La semplicità della vita campestre mi arricchì di un bene inestimabile, aprendo il mio cuore all’amicizia. Sino a quel momento non avevo conosciuto che sentimenti elevati, ma immaginari. L’abitudine di vivere insieme in una condizione di pace mi unì teneramente a mio cugino Bernard. In poco tempo ebbi per lui sentimenti più affettuosi di quelli nutriti per mio fratello, che non si sono mai più cancellati. Era un ragazzone assai magro e smilzo, mite d’animo quanto fragile di corpo, e non abusava della predilezione che avevano in casa per lui, come figlio del mio tutore. I nostri studi, i nostri svaghi, i nostri gusti erano gli stessi: eravamo soli, della stessa età, ciascuno di noi aveva bisogno di un compagno; separarci era, in qualche modo, annientarci.
Quantunque avessimo scarse occasioni di metterlo alla prova, il nostro reciproco attaccamento era fortissimo, e non solo non potevamo vivere un istante separati, ma non riuscivamo neppure a immaginare d’esserlo mai. Facili entrambi a cedere alle carezze, compiacenti quando non ci si voleva costringere, ci trovavamo sempre d’accordo su tutto. Se, grazie al favore di chi ci educava, egli aveva qualche ascendente su di me alla loro presenza, quando restavamo soli ne avevo io su di lui, il che ristabiliva l’equilibrio. Nello studio, gli suggerivo la lezione quando esitava; quando avevo finito il mio tema, lo aiutavo a fare il suo, e nei nostri svaghi il mio gusto più vivace gli serviva sempre da guida. I nostri caratteri si accordavano insomma così bene, e l’amicizia che ci univa era tanto sincera, che, nei cinque anni e più che fummo pressoché inseparabili, così a Bossey come a Ginevra, spesso ci azzuffammo, lo confesso, ma non ci fu mai bisogno di separarci, mai una lite durò più d’un quarto d’ora e neppure una sola volta ci accusammo l’un l’altro. Queste considerazioni saranno, se si vuole, puerili, ma ne scaturisce un esempio forse unico da quando esistono ragazzi.
Il modo in cui vivevo a Bossey mi conveniva talmente che solo il fatto di non durare più a lungo gli vietò di fissare definitivamente il mio carattere. I sentimenti teneri, affettuosi, pacifici, ne costituivano il fondo. Credo che mai un individuo della nostra specie ebbe per natura meno vanità di me. Mi elevavo impetuosamente a moti sublimi, ma ripiombavo subito nel mio languore. Essere amato da quanti m’avvicinavano era il mio più vivo desiderio. Ero dolce, mio cugino lo era; e coloro che ci educavano del pari. Durante due interi anni non fui né testimone né vittima d’un sentimento violento. Tutto nel mio cuore nutriva le disposizioni ricevute dalla natura. Non conoscevo nulla di più affascinante che veder tutti contenti di me e d’ogni cosa. Mi ricorderò sempre che al tempio, rispondendo al catechismo, nulla mi turbava di più, se m’accadeva di esitare, come scorgere sul viso della signorina Lambercier segni d’inquietudine e di pena. Questo solo già mi affliggeva, più della vergogna di sbagliare in pubblico, che pur mi addolorava estremamente; poiché, poco sensibile alle lodi, lo fui sempre molto alla vergogna, e posso qui dire che il timore dei rimproveri della signorina Lambercier mi angosciava meno del timore di rattristarla.
Nondimeno, ella non mancava all’occorrenza di severità, al pari di suo fratello; ma poiché questa severità, quasi sempre giusta, non era mai astiosa, me ne affliggevo, ma non mi ribellavo. Mi rincresceva più deludere che essere punito, e un segno di malcontento m’era più crudele di un castigo corporale. È per me imbarazzante spiegarmi meglio, ma necessario.
Come si cambierebbe metodo, con i giovani, se si cogliessero più lucidamente le lontane conseguenze di quello che senza discernimento e spesso indiscretamente è sistematicamente impiegato! La grande lezione che si può trarre da un esempio tanto comune quanto funesto mi convince a riferirlo.
