come la mia?». «No, signore». «Bene, ha delle allucinazioni auditive», ecc.), può essere l’uniforme abietta né più né meno di tutte le altre uniformi, e lo sforzo necessario, perfino, per adattarsi a un tale ambiente poiché si tratta dopo tutto di un ambiente e, come tale, esige che in una certa misura ci si adatti ad esso.

Bisogna non essere mai penetrati in un manicomio per non sapere che là dentro i pazzi li fanno, esattamente come nei riformatori si fanno i banditi.
Esiste forse qualcosa di più odioso di questi apparati cosiddetti di conservazione sociale che, per una qualsiasi magagna, una prima mancanza esteriore al decoro o al senso comune, precipitano un soggetto qualunque in mezzo ad altri soggetti in una promiscuità che non può essergli che nefasta e soprattutto lo privano sistematicamente di relazioni con tutti coloro in cui il senso morale o pratico si trova a essere più saldo del suo?

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I giornali ci informano che all’ultimo congresso internazionale di psichiatria, sin dalla prima seduta, tutti i delegati presenti si sono trovati d’accordo nello stigmatizzare la persistente convinzione popolare secondo la quale ancora oggi uscire da un manicomio non è più facile di quanto non fosse un tempo uscire dai conventi; la convinzione che vi si trattengano a vita individui che non hanno mai avuto o che non hanno più ragione di trovarsi là; che la quiete pubblica non sia poi così in gioco, il più delle volte, quanto si vuol far credere. E ciascuno degli alienisti insorgeva, vantando uno o due casi di larghezza di vedute al proprio attivo, e segnalando, soprattutto, con grande enfasi, esempi di catastrofi occasionate dal rilascio inopportuno o prematuro di certi alienati. Poiché la loro responsabilità è sempre più o meno impegnata in tal tipo di avventura, lasciavano intendere che, nel dubbio, preferirebbero astenersi.

Ma formulata in questi termini, la questione mi sembra mal posta. L’atmosfera dei manicomi è tale che non può non esercitare l’influenza più debilitante e più perniciosa su coloro che vi sono rinchiusi, e proprio nella direzione in cui già li aveva condotti il Nadja-disegnoloro stato di debilitazione mentale.
Stato di cose ulteriormente complicato dal fatto che qualsiasi reclamo, qualsiasi protesta, qualsiasi gesto di intolleranza, non ha altro risultato che di farvi tacciare di scarsa socievolezza (poiché, per quanto ciò possa sembrare paradossale, in simili condizioni vi si chiede ancora di essere socievoli), non serve ad altro che alla formulazione di un nuovo sintomo contro di voi, ed è sufficiente non solo a impedire la vostra guarigione nel caso che in altre condizioni essa potesse verificarsi, ma anche a non consentire che il vostro stato si mantenga stazionario e anzi ad aggravarlo rapidamente.

Di qui le evoluzioni così tragicamente precipitose che si possono constatare nei manicomi e che, molto spesso, non devono essere prodotte da una sola malattia. C’è motivo di denunciare, in materia di malattie mentali, il processo di questo passaggio più o meno fatale dallo stato acuto a quello cronico.
Data l’infanzia straordinaria e tardiva in cui si trova la psichiatria, non si può certo, a qualsiasi livello, parlare di cura realizzata in tali condizioni. Del resto, penso che gli alienisti più coscienziosi non se ne preoccupino nemmeno.

Non si verificano più, nel senso comune del termine, internamenti arbitrari, ammettiamolo, visto che un atto anormale che si presti a una constatazione oggettiva, assumendo carattere delittuoso in quanto commesso sulla pubblica via, è all’origine di queste detenzioni mille volte più spaventose delle altre.
Ma secondo me, tutti gli internamenti sono arbitrari. Continuo a non vedere perché si debba privare un essere umano della libertà. Hanno rinchiuso Sade; hanno rinchiuso Nietzsche; hanno rinchiuso Baudelaire.

camicie-di-forza

Il procedimento che consiste nel venirvi a sorprendere di notte, mettervi la camicia di forza o in qualsiasi altro modo impadronirsi di voi, vale quello della polizia, che consiste nel mettervi in tasca una pistola.
So che se io fossi pazzo e internato da qualche giorno, approfitterei della prima remissione concessa dal mio delirio per assassinare con freddezza uno di coloro, di preferenza il medico, che mi capitassero sotto mano. Ne ricaverei almeno questo vantaggio, di prender posto, come gli agitati, in una cella isolata. Forse mi lascerebbero in pace.

