Platone distingue l’ἐνθάδε [«qua»] e l’ἐκεῖ [«là»]; con maggiore prudenza noi diciamo: il «di qua» e il «di là». Facciamo bene a lasciare da parte parole come «cielo», «inferno», «limbo» e «purgatorio». Però anche questo non basta, per il semplice fatto che il «di là» dei Greci non solo appare diverso dal punto di vista del «contenuto», ma anche «è» in modo completamente differente, cioè nel modo d’essere così com’è esperito dai Greci. Fintanto che non riflettiamo su di esso in termini essenziali, anche l’ἐκεῖ, il «di là» dei Greci, ci rimane precluso.
Ci arrestiamo perplessi di fronte al cosiddetto mondo infero, all’«Ade» e alle «ombre» che «là» sono essenzialmente presenti.
Così, invece che porre anzitutto la semplice domanda: «Perché mai vi sono ombre?», ci si limita a inventare una sorta di «psicologia degli spettri». Forse che il carattere di «ombra» dell’essere nell’Ade è connesso all’essenza dell’ente e della sua svelatezza in modo greco?
Posto quindi che non rimaniamo attaccati al singolo caso e non domandiamo, da storici delle religioni, quali altre figure dimorino nell’«aldilà» greco in luogo dell’«angelo» e del «diavolo»; posto che siamo pronti a riconoscere che nell’aldilà esperito in modo greco non soltanto l’ente è diverso, ma anzitutto l’essere; posto che intuiamo qualcosa del fatto che già la distinzione greca fra il «di qua» e il «di là» rientra in un’altra esperienza dell’essere; posto tutto ciò, non possiamo ugualmente sottrarci alla domanda più pressante, che suona così: come può un pensatore come Platone sapere in generale qualcosa in merito al «di là»?
Tuttavia la nostra questione, all’apparenza così intelligente, giunge invero troppo tardi, giacché alla domanda su che cosa circonda nel «di là», che è ciò che permane, coloro che hanno compiuto il percorso mortifero attraverso il «di qua», Platone risponde con il μῦθος.
Alla fine del dialogo sulla πολιτεία egli fa narrare a Socrate una saga. Si è già spesso cercato di indovinare perché mai nei dialoghi platonici compaiano talvolta «miti», e il motivo è che il pensiero di Platone si accinge ad abbandonare il pensiero degli inizi a favore di ciò che in seguito fu detto «metafisico», ma che appunto tale pensiero metafisico ai suoi albori deve conservare ugualmente il ricordo del pensiero iniziale. Da ciò la saga.
Socrate narra il mito conclusivo nel colloquio con Glaucone. Egli inizia con le parole: «Ma non ti dirò certo una storia scelta per intrattenere Alcinoo (si intende il re dei Feaci), bensì un ἀπόλογον, un discorso a parte (una difesa) pronunciato da un uomo valoroso, Er, figlio di Armenio, originario della Panfilia».
Il gioco di parole [sul doppio senso di ἀπόλογον] non può essere reso nella traduzione. Tale gioco, che introduce il μῦθος, non ha nulla di giocoso, e mira piuttosto a indicare l’essenza del λόγος che qui dev’essere detto, cioè appunto del μῦθος. Questo λόγος si chiama ἀπόλογος.
Il termine ἀπόλογος è usato qui in un senso essenzialmente ambiguo, e precisamente in una costruzione linguistica di volta in volta differente: un ἀπόλογος «per» Alcinoo e un ἀπόλογος pronunciato da un uomo valoroso [Er]. Nel primo caso, ἀπόλογος, conformemente al significato fondamentale del verbo ἀπολέγειν, cioè «selezionare», significa scegliere: un racconto scelto per Alcinoo e per il suo piacere. Nel secondo caso, quello qui propriamente inteso, la medesima parola ἀπόλογος significa il «discorso a parte» con cui l’uomo valoroso separa ciò che dice da tutto ciò che è stato detto altrimenti, serbandolo così nella sua verità peculiare.
Le parole che seguono non sprecano ciò che egli vuol dire, non dissipano nulla nella leggerezza della mera conversazione e del parlare a ruota libera. Al contrario, si tratta di un parlare che salvaguarda, che si oppone all’invadenza della spiegazione corrente e che in termini rigorosi dovrebbe essere pronunciato e udito solo nella forma essenziale che gli è propria.
Con ciò appare già deciso che, nella sua qualità di mero accenno, il nostro riferimento al μῦθος rimane da un certo punto di vista problematico. Di «Er», il figlio di Armenio, viene detto che «aveva concluso la sua vita in battaglia». E quando, dieci giorni dopo, si raccolsero i morti già decomposti, egli venne sollevato ancora intatto e portato a casa dove, il dodicesimo giorno, lo si sarebbe dovuto inumare. Ma quando giaceva ormai sul rogo risorse alla vita e, da risorto, raccontò ciò che aveva visto «là» (nel «di là»).