Come nutriva per noi l’affetto di una madre, la signorina Lambercier ne esercitava anche l’autorità, che la spingeva talvolta fino al punto di infliggerci il castigo che si dà ai bambini, quando l’avevamo meritato. Per molto tempo si limitò alla minaccia, e questa minaccia di un castigo per me del tutto nuovo mi spaventava moltissimo; ma poi che l’ebbi subito, lo trovai meno terribile, in realtà, di quanto me l’ero aspettato, e ancora più strano è come quel castigo mi affezionasse anche più a colei che me l’aveva inflitto. Occorreva veramente tutta la schiettezza di questo affetto e tutta la mia naturale dolcezza, per impedirmi di cercare di meritarmi nuovamente un trattamento del genere: perché avevo trovato nel dolore, nella vergogna stessa, una mescolanza di sensualità che mi aveva lasciato più desiderio che timore di subirlo una volta ancora dalla stessa mano.
È pur vero che, insinuandosi senza dubbio in tutto questo qualche precoce istinto del sesso, il medesimo castigo non mi sarebbe affatto parso piacevole, se a infliggermelo fosse stato il fratello di lei. Ma, dato il suo umore, una tale sostituzione non era da temersi; e se mi astenevo dal meritare il castigo, era soltanto per la paura di scontentare la signorina Lambercier. Tale è in me, difatti, l’impero della benevolenza, anche di quella scaturita dai sensi, ch’essa impose sempre loro la legge del mio cuore.
La recidiva, che allontanavo senza temerla, arrivò senza mia colpa, vale a dire senza ch’io lo volessi, e ne approfittai, posso dire, in tranquillità di coscienza. Ma quella seconda volta fu anche l’ultima: la signorina Lambercier, essendosi indubbiamente resa conto, da qualche indizio, che il castigo non otteneva il suo scopo, dichiarò di rinunciarvi e che la affaticava troppo. Avevamo dormito fino a quel momento nella sua camera, e d’inverno, qualche volta, perfino nel suo stesso letto. Due giorni dopo ci sistemarono in un’altra stanza; e da quel momento godetti il privilegio, al quale avrei volentieri rinunciato, d’essere trattato da lei come un ragazzo maturo.
Chi crederebbe che quel castigo da bambino, ricevuto a otto anni per mano d’una donna di trenta, abbia potuto determinare i miei gusti, i miei desideri, le mie passioni, la mia personalità per il resto della vita, e precisamente nel senso opposto a quello che sarebbe dovuto derivarne naturalmente?
Nel momento stesso in cui i miei sensi si accesero, i miei desideri cedettero a un tale inganno che, limitati a quanto avevano provato, non s’indirizzarono alla ricerca d’altre motivazioni. Con un sangue che ardeva di sensualità pressoché dalla nascita, mi conservai puro da ogni sozzura fino all’età in cui si sviluppano i temperamenti più freddi e più tardivi. A lungo tormentato senza scoprirne il motivo, divoravo con occhi ardenti le belle donne; la mia immaginazione me le richiamava senza tregua, esclusivamente per farle agire a modo mio, e per farne altrettante signorine Lambercier.
Anche dopo l’età del celibato, quel gusto bizzarro, sempre persistente e spinto fino alla depravazione, fino alla follia, mi ha conservati onesti i costumi che sembrerebbe dovesse invece minacciare. Se mai educazione fu modesta e casta, tale fu certamente quella che ricevetti io. Le mie tre zie non solo erano persone d’esemplare onestà, d’una riservatezza da gran tempo perduta alle donne. Mio padre, personaggio gaudente ma con la galanteria dei tempi antichi, non tenne mai, con le donne che più gli piacevano, discorsi di cui una vergine avrebbe potuto arrossire, e mai quanto nella mia famiglia e alla mia presenza si è scrupolosamente osservato il rispetto dovuto ai fanciulli. Né trovai meno scrupolo su questi argomenti in casa del signor Lambercier, e un’ottima domestica fu messa alla porta per una parola un po’sboccata che le era sfuggita in presenza nostra.
