Lévi-Strauss – La morale dei miti

Se domandassimo oggi a molti genitori perché proibiscano di bere il vino ai bambini, tutti risponderebbero certamente con le stesse argomentazioni: il vino, direbbero, è una bevanda troppo forte, non la si può somministrare impunemente a organismi fragili che tollerano soltanto alimenti delicati come loro.
Ma questa spiegazione è piuttosto recente, poiché, dall’antichità fino al Rinascimento e oltre, è stato proibito il vino ai fanciulli per motivi esattamente opposti, cioè invocando Levi-Parker-bimbo-addormentatonon tanto il concetto che un organismo giovane è più vulnerabile di fronte a una aggressione esterna, quanto l’idea della virulenza con cui i fenomeni vitali si manifestano in quello stesso organismo: sarebbe infatti pericoloso congiungere varie forze esplosive, ognuna delle quali andrebbe invece temperata. Anziché considerare il vino troppo forte per il fanciullo, si considerava il fanciullo troppo forte per il vino, o perlomeno altrettanto forte.

C’è un passo dell’imitazione francese del De civitate puerorum di Erasmo, che formula in maniera molto precisa questa teoria: «La bevanda del fanciullo deve consistere in vino talmente diluito da non essere altro che acqua, perché, come dice in proposito Platone, “bisogna guardarsi bene dal mettere fuoco su fuoco”; questo avverrebbe se il fanciullo (che è tutto calore e fuoco) bevesse il vino puro o poco annacquato, la birra o la forte cervogia. Inoltre ecco quale punizione riceve il fanciullo che beve vino poco annacquato o la birra troppo forte: i denti diventano gialli o neri o si coprono di ruggine, le guance si fanno cadenti, gli occhi cisposi, e l’intelletto si ottunde e si inebetisce».

Il precetto di Platone qui richiamato proviene dalle Leggi (2: 666a). Esso ha certamente ispirato anche Plutarco, che se ne serve per giustificare la propensione dei vecchi per il vino puro: «I loro umori, divenuti deboli e pigri, vanno appositamente stimolati e frustati» (Dei Ragionamenti di mensa, questione settima: «Perché i vecchi preferiscono il vino puro?»).
Di conseguenza, noi attribuiamo ai bambini una [debolezza di] costituzione identica a quella che gli antichi attribuivano ai vecchi, ma proibiamo il vino ai primi per la medesima ragione che lo faceva un tempo prescrivere ai secondi.

Per quel che riguarda l’educazione morale dei fanciulli, continuiamo però a rispettare il modello tradizionale: interveniamo di solito come per disciplinare un disordine e una violenza di origine interna, mentre in materia d’igiene, ci dimostriamo preoccupati di proteggere dalle aggressioni esterne una debolezza che è anch’essa di origine interna e un equilibrio che è ancora fragile.

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Non è possibile immaginare niente che contrasti di più con la filosofia dell’educazione degli Indiani delle Pianure nordamericane, nei cui miti le discepole umane del popolo celeste imparano contemporaneamente a maneggiare gli utensili domestici, a usare le ricette di cucina e a dominare le funzioni fisiologiche: per dimostrare le proprie virtù femminili, esse sono infatti costrette a dimostrarsi esperte nelle faccende di casa, dotate di mestruazioni regolari e rispettose della scadenza quando viene il momento di partorire.

Ora, queste regole per una buona educazione, che deve essere intesa sia in senso fisico sia in senso morale, ebbero come primi depositari in Sudamerica dei ragazzi e in Nordamerica delle fanciulle, e ciò si verificò quando essi erano prossimi alla pubertà. Si sarebbe tentati di dire che, nella storia della civiltà, il prototipo delle «ragazzine modello» sia stato originariamente concepito a immagine delle signorine indisposte.

Quale condizione, infatti, manifesta meglio quel turbinio interno, quelle forze che sarebbero irrefrenabili se non intervenissero le varie misure adottate dalla nostra stessa società, nel passato o ancor oggi, per giustificare le rigide regole dell’educazione?
Limitiamoci qui all’America, dal momento che l’abbiamo scelta come laboratorio, ma bambina-nativa-americana-paintnon dimentichiamo che anche l’Africa e l’Oceania fornirebbero materia di osservazioni del tutto simili alle nostre.