Disse che la sua «anima», dopo essersene uscita fuori dal «di qua», si era messa in viaggio con molte (altre), e tutte assieme erano giunte successivamente [εἰς τόπον τινά δαιμόνιον] in un luogo in un certo senso (diciamo noi) «demonico»; là vi erano infatti, a terra, in basso, due aperture (χάσματα – χάος, «bocche spalancate») attigue l’una all’altra, così come in cielo, in alto, ve n’erano altre due (anch’esse spalancate come bocche) parimenti accostate e corrispondenti.
Dei δικασταί, cioè dei «giudici» esperti in fatto di «con-venienza» [δίκη], sedevano tra queste aperture spalancate in terra e in cielo. A lui, al guerriero valoroso, essi assegnarono il compito di «farsi messaggero presso gli uomini riguardo al “di là”». Per questo è necessario che egli «oda e veda tutto ciò che quel luogo contiene», luogo che viene detto δαιμόνιος [«demonico»]. Al guerriero viene ordinato di considerare con attenzione il viaggio nel «di là» e i luoghi ivi attraversati, per potere poi, in qualità di messaggero (ἄγγελος), darne notizia agli uomini nel «di qua».
L’essenza di quei luoghi, della loro coappartenenza e della loro sequenza nel «di là», cioè l’intera località del «di là», è un τόπος δαιμόνιος. Ora, dal momento che la λήθη è il luogo ultimo ed estremo di tale località «demonica», per comprendere il carattere di località onnideterminante della λήθη dobbiamo anzitutto chiarire che cosa qui e in generale significhi δαιμόνιον pensato in modo greco. Le rappresentazioni correnti, confuse e fumose, del «demonico» non aiutano affatto a chiarire l’essenza del δαιμόνιον. D’altra parte, ciò che qui viene detto deve rimanere entro i confini di un accenno, sicché non sarà nemmeno possibile evitare tutti i fraintendimenti.
Preliminarmente poniamo attenzione al fatto che entro la cerchia familiare degli enti che ci riguardano e ci sono noti, cioè all’interno di ciò che chiamiamo il solito, l’in-solito risplende ovunque. Comprendiamo così l’«in-solito» in modo affatto «letterale», abbandonando completamente le idee dell’enorme, del gigantesco, dell’eccessivo e dello strano.
È pur vero che nella sua non-essenza l’in-solito può rifugiarsi anche in simili forme, ma nella sua essenza esso è il non-vistoso, il semplice, il non-appariscente, che nondimeno risplende in ogni ente.
Se concepiamo l’insolito come quel semplice che risplende nel solito, ovvero come ciò che, non derivando dal solito, appare in anticipo rispetto ad ogni solito, abbracciandolo e compenetrandolo con il suo splendore, allora diviene evidente che la parola «in-solito» qui usata non possiede assolutamente nulla del significato corrente, in base al quale intendiamo sempre qualcosa di impressionante e di «sensazionale». L’in-solito che va pensato nel nostro contesto non reca traccia di ciò che generalmente viene detto «mostruoso».
Nondimeno, è soltanto in base al solito che possiamo notare ciò che chiamiamo l’«in-solito». Ciò che il cosiddetto in-solito è in sé, e quanto ammette unicamente il carattere dell’in-solito come conseguenza essenziale, riposa nel risplendere entro l’ente, nel manifestarsi, in termini greci nel δαίω [nel verbo da cui viene il δαιμόνιος].
Ciò che risplende nell’ente, e che tuttavia non è mai spiegabile e tanto producibile in base all’ente, è l’essere stesso. L’essere che risplende è τό δαῖον – δαῖμον. Coloro che, provenendo dall’essere, entrano nell’ente e sono quindi coloro che indicano nell’ente, sono i δαίοντες – δαίμονες. Così concepiti i «demoni» sono totalmente «non demonici», perlomeno secondo l’idea fumosa del «demonico». Eppure, questi δαίμονες non demonici sono tutt’altro che «innocui» e «accidentali». Non sono cioè un’aggiunta casuale all’ente che l’uomo, senza soffrirne nella sua essenza, potrebbe trascurare, mettere da parte, o considerare soltanto a sua discrezione e secondo il suo bisogno.
Proprio grazie a questa irriducibilità poco appariscente i δαίμονες sono in verità «più demonici» di quanto possano mai essere stati tutti gli altri «demoni». I δαίμονες sono più essenziali di ogni ente: essi non soltanto dispongono dell’orrendo e dello spaventoso, ma determinano ogni situazione emotiva essenziale, dal timore reverenziale e dalla gioia fino alla tristezza e al terrore.