Il disprezzo che ho in generale per la psichiatria, per le sue pompe e per le sue opere, è tale che non ho ancora osato informarmi di quello che può essere capitato a Nadja. Ho già detto perché io fossi pessimista circa la sua sorte, al tempo stesso che sulla sorte di alcuni esseri della sua specie.
Assistita in una casa di salute privata con tutti i riguardi dovuti ai ricchi, sottratta a qualsiasi promiscuità che le potesse nuocere, ma piuttosto riconfortata a tempo debito da presenze amiche, assecondata il più possibile nelle sue preferenze, ricondotta insensibilmente a un senso accettabile della realtà, il che avrebbe comportato Nadja-guantonecessariamente che non fosse in alcun caso trattata rudemente e che si prendesse di farla risalire con le proprie forze alla sorgente del suo turbamento, forse presumo troppo, eppure tutto mi fa credere che in questo caso se la sarebbe cavata.

Ma Nadja era povera, e tanto basta, nei tempi in cui viviamo, ad attirare una condanna su chi, come lei, si arrischia a non essere completamente in regola col codice imbecille del buonsenso e della morale.
Era anche sola: «Ci sono momenti in cui è terribile essere così soli. Non ho che voi come amici», diceva a mia moglie, al telefono, l’ultima volta. Era forte, infine – e insieme estremamente debole, come lo si può essere – di quell’idea che da sempre era stata in lei ma in cui io l’avevo confermata anche troppo, incoraggiandola anche troppo a darle la precedenza su ogni altra: l’idea, cioè, che la libertà acquisita quaggiù a prezzo di mille rinunce, e tra le più difficili, esige che si goda di essa senza restrizioni nel tempo in cui è data, senza considerazioni pragmatiche di sorta, e ciò perché l’emancipazione umana, concepita in definitiva nella sua forma rivoluzionaria più semplice, che è pur sempre l’emancipazione umana sotto tutti gli aspetti, sia chiaro, secondo i mezzi di cui ciascuno dispone, resta la sola causa degna d’essere servita.

Nadja era fatta per servirla, non fosse altro che col dimostrare come intorno a ogni individuo si fomenti un complotto particolarissimo che esiste soltanto nella sua immaginazione, e di cui sarebbe corretto, dal puro e semplice punto di vista conoscitivo, tener conto; e anche, ma molto più pericolosamente, per quel suo modo di passare la testa, poi un braccio, tra le sbarre, in tal modo forzate, della logica, cioè della più detestabile delle prigioni. È dall’inoltrarsi in quest’ultima direzione che forse avrei dovuto trattenerla, ma avrei dovuto innanzitutto rendermi conto del pericolo che correva.

Ora, io non ho mai sospettato che Nadja potesse perdere o avesse già perduto il favore di quell’istinto di conservazione – al quale ho già fatto riferimento – che induce, dopo tutto, i miei amici e me, per esempio, a comportarci bene – limitandoci a voltare la testa Man ray-pazziadall’altra parte – al passaggio di una bandiera, a non profittare di qualsiasi occasione per prendercela con chi ci pare, a non concederci il piacere ineguagliabile di commettere qualche bel «sacrilegio», ecc.

Anche se la cosa non fa onore al mio discernimento, confesso che non mi pareva esorbitante, tra le altre cose, il fatto che Nadja arrivasse a presentarmi un pezzo di carta firmato «Henri Becque» nel quale quest’ultimo le dava dei consigli. Se i consigli mi erano sfavorevoli, mi limitavo a rispondere: «Non è possibile che Becque, che era un uomo intelligente, ti abbia detto questo».
Ma capivo bene che, sentendosi attratta dal busto di Becque a Place Villiers, e provando simpatia per l’espressione del suo viso, tenesse e riuscisse ad avere il suo parere su taluni argomenti. Non c’è in questo, in ogni caso, niente di più irragionevole che nell’interrogare sul da farsi un santo o una qualunque divinità. Anche le lettere di Nadja, che leggevo con lo stesso occhio con cui leggo ogni sorta di testi poetici, non potevano presentare per me nulla di allarmante.

Non aggiungerò, a mia difesa, che poche parole. L’assenza ben nota d’una qualsiasi frontiera tra la follia e la non-follia non mi dispose ad accordare valore differente alle percezioni e alle idee che si attribuiscono all’una e all’altra. Vi sono sofismi infinitamente più significativi e di più grave portata di quanto non siano le verità meno contestabili: respingerli in quanto sofismi è al tempo stesso privo di grandezza e privo di interesse.
Se sofismi erano, almeno è grazie ad essi che ho potuto lanciare a me stesso, a colui che da estreme lontananze viene incontro a me stesso, il grido, sempre patetico, del «Chi vive?».

Chi vive? Sei tu, Nadja? È vero che l’aldilà, tutto l’aldilà è in questa vita? Non ti sento. Chi vive? Sono io solo? Sono io?