Al sopraggiungere delle prime mestruazioni, la giovane indigena del Chaco e delle regioni vicine veniva appesa e legata a un’amaca per un periodo di tempo che variava da tre giorni per i Lengua a due mesi per i Chiriguano. Si conoscono misure di isolamento altrettanto severe fra i Guaranì meridionali, nel bacino amazzonico e nella Guayana. In tutte le regioni occidentali e nord-occidentali dell’America settentrionale, una ragazza mestruata per la prima volta non poteva né toccare il suolo con i piedi nudi né guardare il sole. Per impedire la prima eventualità, i Carrier esigevano che fosse portata in braccio. In altri territori, si scongiurava la seconda eventualità ricoprendo la testa della ragazza con un cappuccio, con una stuoia o con un paniere, oppure cingendole la fronte con una visiera di piume.

Gli Algonchini della regione dei Grandi Laghi si contentavano che tenesse gli occhi bassi. Qualsiasi contatto delle mani col corpo o con gli utensili domestici sarebbe stato fatale. Perciò, in varie tribù Athapaskan, essa portava delle specie di guanti, si serviva di un gratta-testa o di un gratta-schiena, talvolta anche di un gratta-occhi, e adoperava una canna per bere e un osso appuntito per infilzare il cibo (a meno che non fosse imboccata da una donna preposta a questa funzione). Fra i Lilloet, queste limitazioni restavano in vigore almeno per un anno, e talvolta per quattro anni.

Si possono ritrovare certi caratteri comuni anche nelle proibizioni alimentari imposte alla ragazza, sebbene esse fossero estremamente vaie. Nelle regioni occidentali e nord-occidentali dell’America settentrionale, dove questi divieti erano tipici, essa non poteva bere liquidi caldi o freddi, ma solo tiepidi. Tiepidi dovevano essere anche gli alimenti solidi, che non potevano essere crudi… o al sangue… o freschi… e nemmeno bolliti. I Klikitat escludevano gli alimenti rancidi. E, dunque, cosa mangiava la reclusa? […]

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Tutte le proibizioni che abbiamo inventariato sono omologhe. La ragazza pubere non può bere liquidi caldi o freddi per la stessa ragione per cui non può consumare cibi freschi o vicino a corrompersi. Essa è preda di una violenta agitazione interna, che aumenterebbe ancor più se il suo organismo incorporasse alimenti solidi o liquidi che, in un senso o nell’altro, fossero fortemente marcati. Nutrendola con cibi conservati, preparati dagli indigeni o [successivamente] prodotti industrialmente, oppure con alimenti analoghi, si cerca di somministrare loro sostanze inerti e in un certo senso stabilizzate.

Una cucina che rispetti la natura, con l’intento di conservarne i poteri o di sospenderne l’attività distruttrice, rischia sempre di lasciare il cibo al di là del punto di equilibrio che la cultura auspica per mantenersi in buono stato, o viceversa rischia di portarlo al di là di quel punto.
In breve, gli Indiani mettono le ragazze puberi a regime con cibi conservati per tenerle lontane sia dalla crudità, sia dalla corruzione. Questo motivo non ne esclude altri, dettati da una semplice ragione di comodità; e tutti sono straordinariamente affini a quelli che spingono una massaia americana (e fra breve, certamente, anche molte altre) ad alimentare la propria famiglia allo stesso modo.

Viene così a instaurarsi spontaneamente un dialogo fra il passato e il presente, fra le usanze esotiche e quelle domestiche. Eppure, anche questa volta, la filosofia indigena Monet-sciroppo-peschemantiene la propria originalità. Infatti, a quali pericoli ci si riferisce in ognuno dei due casi per enunciare queste regole di comportamento?
Pericoli per sé e per i propri familiari, direbbe la massaia del giorno d’oggi, che preferisce il cibo conservato a un alimento fresco per paura che quest’ultimo non sia maturo o lo sia troppo. Pericoli per altri, replicano i selvaggi con una impressionante unanimità.