Ovviamente, questi «stati d’animo» non vanno qui intesi in senso moderno e soggettivo quali «stati psicologici», bensì, in termini più iniziali, come quelle situazioni emotive in base a cui la voce silenziosa della parola dispone l’essenza dell’uomo nel suo riferimento all’essere.
Noi tardi discendenti, però, possiamo in generale esperire l’essenza dei δαίμονες – intesi come coloro che, risplendendo nel solito, si mostrano nell’ente, indicando così l’ente nell’essere – alla sola condizione di riferirci almeno intuitivamente all’essenza della ἀλήθεια, al fine di riconoscere in che senso, nella grecità, lo svelamento e lo schiudersi dominano completamente l’essenza dell’essere dischiusosi in modo iniziale.
(Heidegger, Parmenide)
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… in modo iniziale: cogliere l’essenza dell’essere, non come la pensa il nostro pensiero adulto, ma come se la svela a se stesso un pensiero (ancora) «ingenuo», e come se la racconta una lingua (quella infantile) che ancora non si è tradotta in un logos. È così che la ripensarono i Sapienti Poeti antichi e, da ultimo, il nostro Platone. La ripensarono nella lingua vaga, ambigua, perplessa del Mito.
Per pensare l’Inizio in modo iniziale, dobbiamo perciò sul loro esempio procedere non alla luce di una «logica» o di una «dialettica», ma al contrario svuotandoci di tutte le dottrine e conoscenze, dei catechismi e dei commi della Morale in cui man mano ci siamo sempre più «giuridicamente» impelagati, sempre più allontanandoci dall’«ingenuità» di allora, sempre più intrigandoci nelle faccende «di qua», sempre più bravi a «dire» e a fare «l’apologia» del nostro detto, sempre più sottili e permalosi nel distinguere il «vero» dal «falso», e il «torto» dalla «ragione», e solo a questo riducendo la nostra «voce», a fare la Cenerentola della Casa, al servizio d’una matrigna e delle sorellastre gelose.
Pensare la nostra voce spoglia di qualunque attributo, ignara di qualunque musica, ancora non iniziata a nessun canto, ancora senza il suo proprio incantesimo – pensarla ancora «di là» da venire a dire «qua» qualcosa, pensarla a navigare nel Caos senza una rotta… finché non s’imbatte in «un certo luogo demonico».
Dunque: senza attributi, né bene né male, né vero né falso, né essenziale né inessenziale – un navigare nelle onde del Lete senza una meta, senza uno scopo, senza un perché – senza niente che si conservi, o che somigli vagamente a un segno di memoria. Andare senza ieri né oggi né domani, fino a quando, passando per quel «luogo demonico», non s’accende in noi la prima illuminazione d’uno «spazio», dell’«in cui» ci si trova a errare.
Ecco: alla voce «ingenua», alla voce non ancora iniziata, basta questa prima distinzione «spaziale»: il «qua» e il «là», il vicino e il lontano, il prossimo e il remoto – ed ecco che ha in dote un primo «spartito» delle sue espressioni. Le basta cioè mettersi al servizio della topografia «visionaria» che il suo demone le indica – per scoprire quella «terra di mezzo», quella «radura» nel bosco, tra «là» e «qua», che è tutto il mondo che il demone le dà da «dire». Le dà da dire la sua stessa posizione, le dà da dire il suo orientamento, le dà da tracciare la sua via. Quella «via del demone», come espressamente la chiama Parmenide. Quel «posto demonico» a cui si risveglia dal sonno della morte il nostro valoroso Er.
Dalla morte «incontrata nell’inconscio» dopo dieci giorni – dopo un intervallo di assoluto oblio, dopo un lungo coma-travaglio – l’«ingenuità» già uccisa, già mortificata (e come Cenerentola ridotta a fare la sguattera della casa), risorge, si risveglia, si riproduce, si rimanda un’eco postuma da «là» a «qua», e così si schiude eroticamente, ossia a dire problematicamente, al poetico «dire» di Er, e s’addentra in quel «gioco di parole» che è proprio solo di quel certo «posto» che si trova «nel mezzo del cammin». Non a caso, Parmenide dice che il sentiero del demone è «polýphemos», lastricato cioè di molte «voci»: ogni voce una pietra sulla via, ogni «dire» un mattone nel muro del Detto. Augh!