Non soltanto non ebbi fino all’adolescenza alcuna idea precisa sull’unione dei sessi, ma quest’idea confusa non mi si presentò mai se non nella forma di un’immagine odiosa e di disgusto. Nutrivo per le donne pubbliche un orrore che mai si è cancellato, non potevo vedere un dissoluto senza sdegno, persino senza timore; e l’avversione che portavo alla dissolutezza giungeva a tal punto da quando, andando un giorno al Petit Sacconex per un viottolo incassato, vidi ai due lati certi anfratti nel terreno dove mi dissero che quella gente soleva accoppiarsi. Ciò che avevo visto degli accoppiamenti canini mi tornava sempre alla mente, pensando agli altri, e il solo ricordo bastava a nausearmi.
Questi pregiudizi dell’educazione, atti di per sé a ritardare le prime esplosioni di un temperamento infiammabile, furono aiutati, come ho detto, dalla diversione che subirono in me i primi stimoli della sensualità. Non sapendo immaginare che il tipo di sensazioni già provate, malgrado certe effervescenze di sangue assai moleste, i miei desideri sapevano indirizzarsi solo verso quel genere di voluttà che mi era nota, senza mai spingersi fino a quella che m’era stata resa odiosa e che era pure all’altra tanto vicina, senza che ne avessi il minimo sospetto. Nelle mie sciocche fantasie, nei miei erotici furori, negli atti stravaganti ai quali qualche volta essi mi spingevano, ricorrevo con l’immaginazione all’aiuto dell’altro sesso, senza mai pensare che si offrisse a un uso diverso da quello che ardevo di ricavarne.
Non solo, dunque, pur con un temperamento straordinariamente acceso, lascivo e precoce, superai la pubertà senza desiderare né conoscere piaceri dei sensi diversi da quelli cui la signorina Lambercier mi aveva, in tutta innocenza, iniziato; ma quando finalmente il passare degli anni fece di me un uomo, fu ancora quel che doveva perdermi a preservarmi. Il mio vecchio vizio di ragazzo, anziché svanire, si fuse a tal punto con l’altro che non riuscii mai a disgiungerlo dai desideri che accendevano i miei sensi, e questa follia, congiunta alla mia naturale timidezza, mi ha reso sempre assai poco intraprendente con le donne, non osando dir tutto né potendo osar tutto, poiché il genere di godimento di cui l’altro non era per me che il termine estremo, non può essere strappato da chi lo desideri, né indovinato da colei che può accordarlo.
Ho trascorso così la mia vita a bramare e a tacere accanto alle persone che più amavo. Non osando mai confessare il mio gusto, lo accarezzavo se non altro con rapporti che me ne conservavano l’idea. Essere alle ginocchia di un’amante imperiosa, obbedire ai suoi ordini, doverle chiedere perdono, erano per me gioie dolcissime, e più la mia vivace immaginazione m’infuocava il sangue, più assumevo l’aria di un amante intimidito. Si capisce che un modo simile di fare all’amore non porta a progressi rapidissimi, e non risulta troppo pericoloso per la virtù di quelle donne che ne costituiscono l’oggetto. Ho dunque posseduto pochissime donne, ma non ho mancato di godere molto, a modo mio, vale a dire con l’immaginazione. Ecco come i miei sensi, in accordo con la mia indole timida e con il mio spirito romanzesco, mi hanno conservato sentimenti puri e costumi onesti, malgrado quei gusti che forse, con una maggiore sfrontatezza, mi avrebbero tuffato nelle più brutali pratiche voluttuose.
Ho fatto il primo e più penoso passo nel labirinto oscuro e fangoso delle mie confessioni. Non costa di più a dirsi ciò che è delittuoso, ma quanto appare ridicolo e vergognoso. D’ora in poi mi sento sicuro di me: dopo quanto ho osato dire, nulla può più fermarmi. Si giudicherà quanto mi siano costate simili confessioni considerando che, durante tutta la mia vita, travolto talora accanto alle donne che amavo dai furori di una passione che mi toglieva la facoltà di vedere, di udire, fuori di me e preda d’un tremito convulso in tutto il corpo, mai ho potuto risolvermi a dichiarare la mia follia e ad implorare da loro nella più confidente intimità, il solo favore che mancasse agli altri. Questo mi accadde una sola volta nell’infanzia, con una fanciulla della mia età; e fu lei ad avanzarmi la prima proposta.
