Lo stesso obiettivo che s’inscrive nel monopolio della violenza istituzionale e della morte si realizza altrettanto bene nella sopravvivenza forzata, nel forcing della vita per la vita (reni artificiali, rianimazione intensiva dei bambini malformati, agonie prolungate a qualsiasi costo, trapianti d’organo, ecc.). Tutte procedure che equivalgono a disporre della morte e a imporre la vita – secondo quale finalità? Quella della scienza e della medicina? Ma allora è una paranoia scientifica senza alcun rapporto con qualsiasi obiettivo umano. Quella del profitto? No: la società vi riversa delle somme enormi.
Questa «terapeutica eroica» è caratterizzata da costi crescenti e «vantaggi decrescenti»: si fabbricano dei sopravvissuti improduttivi. Se la Previdenza sociale può ancora riassumersi come «riparatrice di forza-lavoro a vantaggio del capitale», qui questo argomento è senza alcun valore. Sicché il sistema si ritrova qui davanti alla stessa contraddizione che per la pena di morte: rilancio sulla preservazione della vita come valore perché questo sistema di valori è essenziale all’equilibrio strategico dell’insieme – ma questo rilancio squilibra economicamente l’insieme.
Che fare? S’impone una scelta economica in cui si vede profilarsi l’eutanasia come dottrina e pratica semi-ufficiale. Si decide di far sopravvivere il 30% di uremici gravi in Francia (36% negli USA!). L’eutanasia è già presente ovunque, e l’ambiguità di farne una rivendicazione umanistica (stessa cosa per la «libertà» di abortire) è clamorosa: essa s’inscrive nella logica a medio e lungo termine del sistema.
Tutto questo va nella direzione d’un allargamento del controllo sociale. Perché, dietro tutte le contraddizioni apparenti, l’obiettivo è certo: assicurare il controllo su tutta l’estensione della vita e della morte.
Dal birth-control al death-control, che si giustizino le persone o le si obblighino a sopravvivere – e la proibizione di morire è la forma caricaturale, ma logica, del progresso della tolleranza – l’essenziale è che la possibilità di decidere venga loro sottratta, che non siano mai libere della loro vita e della loro morte, ma che muoiano e vivano su vidimazione sociale. È già troppo che siano ancora lasciate al caso biologico della morte, perché è sempre una forma di libertà. Allo stesso modo che la morale ordina: «Non ucciderai», oggigiorno essa ordina: «Non morirai» – in ogni caso non importa come, e solo se la legge e la medicina lo permettono. E se la morte ti sarà concessa, sarà ancora dietro ordinazione.
In breve, la morte decente è abolita a vantaggio del death-control e dell’eutanasia: a parlare propriamente, non è nemmeno più una morte, è qualcosa d’altro, di completamente neutralizzato, che s’inscrive in alcune regole, in alcuni calcoli di equivalenza: rewriting-planning-programming-system. La morte deve poter essere assicurata come servizio sociale, integrata come la salute e la malattia sotto il segno del Piano e della Previdenza sociale.
È la storia di quei motels-suicide negli USA dove, contro una somma confortevole, ci si può procurare la morte nelle condizioni più gradevoli (come qualsiasi bene di consumo, servizio perfetto, tutto è previsto, perfino le entraîneuses che vi fanno riprendere il gusto della vita, poi si immette gentilmente, con ogni scrupolo professionale, il gas nella vostra camera, senza tormenti né colpo ferire). È un servizio che assicurano quei motels-suicide, giustamente retribuito (eventualmente rimborsato?). Perché la morte non dovrebbe diventare un servizio sociale dal momento che, come tutto il resto, è funzionalizzata, come consumo individuale e computabile nell’input-oupout sociale?
Perché il sistema consenta tali sacrifici economici nella resurrezione artificiale dei suoi rifiuti viventi, bisogna che esso abbia un interesse fondamentale a sottrarre alla gente persino il caso biologico della loro morte.
«Morite, noi faremo il resto» non è già più che un vecchio slogan pubblicitario dei funeral homes. Al giorno d’oggi, morire fa già parte del resto, e i Thanatos centers s’incaricheranno della morte come gli Eros centers s’incaricano del sesso. È la caccia alle streghe che continua.
Bisogna delegare la giustizia, la morte, la vendetta a un’istanza trascendente «oggettiva». Bisogna che la morte e l’espiazione siano strappate al circuito, monopolizzate al vertice e ridistribuite. Occorre una burocrazia della morte e della punizione, così come occorre un’astrazione degli scambi economici, politici e sessuali: altrimenti è tutta la struttura del controllo sociale che crolla.
Perciò qualsiasi morte o violenza che sfugga a questo monopolio di stato è sovversiva – prefigurazione dell’abolizione del potere. Il fascino esercitato dai grandi omicidi, banditi o fuorilegge deriva da questo, e raggiunge in effetti quello proprio delle opere d’arte: qualcosa della morte e della violenza è strappato al monopolio di stato per essere trasferito a una reciprocità selvaggia, diretta, simbolica, della morte – come qualcosa nella festa e nella dispensa è ripreso all’economico per essere trasferito a uno scambio inutile e sacrificale – come qualcosa, nel poema e nell’opera d’arte, è ripreso all’economia terroristica della significazione per essere trasferito al consumo dei sogni.
Soltanto questo è affascinante nel nostro sistema. È affascinante soltanto ciò che non si scambia in valore: sesso, morte, follia, violenza, e che per questa ragione è ovunque represso.
