Nietzsche – La coscienza dell’apparenza

In che modo meraviglioso e nuovo e insieme tremendo ed ironico mi sentivo posto con la mia conoscenza dinanzi all’esistenza tutta!
Ho scoperto per me che l’antica umanità e animalità, perfino tutto il tempo dei primordi e l’intero passato di ogni essere sensibile, continua dentro di me a meditare, a poetare, ad amare, ad odiare, a trarre le sue conclusioni, – mi sono destato di colpo in mezzo a Nietzsche-manifestoquesto sogno, ma solo per rendermi cosciente che appunto sto sognando e che devo continuare a sognare se non voglio perire: allo stesso modo in cui il sonnambulo deve continuare a sognare, per non piombare a terra.

Che cos’è ora, per me, «apparenza»!
In verità, non l’opposto di una qualche sostanza: che cos’altro posso asserire di una qualche sostanza, se non appunto i soli predicati della sua apparenza?
In verità, non una maschera inanimata che si potrebbe applicare ad una X sconosciuta e pur anche togliere!

Apparenza è per me ciò stesso che realizza e vive, che va tanto lontano nella sua autoderisione da farmi sentire che qui tutto è apparenza e fuoco fatuo e danza di spiriti e niente di più; che tra tutti questi sognatori anch’io, «l’uomo della conoscenza», danzo la mia danza; che l’uomo della conoscenza è un mezzo per tirare in lungo la danza terrena ed in questo senso fa parte dei soprintendenti alle feste dell’esistenza; e che la sublime consequenzialità e concomitanza di tutte le conoscenze è, forse, e sarà il mezzo più alto per mantenere l’universalità delle loro chimere di sogno e la generale comprensione reciproca di questi sognatori e con ciò appunto la durata del sogno.

(Nietzsche, La gaia scienza, 1: 54)

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Le vecchie opere di Nietzsche, è lui stesso che lo scrive due anni prima della Gaia Scienza, «parlano il linguaggio del fanatismo… si rivolgono a chi la pensa diversamente… in quel modo sanguinoso di ingiuriare e con quell’entusiasmo nella cattiveria che sono i contrassegni del fanatismo».
Quei vecchi «umori» hanno così finito per ammalarlo: «Il fanatismo rovina il carattere, il gusto e, da ultimo, anche la salute». Nietzsche è affogato. E Nietzsche può tornare a galla, lui e le Zach-Nietzschesue «vecchie» idee, Nietzsche può guarire solo grazie a una sommossa del suo spirito, tale che lo faccia ridere là dove un tempo soffrì. Solo grazie a una rivolta contro il miope «fanatismo» che l’affliggeva allora.

Sì, ho detto «miope», perché allora Nietzsche non vedeva quello che vede ora che è guarito dalla sua «cattiveria». Allora Nietzsche vedeva solo quelli che la pensavano diversamente da lui. Allora Nietzsche parlava e scriveva agli altri e soprattutto contro gli altri pretendenti alla conoscenza. No, allora Nietzsche non si sentiva, come si sente ora: posto con la propria conoscenza di fronte all’esistenza tutta. Non a rispondere della propria conoscenza dinanzi al tribunale degli altri soci conoscenti, bensì di fronte all’esistenza tutta a rispondere della propria obbedienza al delfico «conosci te stesso!».

Altro sguardo, altra visuale: vedersi all’opera come uno dei tanti «pellegrini» che passano e spassano per Delfi (e dintorni): solo una, appena una sola delle innumerevoli larve che vengono ad abbeverarsi alla Parola dell’Oracolo, senza nulla a pretendere.
No, non è guarita la pazzia. Si è solo elevata di un grado. E ora la novità è che non è più patetica con se stessa, adesso vuole e sa gioire di questo modo «meraviglioso e nuovo» di scrutare dentro le sue «vecchie» vanità, come a tentare di volersene redimere nell’unico modo serio possibile: ridendo. Un modo «tremendo e ironico» di rivedersi dentro la propria vecchia «cattiveria» e insieme di vedersi da fuori, di lontano, con sguardo nuovo, distaccato, assolto, al cospetto dell’Essere che pretendeva di conoscere, mentre a sua insaputa era preso nelle regole del suo Eterno Gioco. La pazzia, ora, così si esalta: ora che ha preso coscienza che tutta la sua filosofia è una gioiosa bolla di vanità, può concedersi, finalmente, alla sua Comica finale.