Risalendo così alle prime tracce del mio essere sensibile, trovo elementi che, pur apparendo talvolta incompatibili, non mancarono di fondersi per produrre con forza un effetto uniforme e semplice, mentre altri ne trovo che, identici in apparenza, produssero, col concorso di talune circostanze, combinazioni così differenti da non immaginare mai che esistesse alcun rapporto tra loro. Chi crederebbe, per esempio, che uno degli stimoli più vigorosi del mio animo sia scaturito dalla sorgente stessa dalla quale scorsero nel mio sangue lussuria e mollezza?
(Rousseau, Confessioni: 1)
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Il soggetto, dice Lacan, prende coscienza del suo desiderio nell’immagine dell’altro: Rousseau in quella della Maestra che lo punisce, e che così diventa la prima delle «signorine Lambercier» che da lì in poi verranno a popolare la sua immaginazione, la prima elettrizzante «principessa» (per dirlo alla maniera di Campana) in cui gli parve di cogliere allo specchio un’immagine anticipata delle sue future «virtù».
Non è successo che questo: una «ingiusta» Justine, castigandolo, gli ha fatto «vedere» il lato oscuro, folle, depravato, del suo desiderio. E di questo audace desiderio ha insieme messo a nudo l’incompatibilità col suo «oggetto». Perché è così: un ragazzo è sempre precoce (Rousseau a quell’epoca aveva otto anni, e Dante ne aveva solo nove quando incontrò Beatrice!), è sempre in anticipo sulla possibilità di congiungersi all’immagine del suo desiderio. Non è, né carnalmente né socialmente, in condizione di appagarlo. Se ne soffre, non è però una novità. Chissà da quanto tempo ne soffriva il piccolo Rousseau. La novità è che tra il suo desiderio e l’immagine in cui si specchia, adesso, a otto anni (nove per Dante) c’è di nuovo e di più che, ora, di mezzo c’è il «nome». Le altre immaginazioni, le precedenti e, chissà forse perfino più seducenti, «desiderate», erano state «anonime». E la differenza non è poca!
L’introduzione del «nome», e dunque del linguaggio simbolico, nella relazione del desiderio col suo «oggetto immaginale», ha l’effetto di far trascendere la relazione a un altro piano – non meno «speculare» di quello di Narciso, anzi decisamente più «speculativo».
Lo specchio dove appare la signorina Lambercier è sempre lo stesso di tutte le altre immaginazioni. La Lambercier non è che un’ennesima «signorina», già immaginata e ripetuta chissà quante volte! Ma mai nominata! Solo ora per la prima volta lo specchio può essere fatto «ruotare», solo ora che c’è il nome a fare da perno, da terzo «occhio» del desiderio, suo testimone e complice, lo specchio può essere girato e rigirato su se stesso, e così moltiplicare le «apparizioni» della Virtù (qui castigata, come altrove castigatrice).
Ora che la «signorina» ha addirittura un nome proprio, ora – dice il Racconto – che la «principessa» non è più una rana, a mezzanotte in punto spunta la luce di uno strano «sole»: la luce che differenzia e moltiplica le «signorine» della ripetizione. Puoi prendere «le misure» a tutte, adesso hai un «nome», la traccia di un’«assenza» da seguire. Ora puoi «scrivere» la storia del tuo desiderio. Puoi far calzare a tutte «la scarpa» del suo piede, tanto il filo della storia è (al sicuro?) nelle mani della Prima Nominata. Beatrice o Cenerentola, Lambercier o Justine che sia, è la prima, la sola a detenere la metrica delle tue «scritture» infantili e, a tua insaputa, adulte.
Proprio così! Solo dacché è «nominata», può essere «confessata». Sarà follia, sarà depravazione, sarà quel che sarà, vale la pena di «confessarla» la propria antica ripetizione «lussuriosa»: quell’«eccesso di luce», quel bagliore di mezzanotte che, per tornare a Lacan, non illumina che il miraggio di quella «cosa», introvabile finché anonima, e che una volta nominata diventa la traccia dell’avvenire a cui si è votato il tuo Passato. Quella traccia che, quando la rintraccerai, ti sarà manifesto che la «scrivesti» come il solo futuro possibile alla «Virtù» del tuo essere.