(Breton, Nadja)

***

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Léona Delcourt (nome completo Léona Camille Ghislaine Delcourt), morta nel manicomio di Bailleul il 15 gennaio 1941, all’età di 38 anni, è a noi nota sotto lo pseudonimo di Nadja («perché in russo è l’inizio della parola speranza, e perché non ne è che l’inizio») con cui André Breton intitolò il racconto del loro incontro.
Rimasta a 17 anni incinta d’un ufficiale inglese di stanza a Lille, si rifiutò di sposarlo per salvare le apparenze, e qualche tempo dopo accettò la proposta dei suoi genitori di andare a vivere a Parigi sotto la protezione di un vecchio industriale, lasciando a loro la piccola Marthe.

A Parigi Léona, per sbarcare il lunario, fece ogni sorta di mestiere: venditrice ambulante, impiegata, figurante e ballerina – finendo per frequentare ghetti e ambienti marginali della città, che la coinvolsero addirittura in una storia di spaccio di droga.
André Breton la incontrò per strada, il 4 ottobre 1926, e ne rimase così colpito da tornare per dieci giorni di seguito a incontrarla, avendo intuito in lei «un genio libero, qualcosa come uno di quegli spiriti dell’aria che certe pratiche di magia permettono momentaneamente di fissare, ma che sarebbe impossibile sottomettere».

L’intenso carteggio che seguì agli incontri di Léona e Breton, lo scambio fitto di scritti e disegni, lascia intendere che i due avevano progettato di scriverne ciascuno per conto Nadja-Leona-Delcourtproprio gli «effetti artistici» della loro relazione e, magari, se ci fossero riusciti, di saldarli poi in una sola «suonata» a quattro mani.
Le cose andarono diversamente. Léona si mostrò subito irritata delle cose che l’«amico» andava scrivendo di lei: «Come avete potuto scrivere delle così meschine deduzioni sul nostro conto, senza che vi sia mancato il respiro?… è la febbre non c’è dubbio, o il maltempo che vi rendono così ansioso e ingiusto!… oh, come ho potuto leggere questo resoconto… e intravedervi questo ritratto così snaturato di me stessa, senza rivoltarmi e neanche piangere?».

Breton, dal canto suo, era deluso dal taccuino che lei gli aveva dato da leggere. Quel «genio libero» non gli pareva poi così «geniale», come aveva creduto in un primo momento. Si confidò allora con sua moglie Simone, le chiese un consiglio: che fare con questa donna che lui non ama e non amerà mai? «È solo capace – le dice – di farmi ricredere a proposito di ciò che in lei io amo. E perciò è pericolosa».

Léona mal sopportò la separazione: «Fa freddo quando sono sola. Ho paura di me stessa… (gli scrive). André, ti amo. Mi chiedi perché? Perché mi hai preso gli occhi». E in un’altra lettera: «Amato mio, è così grande questo mio amore, questa unione delle nostre due anime, così profondo e freddo questo abisso in cui mi spingo senza mai raccattare niente di quell’aldilà… tu sei là, ma anche la morte è là, sì lei è là dietro di te, ma che importa? non posso smettere… era così bello il sentiero aperto da quel nostro bacio… e Satana fu così tentatore… ma poi mi tocca come al solito ridiscendere da sola la scala per cui mi sono arrampicata alla felicità… e tornarmene con l’anima vuota».

Alla fine di dicembre, Léona sembrava rassegnata alla fine della storia: scrive a Breton, ma solo per scusarsi d’aver interrotto l’invio dei disegni. Si trattava però solo di una tregua apparente. Presto l’amarezza tornò ad assalirla e, complici le sue disavventure quotidiane (era stata sfrattata dall’albergo), le diede l’ultima spinta per spiccare il «folle volo».

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«Siete lontano da me quanto il sole, e io non trovo pace che nel vostro calore – scrive ancora. – Conservo un vostro respiro, un gemito, quello che mai non muore, esso mi seguirà ovunque sarà il mio profumo. E poi ho il vostro sguardo freddo, dolce e duro, questa lama tagliente che mi difenderà… senza che voi lo sappiate dietro di me… a proteggermi, a incoraggiarmi, a insegnarmi… oh, mostro… cosa stai facendo della mia vita!».

Verso la fine di gennaio (manca circa un mese al suo internamento) il tono delle sue lettere è ancora più inquieto: «Tu non ci sei, ma ho il tuo libro [Clair de terre]… e quando lo stringo a me, evoco la potente immagine del nostro incontro… ti vedo camminare incontro a me su questo raggio di dolce grandezza appeso ai tuoi capelli… e questo sguardo di dio… ma in questo mattino così chiaro di speranze… non posso che piangere».