Se gli Indios della Guayana fanno patire la fame alle proprie figlie e alle proprie mogli quando sono mestruate, questo, dicono, è per far sì che il loro corpo elimini quel veleno che altrimenti farebbe seccare la vegetazione e gonfiare le gambe agli uomini ovunque esse abbiano camminato.
All’altro capo del continente, i Chinook riecheggiano queste affermazioni: «I vecchi raccontano che una volta, quando erano indisposte, le donne evitavano di far visita ai malati. Essi spiegano infatti che se la persona mestruata e quella malata si incontrassero, le condizioni di quest’ultima peggiorerebbero. Lo stesso avverrebbe se la prima offrisse qualcosa da mangiare alla seconda, o se il suo sguardo si posasse su ciò che l’altra si appresta a mangiare».

Secondo i Salish del fiume Cowlitz, la ragazza indisposta non deve guardare i vecchi di entrambi i sessi, gli individui maschi di qualsiasi età e perfino il cielo, altrimenti attirerà su di loro gravi pericoli. I Tlingit dell’Alaska giustificano l’uso di un cappello a larghe falde con la preoccupazione di evitare che gli occhi della ragazza si rivolgano verso il cielo e lo contaminino.
Gli Athapaskan del nord sottopongono le donne indisposte a limitazioni molto severe, e ciò perché pensano che «questa indisposizione naturale della donna sia causa di malattie e di morte per l’uomo». Gli Hupa della California confondono sotto il nome di «persone cattive» coloro che portano il lutto, le donne mestruate, quelle che hanno appena partorito o quelle che hanno avuto un aborto. A queste aggiungono anche i becchini…

Si potrebbero moltiplicare questi esempi, i quali confermano il fatto che i motivi invocati dai cosiddetti popoli primitivi a sostegno delle buone maniere capovolgono i nostri. Noi Hatt-danza-pioggiainfatti portiamo il cappello per proteggerci dalla pioggia, dal freddo e dal calore; adoperiamo la forchetta a tavola e ci mettiamo i guanti per non sporcarci le dita; beviamo con la cannuccia per proteggerci dalla bevanda troppo fredda; consumiamo i prodotti conservati per liberarci da un fastidio di ordine pratico o per difenderci da un pericolo di ordine teorico, inconvenienti che concernono entrambi la crudità e la corruzione.

Ma cappelli, guanti, forchette, cannucce per bere e prodotti conservati costituirono un tempo e costituiscono ancor oggi, in altre società, delle barriere destinate a contrastare una infezione emanata dal corpo stesso di colui che li usa. Invece di proteggere la purezza interna del soggetto contro l’impurità esterna degli esseri e delle cose, come pensiamo noi, le buone maniere servono, per i selvaggi, a proteggere la purezza degli esseri e delle cose dall’impurità del soggetto.

Dobbiamo però attenuare questa formula con una osservazione. L’infrazione dei divieti che riguardano la ragazza pubere costituisce un pericolo anche per lei, ma, qualunque sia la società su cui si porta l’indagine, questa società definisce tale pericolo sempre negli stessi termini o in modo molto simile. La colpevole diventerà uno scheletro spolpato, dicono gli Zulù; rimarrà sterile, oppure i suoi figli moriranno in tenera età e la sua stessa vita sarà breve, sostengono, sempre in Africa, gli Akamba e i Baganda.
Lo stesso in America: la ragazza mestruata o la puerpera che non rispettasse i divieti avrebbe muscoli deboli, soffrirebbe di emorragie e morirebbe in giovane età, secondo gli Athapaskan del nord. Fra questi ultimi i Tanana precisano che bere caldo o freddo invece che tiepido le farebbe perdere nel primo caso i capelli e nel secondo i denti; e i capelli d’una donna che guardasse il sole mentre è indisposta diventerebbero precocemente bianchi. Secondo i Twana del Puget Sound, una donna in reclusione che si toccasse la testa con le dita se le vedrebbe marcire: «Non le crescerebbero più i capelli, e che cos’è desiderabile per una donna se non una capigliatura lunga e folta?» […]