Dal canto suo, Platone se ne esce con un «apologo», di cui dice che è l’apologia di Er, la strenua difesa che Er combatte per salvare dall’oblio «ciò che ha visto» all’altro mondo – e, insieme, anche la fantasiosa storiella che chiunque può raccontare per il trastullo di Alcinoo. Platone se ne esce con una parola ambigua – che può alludere tanto al resoconto di un «testimone oculare», di uno ciò che è stato «sul posto» e ha visto quel che racconta coi propri occhi, quanto alla finzione narrativa di chi, per es. come Shahrazâd, si prende mille e una notte per dire dei «sentiti dire».
Tante chiacchiere si fanno, nel «posto demonico». Si dicono tante fesserie, nella caverna di Polifemo. Non solo l’apologo, ma ogni parola è di sua natura ambigua. Nella parola «apologo» questa ambiguità è solo a bella posta messa in risalto da Platone.
Facci caso: tutto in quel «posto demonico» è doppio. Ci sono due bocche spalancate di sotto, e due di sopra. Oltre al «di là» e al «di qua», c’è anche il basso e l’alto, la terra e il cielo. Tutto è ambiguo – ovunque lo «spazio» è spartito, e come attraversato da due correnti, o illuminato da due colonne, è sempre «doppio», in qualunque direzione si volga lo sguardo… o l’orecchio.
Perché non ci sono solo gli occhi a guidare la voce. I «giudici» vogliono che Er oda e veda quel che poi ritornerà a raccontare agli uomini «di qua». E dunque: non solo due occhi per vedere, ma anche (e anzitutto) due orecchi per sentire quel che si dice nel posto a cui il «demone» l’ha introdotta, allo scadere o quasi del lungo intervallo dei dieci giorni di coma.
Il posto è pieno di voci – confuse, caotiche, insensate. Quando in via Polifemo n.13 a passare e spassare si trova una qualunque «ingenuità» pre-psicologica, un’ingenuità che nulla sa di essere e di non-essere, e nulla vuole di buono o di vero, e nulla ha di giusto o d’ingiusto – essa è l’ingenuità d’un infante, la sua iniziale ingenuità – allora il pasticcio, l’ambiguità, l’equivoco è… la pazziella (e nondimeno anche la pazzia) all’ordine del giorno.
La voce presa nell’ingorgo di voci della via demonica, mentre ne apprende a distinguere il «là» e il «qua», apprende anche di non essere più «là», di essere a distanza da ciò che ingenuamente era quando era «là». Proprio perché è capitata nel «posto dei demoni», non è più dov’era e qual era prima – adesso è in un altrove linguistico, ed è tenuta a usare un’altra lingua, una lingua a lei straniera, con la quale può prendersi tutta la libertà che vuole di pazziare.
Mentre si concede al gioco di parole e allo stupore della metamorfosi che essa stessa patisce nel «luogo demonico», nel luogo di transito dalla λήθη «di là» alla ἀλήθεια «di qua», dal balbettio al mythos, la voce viene catturata dai «demoni», ovvero dai Soprintendenti a «ogni situazione emotiva essenziale, dal timore reverenziale e dalla gioia fino alla tristezza e al terrore». La voce è invasata da «sentiti-dire» che essa non ha vissuto, non ancora – e dunque da «sentimenti» a cui essa ancora non ha una psiche da prestare come «soggetto».
Sono essi, quei «sentiti-dire», quei «patiti», ad agire su di essa. A iniziarla alla lingua della «terra di mezzo», alla lingua delle «contaminazioni» e delle «perversioni» che nondimeno costituiscono i soli «resti» essenziali del Passato, le sole tracce che possono indicare alla «voce silenziosa della parola», alla voce che sin qui ha taciuto, la via maestra (da non perdere) se vuole mantenersi «nel suo riferimento all’essere». Se vuole mantenere il suo legame «essenziale» col Passato.
I «demoni» sono le vibrazioni, gli echi, i resti di risonanze di antichi tenaci sentimenti, aneliti e desideri, terrori e tremori già vissuti, ma non terminati – che vagano «senza corpo», voci erranti nella sibillina Memoria del logos, sempre in bilico tra la trama della Coscienza e l’ordito Inconscio del Racconto della Tribù.
Non sono né i nostri angeli né i nostri diavoli, eppure – a volte – sanno essere più angelici e più diabolici di loro. Non sono attributi accidentali, episodici e casuali che ci si appiccicano all’anima mentre veniamo «di qua», ma gli attori, gli «agenti» necessari, i «moventi» essenziali della nostra «traversata» da là a qua. Essi ci illuminano, essi ci accendono di «furore» poetico – e sempre essi, gli stessi che ci «deprimono», che ci fanno «orrore» e ci gettano nel «panico».
I «demoni» sono gli Egemoni dei nostri «stati emotivi»…