I milioni di morti della guerra si scambiano in valore, secondo un’equivalenza generale: «la morte per la patria» – sono convertibili in oro, se così si può dire, non sono perduti per tutti. L’omicidio, la morte, l’infrazione sono ovunque legalizzati, se non legali, purché siano convertibili in valore, secondo il medesimo processo che mediatizza il lavoro. Soltanto certe morti, certe pratiche sfuggono a questa convertibilità; soltanto esse sono sovversive, e molto spesso sono nell’ordine del fatto diverso.
Tra di esse, il suicidio, che ha assunto nelle nostre società un’estensione e una definizione differente, fino a diventare, nel quadro della reversibilità offensiva della morte, la forma stessa della sovversione. Si giustizia sempre meno nelle prigioni, ma vi si suicida sempre più: atto di sottrazione della morte istituzionale e di ritorsione contro il sistema che l’impone: con il suicidio, l’individuo giudica la società che l’ha condannato, secondo le proprie regole, invertendone le istanze – esso istituisce nuovamente una reversibilità là dove era completamente scomparsa e, allo stesso tempo, riprende il vantaggio.
Anche i suicidi fuori dalle prigioni diventano tutti politici in questo senso (il hara-kiri mediante il fuoco non ne è che la forma più spettacolare): fanno tutti una breccia infinitesimale, ma inespiabile, perché è una disfatta totale per un sistema non poter raggiungere la perfezione totale – basta che la minima cosa sfugga alla sua razionalità.
La proibizione del suicidio corrisponde all’avvento della legge del valore. Religiosa, morale o economica, è sempre la medesima legge che dice: nulla ha il diritto di sottrarre capitale e valore. Ora, ogni individuo è una particella di capitale (come ogni cristiano è un’anima che bisogna salvare), non ha quindi il diritto di distruggere se stesso. È contro questa ortodossia del valore che il suicidio si ribella, distruggendo la particella di capitale di cui dispone. È imperdonabile: si arriverà a impiccare il suicida per esserci riuscito. È quindi sintomatico che il suicidio aumenti in una società di saturazione della legge del valore, come sfida alla sua regola fondamentale.
Ma allo stesso tempo bisogna rivederne la definizione: se ogni suicidio diventa sovversivo in un sistema molto integrato, qualsiasi sovversione e resistenza a questo sistema è inversamente di natura suicida. Almeno quelle che lo colpiscono nelle sue parti vitali. Perché la maggior parte delle pratiche, anche quelle cosiddette «politiche» e «rivoluzionarie», si contentano di scambiare la loro sopravvivenza, cioè di monetizzare la loro morte con il sistema.
Rare sono quelle che fanno insorgere contro la produzione e lo scambio controllato della morte, con il valore di scambio della morte, non il suo valore d’uso (perché la morte è forse l’unica cosa che non ha un valore d’uso, non rimanda mai a un bisogno, ed è in questo che può ridiventare un’arma assoluta), ma il suo valore di rottura, di dissoluzione contagiosa e di negazione.
Suicida l’azione dei palestinesi o dei negri in rivolta che appiccano il fuoco al loro stesso quartiere, suicida la resistenza alla sicurezza in tutte le sue forme, suicidi i comportamenti nevrotici, i guasti multipli con i quali sfidiamo il sistema a integrarci, suicide tutte le pratiche politiche (manifestazioni, disordini, provocazioni, ecc.) il cui obiettivo è quello di far emergere la repressione, la «natura repressiva del sistema», non come conseguenza secondaria, ma come immediatezza della morte: è il gioco della morte che smaschera la funzione di morte del sistema stesso. L’ordine detiene la morte, ma non può giocarla – vince soltanto chi gioca la morte contro di esso.
Il sistema della proprietà è tanto assurdo che porta la gente a rivendicare la propria morte come un loro bene – l’appropriazione privata della morte. Il guasto mentale dell’appropriazione è tale che porta all’investimento «immobiliare» della morte, non soltanto nella preoccupazione di quella «terza residenza» che è diventato il loculo o la tomba (molti acquistano allo stesso tempo una casa in campagna e una concessione nel cimitero del villaggio), ma anche nella rivendicazione d’una «qualità della morte».
Una morte personalizzata, design-ata, confortevole, una morte «naturale»: diritto inalienabile che è diventato la forma perfetta del diritto borghese individuale. L’immortalità non è mai d’altronde che la proiezione nell’infinito di questo diritto naturale e personale – appropriazione della sopravvivenza e dell’eternità del soggetto – inalienabile nel suo corpo, inalienabile nella sua morte.
Quale disperazione nasconde questa rivendicazione assurda, analoga a quella che alimenta il nostro delirio di accumulazione di oggetti e di segni, al collezionismo maniacale del nostro universo privato: bisogna ancora che la morte ridiventi l’ultimo oggetto della collezione e, invece di attraversare questa inerzia come l’unico evento possibile, rientri essa stessa nel gioco dell’accumulazione e dell’amministrazione delle cose.
Contro questa distorsione che il soggetto imprime alla propria perdita, c’è liberazione esclusivamente nella morte violenta, inattesa, che restituisce la possibilità di sfuggire al controllo nevrotico del soggetto.
Ovunque emerge una resistenza ostinata, feroce, a questo principio di accumulazione, di produzione e di conservazione del soggetto, in cui esso può leggere la propria morte programmata. Ovunque si gioca la morte contro la morte. In un sistema che mira a vivere e a capitalizzare la vita, la pulsione di morte è l’unica alternativa. In un universo regolato minuziosamente, un universo della morte realizzata, l’unica tentazione è quella di normalizzare tutto mediante la distruzione.
(Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte)