Artaud – Lettera al Signor Legislatore

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La legge sugli stupefacenti pone nelle mani dell’ispettore-usurpatore della salute pubblica il diritto di disporre del dolore degli uomini; è una singolare pretesa della medicina moderna voler dettare i suoi doveri alla coscienza di ciascuno. Tutti i muggiti della carta ufficiale sono senza potere d’azione su questo fatto di coscienza: ovvero, ancor più che della morte, io sono il padrone del mio dolore. Ogni uomo è giudice, e giudice esclusivo, della quantità di dolore fisico, o anche di vacuità mentale che può onestamente sopportare.

Lucidità o non lucidità, c’è una lucidità che nessuna malattia mi toglierà mai, ed è quella che mi detta il sentimento della mia vita fisica. E se ho perduto la mia lucidità, la medicina non ha che una cosa da fare: è di darmi le sostanze che mi permettano di recuperare l’uso di questa lucidità.

So che esistono turbamenti gravi della personalità, e che possono arrivare per la coscienza fino alla perdita della propria individualità: la coscienza rimane intatta ma non si riconosce più come appartenente a se stessa (e non si riconosce più a nessun livello).
Ci sono turbamenti meno gravi, o per meglio dire meno essenziali, ma molto più dolorosi e importanti per la persona, e in qualche modo più rovinosi per la vitalità, ed è quando la Artaud-profilocoscienza si appropria, riconosce veramente come appartenente a se stessa tutta una serie di fenomeni di dislocazione e di dissociazione delle sue forze nel corso dei quali la sua materialità si distrugge.
È precisamente a questi che alludo.

Ma si tratta giustamente di sapere se la vita non è danneggiata più da una decorporizzazione [da un distacco dal corpo] del pensiero con conservazione di una particella di coscienza, che dalla proiezione di questa coscienza in un indefinibile altrove con una stretta conservazione del pensiero. La questione tuttavia non è se questo pensiero si sbaglia, o sragiona, ma se esso si produce, se manda bagliori, sia pure folli. La questione è se esiste. E io pretendo, io come altri, il diritto a non avere un pensiero.
Ma questo fa ridere i miei amici.

E tuttavia!
C’è che, in quanto a me, io non chiamo avere un pensiero vedere giusto e dirò perfino pensare giusto; avere del pensiero, per me, è mantenere il proprio pensiero, essere in grado di manifestarlo a se stessi, e che esso possa rispondere a tutte le circostanze del sentimento e della vita. Ma principalmente rispondere a se stesso.

Perché è qui che si situa quell’indefinibile e torbido fenomeno che io dispero di far intendere a chicchessia e in particolare ai miei amici (o meglio ancora, ai miei nemici, quelli che mi prendono per l’ombra che io mi sento benissimo d’essere; – e che essi non pensano benissimo di dire, essi, ombre due volte, a causa loro e mia).
I miei amici, io non li ho mai visti come me, con la lingua di fuori, e lo spirito orribilmente in arresto.

Sì, il mio pensiero si conosce e dispera ormai di raggiungersi. Esso si conosce: intendo dire, si sospetta; e in ogni caso non si sente più. – Parlo della vita fisica, della vita sostanziale del pensiero (ed è qui d’altronde che mi riallaccio al mio soggetto), parlo di quel minimum di vita pensante e allo stato bruto – non ancora giunto alla parola, ma Artaud-scrivecapace all’occorrenza di arrivarci – e senza il quale l’anima non può vivere, e la vita stessa è come se non fosse. – Coloro che si lamentano dell’insufficienza del pensiero umano e della loro impotenza a soddisfarsi di quello che essi chiamano il loro pensiero, confondono e mettono sullo stesso piano erroneo stati perfettamente differenziati del pensiero e della forma, di cui il più basso non è che parola, mentre il più alto è ancora spirito.