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Sentirsi, in sogno, invasato dal Vecchio, pieno di Passato, di nuovo là, sulla linea di confine tra l’umano e l’animale, scoprirsi a rimeditare il già meditato e a poetare il già poetato, e sentirsi perciò ancora «primordiale». Comica iniziale. È solo in sogno che la si può recitare come un atto unico in due tempi. Come quell’unico atto in cui a ciascuno è dato «scoprire per me», a ciascuno comicamente l’occasione di scoprire per sé e per i suoi (presunti «antagonisti» d’una volta) il Gioco in cui tutti insieme si è presi: vuolsi così colà… a Delfi e dintorni… e più non dimandar – ché l’Oracolo, qui, non ha nulla più da aggiungere. Né a Oriente né a Occidente. Nessun accenno d’Oltre.

E poi perché è all’Esistenza Tutta che spetta l’ultima Parola, indifferentemente rivolta a tutti i soci conoscenti. A tutti l’Oracolo dispensa lo stesso responso «tremendo» (tu non puoi sapere chi sei, se non rinunciando a essere quello che sei). E perché la Lingua, a chi s’accinge a parlarla, richiede questa «cattiveria» a priori, il pegno preliminare di un «fanatismo» che metta a tacere tutte le «voci analfabetiche» del neofita. E perché il Pensiero, a chi si cimenta la prima volta nell’impresa di cogitarlo, da lui esige che prima traduca in un «sanguinoso» acronimo gli echi del suo «impensato».

Obolo da pagare a Caronte, per essere sulla sua barca traghettati nel Paese dei Morti – per passare fanaticamente dall’Essere sull’altra sponda, popolata di ombre, di fantasmi e barca-mortedi chimere che esistono solo sulla parola dei Vivi, solo nelle loro arringhe simboliche. Le parole non sono – esistono! Durano per un po’, e poi da dove sono venute, là ritornano – nel Lete dell’Essere, a cui una «ingiuria» fatta ai suoi echi per un po’ le ha sottratte.
Ma a volte succede che, in questo «poco» di tempo astratto, le parole gravide di nuova conoscenza si trovano a travagliare in senso inverso alla tragedia delle «vecchie opere», e a navigare controcorrente per andare ad attingere la Domanda all’esistenza stessa, anziché imporre a essa la «fanatica» ricetta del proprio sapere. Succede allora che le parole, per la felice partorizione del «nuovo», si devono esporre alla donchisciottesca pretesa di rispondere della propria conoscenza direttamente alle domande dell’Essere. Roba da non credere! e a cui solo un Sancio Panza può dare un futuro.

Solo un Comico può infatti permettersi il lusso di avventurarsi ex novo fin nell’oltraggio supremo al «gesto» che l’avventurosa «cattiveria» del Vecchio che l’ha preceduto, gli ha lasciato da ripetere. Nietzsche ha dunque lasciato a Nietzsche un cogitandum, il Tragico ha lasciato in eredità al Gaio a venire una pazzia da scongiurare nell’unico modo possibile: spiritosamente. Gli ha lasciato da ripensare l’Apparenza. Da ritornare gioiosamente sullo stesso «posto» della «nascita della tragedia». Di fronte alla stessa Dulcinea che, allora, lo aveva respinto.

Ora, come allora, nell’uno come nell’altro Nietzsche, rimane lo stesso convincimento, e cioè che l’Apparenza è un’«arte» dell’Esistenza stessa, un «artificioso» anelito dell’«Uno originario» (scriveva allora). Ora però l’Apparenza non è più intesa come un velo o una veste dell’Uno, ma come il suo «modo d’essere», il suo «esistenziale» essere maschera.
Sicché, mentre nella Nascita della Tragedia l’Apparenza era patita come il limite «apollineo» alla conoscenza, o come l’«ingenuità» a cui il «dionisiaco» solo può sfuggire, ora invece, nella Gaia Scienza, nel ripasso comico della tragica lezione appresa allora, l’Apparenza è la Realtà stessa dell’Esistenza, è essa insomma la «Sostanza», il suo essere è esser Velo. E il suo inganno è il suo proprio auto-inganno.