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Infrangere, dunque, un regime alimentare, trascurare l’uso di utensili da tavola o da toeletta, compiere gesti proibiti, sono azioni che contaminano l’universo, rovinano i raccolti, allontanano la selvaggina, espongono gli altri al rischio della malattia e della carestia e, quanto a se stessi, accorciano la durata normale della vita umana facendo apparire i segni di una senilità precoce. Ma non si capirebbe nulla di questo sistema se non si tenesse nel debito conto il fatto che i due tipi di sanzioni sono reciprocamente esclusivi.
Nel caso non rispettino certe regole, la donna mestruata e la puerpera invecchiano precocemente, ma non fanno invecchiare gli altri. I pericoli impliciti nella loro condotta differiscono secondo le parti in causa. Per esse consistono in una accelerazione del corso dell’esistenza, dovuta a fattori interni; per gli altri, consistono in una interruzione di quel medesimo corso, dovuta questa volta a fattori esterni, come il contagio e la carestia.

Questo dualismo rimarrebbe inspiegabile se non si ammettesse che un insieme di prescrizioni e di divieti di tipo diverso diventa coerente quando tali prescrizioni e divieti vengano situati simultaneamente secondo due prospettive. Dal punto vista spaziale, essi servono a scongiurare una congiunzione che risulta pericolosa a causa dell’elevato pettine-nativi-americanipotenziale accumulato ai poli di uno stesso asse: quello delle forze naturali in cui questa condizione è abituale, e quello in cui si trova momentaneamente un individuo particolare, in preda a un’intensa agitazione dovuta a circostanze fisiologiche o sociologiche che gli hanno fatto cambiare condizione. Gli utensili da tavola o da toeletta adempiono un’efficace funzione come isolanti o mediatori fra la persona sociale e il proprio corpo, in cui si scatena la natura, fra questo stesso corpo e l’universo biologico e fisico. La loro interposizione impedisce infatti quella scarica catastrofica che altrimenti potrebbe prodursi. […]

La mancanza di utensili quali il pettine, il gratta-testa, i guanti, la forchetta, utensili destinati a fungere da mediatori fra il soggetto stesso e il suo corpo, provoca l’apparizione dei capelli bianchi, della pelle rugosa, ecc.
La ragione di ciò va certamente ricercata nel fatto che soltanto il regno di una periodicità che sia regolare e che in un certo senso riesca a mediarsi da sola, permette di evitare un duplice pericolo: da una parte quello risultante dall’assenza di periodicità, così spesso evocata nei miti sotto l’aspetto del Giorno continuo o della continua Notte; dall’altra quello che deriverebbe da una periodicità fattasi troppo rapida: eventualità che in pratica coincide con l’altra, come mostra l’immagine della corrente alternata, il cui effetto, quando se ne abbrevi il periodo, cessa di distinguersi da quello della corrente continua.

Orbene, proprio perché sono esseri periodici, le donne necessitano di una educazione più attenta. Per la loro periodicità, esse si trovano infatti costantemente minacciate – e con loro l’intero universo – dalle due eventualità di cui abbiamo parlato prima: il rallentamento del loro ritmo periodico, con la conseguente interruzione del corso delle cose; oppure l’accelerazione di quel ritmo, che fa precipitare il mondo nel caos.
La mente può facilmente immaginare sia che le donne cessino di procreare e di avere le mestruazioni, sia che perdano continuamente sangue e partoriscano senza posa. Ma in entrambe le ipotesi gli astri che presiedono all’alternanza dei giorni e delle stagioni non Lewis-donna-pumapotrebbero più compiere il loro ufficio. Costretti a stare lontani dal cielo nel vano tentativo di trovare una sposa perfetta, questa loro ricerca non finirebbe mai.