Se io avessi ciò che so essere il mio pensiero, avrei forse scritto L’ombelico dei limbi, ma l’avrei scritto in tutt’altro modo. Mi si dice che io penso perché non ho cessato affatto di pensare e perché, malgrado tutto, il mio spirito si mantiene a un certo livello e dà di tanto in tanto prove della sua esistenza, di cui non si vuole riconoscere che sono deboli e che mancano d’interesse. Ma pensare è per me altra cosa che questo essere definitivamente morto: è raggiungersi in ogni istante, è non cessare in nessun momento di sentirsi nel proprio essere interno, nella massa inespressa della propria vita, nella sostanza della propria realtà, è non sentire in sé vuoto capitale, o assenza vitale, è sentire sempre il proprio pensiero eguale al proprio pensiero, quali che siano comunque le insufficienze della forma che si è capaci di dargli. Ma il mio pensiero a me, nello stesso tempo che pecca per debolezza, pecca anche per quantità. Penso sempre a un tasso inferiore.

Signori dittatori della scuola farmaceutica di Francia, voi non siete che croste rognose: c’è una cosa che dovreste meglio misurare; è che l’oppio è quella imprescrittibile e imperiosa sostanza che permette di rientrare nella vita della loro anima a quanti [la loro lucidità] hanno avuto la sventura d’averla perduta.

C’è un male contro il quale l’oppio è sovrano e questo male si chiama l’Angoscia, nella sua forma mentale, medicale, fisiologica, logica o farmaceutica, come meglio vi aggrada.

L’Angoscia che fa i pazzi.
L’Angoscia che fa i suicidi.
L’Angoscia che fa i dannati.
L’Angoscia che la medicina non conosce.
L’Angoscia che il vostro dottore non comprende.
L’Angoscia che lede la vita.
L’Angoscia che pinza la corda ombelicale della vita.

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Con la vostra legge iniqua voi mettete nelle mani di persone che non hanno [con l’Angoscia] nessuna specie di confidenza, di coglioni in fatto di medicina, di farmacisti del letame, di giudici fraudolenti, di dottori, sapienti effeminati e ispettori addottorati, il diritto di disporre della mia angoscia, di un’angoscia in me sgusciante come le anguille di tutte le bussole dell’inferno.

Tremori del corpo o dell’anima, non esiste sismografo umano che permetta a chi mi guarda di arrivare a una valutazione del mio dolore più precisa di quella, folgorante, del mio spirito.
Tutta la scienza azzardata dagli uomini non è superiore alla conoscenza immediata che posso avere del mio essere. Io sono il solo giudice di ciò che è in me.

Rientrate nei vostri granai, cimici mediche, e pure tu, Signor Legislatore Moutonnier, non è per amore degli uomini che tu deliri, è per tradizione di imbecillità. La tua ignoranza di ciò che è un uomo è pari solo alla tua follia nel limitarlo. Ti auguro che la tua legge ricada su tuo padre, tua madre, i tuoi figli e tutta la tua posterità. E adesso ingoiala pure, la tua legge.

(Artaud, L’ombelico dei limbi)

***

Chissà se davvero i limbi hanno, come dice Artaud, l’ombelico perennemente in bilico sul filo di un’eco felicemente ritorta contro se stessa (la senti? ombiliclimbes…), o se non è ombelico-ramificato-donna-incintaper caso il contrario, e cioè l’ombelico ad annodarsi nei più remoti limbi linguistici che, se pure storpi, ancora danno voce al suo Passato.
Li senti? No, non sono ronzii. Sono quei preludi che mai non giunsero alla Parola, tutti perciò egualmente ignari dell’inferno purgatorio e paradiso che li attendeva, il giorno che si fossero scordati della loro iniziale assonanza: il giorno che si fossero avventurati a dire più e altro di quella sola eco (mbillimb…) – o a cantare fino a cento canti sopra un balbettio insignificante.