Schwind-apparizione

Perciò sentirsi posto dove è l’Esistenza a «dimandar», essa a interrogare i suoi presunti «conoscenti» –, ritrovarsi di nuovo là, nello strappo irricucibile tra l’Essere e la Conoscenza – è per Nietzsche la volta buona per gioire di ciò che gli fu doloroso. Anziché affannarsi di nuovo come allora alla ricerca di un passaggio che attraverso l’Apparenza lo faccia ascendere alla «visione liberatrice», egli adesso si diverte a vedere, ma sì è solo un sogno, ma si diverte lo stesso a vedere il «posto» che la sua conoscenza occupa nel gioco universale che l’Esistenza gioca ad apparire.

È troppo spicciola la tarantella che ci insegnano a scuola. L’Apparenza inganna! – ci dicono. E ho detto tutto!, postilla sbrigativamente il libro di filosofia.
Si scorda però di dirci che è nell’Apparenza, chissà perché è nei fuochi fatui e nei miraggi più impensabili, che l’Esistenza ama venire a danzare. È nell’Apparenza, nella Seduzione e nell’Inganno dei sensi, che l’Essere si compiace di riprodursi. E noi, come moscerini attratti dalla sua passione per la luce, non possiamo umanizzarlo che nel solco della Sua Volontà di «apparire» e, chissà, forse di estinguersi, a una a una, in ciascuna delle sue inesauribili apparizioni. Chi lo può dire? chi degli echi di questo mistero conosce l’Acronimo indistruttibile?

Emergemmo al mondo della Parola – perché attratti dall’Apparenza. La Parola ci ha guidati più innanzi nell’Astrazione, facendoci penetrare più a fondo nell’inferno della nostrTalani-ombre-sul-muroa immaginazione, per farci di lì imboccare i sentieri dell’Inganno Umano: suvvia, come Orlando, ciascuno a rincorrere la sua Angelica Visione!
Perché è l’Essere che vuole apparire e che all’Apparente rimette le sorti del suo destino. È l’Essere che si avventura nell’Illusione del mondo. È l’Essere che si compiace della danza delle sue proprie ombre.

Ogni conoscenza è una sua ombra. Anche la conoscenza di chi riconosce in lui il Grande Prestigiatore, è soltanto un’ombra che danza, più o meno a tempo, con le altre.
Non attardarti perciò nel tragico fanatismo della tua propria conoscenza, ma guarda piuttosto l’esistenza tutta, e, astrazione delle astrazioni, contempla e medita la Danza di tutte le scienze, e perfino delle ignoranze, messe assieme – e allora forse capiterà pure a te, come a Nietzsche, di sentire nell’Apparenza, non il velo dietro cui si nasconde chissà quale «sostanza», ma l’«esser gioco» dell’Essere, il suo essere così bravo a giocare da prendere in giro, uno per uno, tutti i «pellegrini» della conoscenza.

Lo spirito «guarito» di questa Danza è quello di una cosmica presa in giro del Derviscio su se stesso, di un comico autoinganno, di una spiritosa giravolta che l’Essere compie sul proprio asse per deridere se stesso.
Perciò non smettere di danzare, aggrappati finché puoi all’orlo di una musica qualunque e balla – non importa se sei vecchio e goffo. Cosa c’è d’altronde di più comico al mondo della caricatura di una vecchia conoscenza a suo tempo «sofferta»?
Ovunque tu sia, in qualunque tempo, e da qualunque parte tu volga lo sguardo, non distrarti dalla Danza dell’Essere – non ripetere la «cattiveria» di allora. Lascia che il tuo spirito si rivolti alla «miopia» del tuo giovanile donchisciottismo. Lasciagli guardare il mondo con gli occhi di Sancio Panza, se vuoi sbirciare, almeno in sogno, anche tu un frammento di questa gaia Scienza. Gaia – perché finalmente ha preso coscienza del suo «posto» nel Gioco Universale dell’Apparenza.