Regimi alimentari, buone maniere, utensili da tavola o di igiene, tutti questi mezzi per operare la mediazione adempiono dunque una duplice funzione. Come ha compreso Frazer, essi rivestono certamente la funzione di isolanti o di trasformatori, sopprimono o abbassano la tensione fra poli dotati di cariche eccessivamente elevate. Ma essi servono anche da campioni di misura. In questo caso la loro funzione diventa positiva invece che negativa, come accadeva prima. L’obbligo di impiegarli attribuisce a ogni processo fisiologico e a ogni gesto sociale una giusta durata.

In fin dei conti, la buona educazione esige infatti che ciò che deve essere si compia, ma che niente si compia precipitosamente. Così, nonostante la missione banale che la vita quotidiana attribuisce loro, oggetti apparentemente insignificanti come il pettine, il cappello, i guanti, la forchetta o la cannuccia per bere, fungono ancor oggi da mediatori fra termini estremi; carichi di una forza d’inerzia che un giorno fu voluta e calcolata, essi moderano i nostri scambi con il mondo, imponendo loro un ritmo ragionevole, calmo e ben dominato. Maneggiati da ciascuno di noi in un modo prosaico, determinato dalle esigenze del corpo, essi non fanno che perpetuare l’immagine favolosa della piroga occupata dalla luna e dal sole.

Pur costituendo anch’essa un oggetto tecnico, tale piroga è in grado di manifestare in piena luce quella funzione che in ultima analisi dobbiamo forse riconoscere a tutti gli oggetti tecnici e alla cultura stessa che li genera: funzione consistente nel separare e al tempo stesso nell’unire esseri che, se fossero reciprocamente troppo vicini o troppo lontani, lascerebbero l’uomo in preda all’impotenza o alla follia.

Rimane da sapere se la vittoria sull’impotenza, sfruttata in modo sproporzionato rispetto agli obiettivi di cui l’uomo si è appagato nel corso dei millenni, non conduca anch’essa alla follia.
Abbiamo fin qui potuto cogliere la logica segreta che guida il pensiero mitico sotto il duplice aspetto di logica delle qualità e di logica delle forme. Ora abbiamo modo di Cro Magnon Women gatherersconstatare che la mitologia nasconde anche una sua morale, ma purtroppo la distanza che separa questa morale dalla nostra è maggiore di quella che intercorre fra la logica dei miti e la nostra logica.

Se, come crediamo di aver dimostrato, l’origine del modo di stare a tavola e, più in generale, delle buone maniere, va ricercata in un atteggiamento deferente verso il mondo, e se il saper vivere consiste proprio nel rispettarne i precetti, ne consegue che la morale immanente dei miti è diametralmente opposta a quella che noi professiamo al giorno d’oggi.
In ogni caso, essa ci insegna che l’affermazione secondo cui «l’inferno sono gli altri» – affermazione che ha avuto vasta risonanza fra noi – non costituisce un asserto filosofico, ma una testimonianza etnografica su una civiltà. Infatti, siamo stati abituati fin dall’infanzia a temere l’impurità al di fuori di noi.

Invece, quando proclamano che «l’inferno siamo noi», i popoli selvaggi ci danno una lezione di modestia che ci auguriamo di essere ancora in grado di capire. In questo secolo in cui l’uomo si accanisce nel distruggere innumerevoli forme di vita, dopo aver distrutto molte società la cui ricchezza e diversità costituivano da tempo immemorabile il suo più splendido patrimonio, è più che mai necessario dire, come fanno i miti, che un umanesimo ben orientato non comincia da se stessi, ma pone il mondo prima della vita, la vita prima dell’uomo e il rispetto degli altri esseri prima dell’amor proprio.
Né va dimenticato che, essendo comunque destinato a terminare, nemmeno un soggiorno di uno o due milioni di anni su questa terra può servire da scusa a una qualsiasi specie, anche alla specie umana, per appropriarsi del nostro pianeta come se fosse una cosa e per comportarvisi senza pudore e senza discrezione.

(Lévi-Strauss, Le origini delle buone maniere a tavola)