Morte poetata della Poesia che «dice». Poesia che si rifiuta di «dire» ancora. Tramonto del Poeta che padroneggia le rime. I limbi tremano a ogni accento, non hanno mai avuto nulla da dire, non sono mai stati né guelfi né ghibellini (chiedilo a Totò!), hanno solo da sopportare (se necessario, con l’oppio) la loro «vacuità mentale». La loro assenza al Pensiero. Perciò se mai un giorno si decidono a scrivere, è per scrivere l’assenza in loro di un pensato. Essi non si scrivono che in assenza di ogni gendarmeria delle categorie cogitanti. Non hanno da scrivere altro che la loro estraneità alla presenza a sé richiesta dal cogito, con buona pace di Cartesio e soci.

No, i limbi non cogitano, i limbi sono nervi non-pensanti, i limbi non obbediscono che al dettato del loro sentimento «corporale». I limbi si sentono corporalmente vivi fino a che il Pensiero non li strappa al loro ombelico, per assoggettarli all’obbligo di un Senso Incorporeo, Astratto, Spirituale. Fino a che non hanno nessuna terra promessa alla loro beatitudine, i limbi dimorano nell’ombelico, al di là del confine segnato tra innocenza e peccato. Il destino dell’ombelico è perciò affidato ai limbi che restano dolorosamente ancora aggrappati a ciò che sentono del corpo. Il destino dell’ombelico è rimesso a quei due o tre stracci di placenta a cui disgraziatamente col tempo – è incredibile, ma è così – finiamo per sovrascrivere, a uno a uno, certi scarabocchi al servizio di un Pensiero che non ci appartiene.

All’ombelico non appartiene che l’«impensato», sono i limbi a dover passare per i Segni di un Pensiero e di una Memoria altrui, sono essi che rischiano di staccarsi dal corpo e di «gettarsi» nella conoscenza di quel che nessun Narciso dovrebbe mai sapere: quel «se Dalì-donne-ondestesso», il più strano degli «oggetti», che viene così da fuori ad affliggerli e tormentarli.
Pensami! Continuamente pensami! Non ti scordar di me! Io sono il Signore del tuo cogito! Non avrai altro dio all’infuori di me…
Ecco perché sopravvengono, e Artaud ne sa qualcosa, turbamenti gravi e meno gravi «della personalità». È il Pensiero detto o scarabocchiato, è il Racconto udito o orecchiato che fa male ai limbi, e li rende nervosi.

I limbi iniziati ai Segni di una Tribù, patirono violenza. Scippati al loro ombelico «al di là del cogito», strappati a quel «minimum di vita pensante e allo stato bruto», e dannati da allora a vagare fuori di sé, turbati e disturbati più o meno gravi, i limbi ai Gendarmi della Legge non hanno più da elemosinare che una razione d’oppio! Perché se non divini, i limbi umani anelano comunque a riconquistare il loro ombelico angelico. Che pazzia! Pensare di aver «diritto a non avere un pensiero»!

È una vecchia vertenza, questa. Antica quanto l’umanità. È una questione, a cui da sempre sono mancate le parole. Di più: a cui da sempre è mancato un pensiero che la sostenesse. E non poteva che essere così, dal momento che si trattava di difendere l’«impensato» dalle intrusioni «legislative» della Parola. Di difenderlo dalla lettera dei Catechisti d’ogni fede.
Una questione messa a tacere dalla conquista «democratica» del diritto alla libertà di pensiero, ad avere e manifestare (si fa per dire) il proprio pensiero. La questione che invece Artaud qui risuscita dal sepolcro farmaceutico dei Dottori del Tempio (i Signori dell’Oppio «legale») concerne, non la libera circolazione del tale o talaltro «pensato», ma che si riconosca finalmente la realtà dell’«impensato» e sia data cittadinanza nella scrittura all’«assenza» di pensiero, e con essa a quel Niente «da dire», «lo Spirito», di cui la Parola non è che il cielo più basso.