E ancora, sempre più inquietante, sempre più incalzante: «No, non potremo dimenticare mai questa nostra intesa, questa unione… non mi resta, ormai, che una sola idea, una sola immagine. Siete voi. Altro non so, altro non posso. Sempre il vostro nome mi trattiene come questo singhiozzo che mi stringe alla gola… e mi sento perduta se voi mi abbandonate… ovunque gole di lupo mi minacciano, i loro occhi mi divorano, e io non ce Nadja-coverla faccio ad allontanare da me questa visione… ditemi pure che m’inganno, ho la prova che è tutto vero, e tremo di spavento. Non sono che una colomba colpita dal piombo che porta in sé… forse tu sei davvero guarito di me. Dicono che questo mio amore era una malattia?… la vita è una bestia, dicevi tu allora, al tempo del nostro primo incontro. Ah, mio André, credimi – per me è tutto finito. Ma se solo avessi te, sarebbe una bella fine…».

Intanto, anche la sua situazione materiale andava peggiorando a tal punto da spingerla a chiedere a Breton di sistemarla a casa di uno dei suoi amici: «così voi potreste occuparvi di me». Ma Breton, come reagisce il grande «scrittore» ai suoi appelli disperati? Quando, per es., lei gli scrive: «tutto ho dimenticato, tranne te, André… il guaio è che tu mi facesti troppo bene all’inizio… avevo l’abitudine di crederti… non potevo prevedere che tutto si sarebbe oscurato così di colpo… ero diventata la tua schiava. Ti prego, stavolta, di fare una buona azione… vuoi uccidermi? So che puoi…» – come faceva Breton, lo stregone che l’aveva stregata, a rimanerle insensibile, anzi confermandosi nel già fermo convincimento che Léona, se non proprio pazza, era a dir poco «pericolosa»?

E quale poteva questo grande pericolo che correva Breton, quale se non quello (voglio dirlo con le sue parole) di smettere di «comportarsi bene»? quale paura lo trattenne dinanzi al «genio libero» e alla «follia» di Léona, se non che quella relazione, se non interrotta, l’avrebbe prima o poi costretto a fare il supremo «sacrilegio», lo stesso che Léona seppe invece fare alla propria «arte» allorché la «bollì» al fuoco dei suoi «deliri»?
Già, Breton – l’audace ideatore della scrittura automatica, l’interprete dei sogni altrui, era abbastanza, troppo, pieno di sé, e del suo ruolo di intellettuale, per lasciarsi andare – ovunque lo portasse – al sogno, per caso, «realizzato» per strada il 4 ottobre 1926.

Aveva realmente incontrato il «genio», ma lui, cosa ci vuoi fare?, era troppo surrealista per andargli dietro. E non c’era alternativa: la scintilla della «follia» era scoppiata tra di loro sin dal primo incontro. La «follia» nella loro relazione era la materia prima Nadja-autoritratto«necessaria». Le contingenze successive dovevano solo servire a separare il grano dalla zizzania – la realtà (che è reale solo quando è così folle da splendere per caso nel «quotidiano») dalla finzione (che è sempre surrealista, sempre in fuga dalla realtà, sempre a pazziare con una astratta realtà trascendente).

Léona era là, in carne e ossa, a offrirsi alla Necessità del loro amore. André, però, intanto era da tutt’altra parte – avendo scelto di impazzire di quest’altra pazzia di cui è ammalata la maggioranza di noi. La pazzia lenta, quotidiana, conforme alle leggi, al di qua del Confine che dà sull’ignoto.
Se c’era qualcosa che poteva «uccidere» Léona, era proprio quella surreale viltà dell’amante che si rifiuta all’amore, che Breton le oppose – c’è da scommettere – sul più bello. Quella viltà in nome del buonsenso che è cosa ben nota a tutti quelli che, come Breton, la realtà la fuggono e preferiscono scriverne.

Léona non divenne Nadja che per lo scrittore. Léona morì sola, denutrita e ammalata di cancro, nel manicomio di Bailleul il 15 gennaio 1941, all’età di 38 anni. Morì ripensando a quanto aveva tentato di dire realmente al cuore sordo di un «artista». Morì pentita di aver rimesso il destino della propria anima nelle mani sbagliate.

«Vi piace giocare alla crudeltà, ma vi fa male, ve l’assicuro, perché non sono un giocattolo… vorrei indietro il mio taccuino… per quanto bollito vi sembri quello che vi è scritto… siete come tutti gli altri, non fate onore a quel che create… in quanto a me, sono folle, o forte, non so. Viva il gioco, il vero, la gaiezza, la vita. Abbasso tutte le vostre smorfie, ora ho tutto chiaro… abbasso i demoralizzatori. La penso diversamente da voi e dalla vostra compagnia. Ho orrore del vostro gioco… non vi sono servita a granché, eppure vi ho dato il fondo di me stessa, il meglio… fino al punto di scordarmi di mia figlia».