Derrida – L’angoscia di scrivere

L’immaginazione era per Kant già in se stessa un’«arte», l’arte stessa che originariamente non distingue tra il vero e il bello: la Critica della ragion pura e la Critica del giudizio, malgrado le differenze, ci parlano della stessa immaginazione. Arte, certo, ma «arte scrivana-inglesenascosta» che non si può «esibire apertamente dinanzi agli occhi». «L’idea estetica si può chiamare una rappresentazione inesponibile dell’immaginazione (nel suo libero gioco)».
L’immaginazione è la libertà che non si manifesta se non nelle sue opere. Queste ultime non sono nella natura, ma non stanno neanche in un altro mondo dal nostro. «L’immaginazione (come facoltà di conoscere produttiva) ha una grande potenza nella creazione di una natura altra dalla materia che le fornisce la natura reale» (Critica del giudizio, § 49).

Ecco perché l’intelletto non deve essere la facoltà essenziale del critico, quando esso si accinge al riconoscimento dell’immaginazione e del bello, quello che noi chiamiamo bello, e «in cui l’intelletto sia al servizio dell’immaginazione e non viceversa». Perché appunto «la libertà dell’immaginazione consiste nello schematizzare senza concetto» (Critica del giudizio, § 35). […]

Per considerare più da vicino l’operazione dell’immaginazione creatrice, bisogna rivolgersi all’interno della libertà poetica. Bisogna distaccarsi per raggiungere nella sua notte l’origine cieca dell’opera.
Questa esperienza di conversione che instaura l’atto letterario (scrittura o lettura) è tale che le parole stesse di separazione e d’esilio, in quanto designano sempre una rottura e un percorso all’interno del mondo, non possono manifestarla direttamente ma solo indicarla con una metafora la cui genealogia meriterebbe da sola la totalità della riflessione. Perché qui si tratta di una uscita fuori dal mondo, verso un luogo che non è un non-luogo né un altro mondo, né un’utopia né un alibi.

Creazione di «un universo che si aggiunge all’universo», come suggerisce un’espressione di Focillon… e che non dice se non l’eccedenza sul tutto, quel nulla essenziale, a cominciare dal quale tutto può apparire e prodursi nel linguaggio e di cui la voce di Blanchot ci ricorda con l’insistenza della profondità che esso è la possibilità stessa della scrittura e di una ispirazione letteraria in generale.
Solo l’assenza pura – non l’assenza di questo o di quello – ma l’assenza di tutto, in cui si rivela ogni presenza – può ispirare, o in altre parole tormentare, poi far lavorare. Il libro puro, il libro in se stesso, deve essere, per quel che è in esso insostituibile in modo essenziale, quel «libro su niente» che sognava Flaubert. Sogno al negativo, in grigio, origine del libro totale che ha ossessionato altre immaginazioni.

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Questa vacanza come situazione della letteratura, è quello che la critica deve riconoscere come specificità del suo oggetto, attorno alla quale si parla sempre.
Il suo proprio oggetto, poiché il nulla non è un oggetto, è piuttosto il modo in cui questo nulla stesso si determina perdendosi. È il passaggio alla determinazione dell’opera come travestimento dell’origine. […]

Ho esordito nella letteratura scrivendo libri per dire che non potevo scrivere assolutamente nulla. Quando avevo qualcosa da dire o da scrivere, era proprio il mio pensiero quello che maggiormente mi era negato. Non avevo mai idee e due libri brevissimi, di settanta pagine l’uno, si svolgono attorno a quella assenza profonda, inveterata, endemica di ogni idea. Sono L’ombilic des limbes e il Pèse-Nerfs.
(Antonin Artaud)

Coscienza di aver da dire come coscienza di nulla, coscienza che non è indigente, ma soffocata dal tutto. Coscienza di nulla, partendo dalla quale ogni coscienza di qualcosa Tolstoipuò arricchirsi, prendere senso e figura. E può sorgere ogni parola. Perché il pensiero della cosa come quello che essa è si confonde già con l’esperienza della pura parola; e questa con l’esperienza stessa.
Ora la pura parola non richiede l’iscrizione (una specie di rappresentazione privilegiata) un po’ al modo in cui l’essenza leibniziana richiede l’esistenza e urge verso il mondo come la potenza verso l’atto?

Se l’angoscia della scrittura non è, e non deve essere, un pathos determinato, è perché non è essenzialmente una modificazione o un’affezione empirica dello scrittore, ma è la responsabilità di questa angustia, di questo passaggio necessariamente contratto della parola contro cui si precipitano, ostacolandosi a vicenda, le significazioni possibili.
Si ostacolano tra loro ma si invocano, si provocano perfino, imprevedibilmente e quasi mio malgrado, in una specie di sovracompossibilità autonoma delle significazioni, potere di equivocità pura di fronte al quale la creatività del Dio classico sembra ancora troppo misera.

Parlare mi fa paura, perché non dicendo mai abbastanza, io dico anche sempre troppo. E se la necessità di diventare fiato o parola stringe il senso – e la nostra responsabilità del senso –, la scrittura stringe e costringe ancora di più la parola.
La scrittura è l’angoscia della ruah [spirito] ebraica subita sul versante della solitudine e della responsabilità umane; sul versante di Geremia soggetto al dettato di Dio («Prendi un libro e vi scriverai tutte le parole che io ti ho detto») o di Baruc che trascrive il dettato di Geremia, ecc. (Geremia, 36: 2-4); o ancora l’istanza propriamente umana della pneumatologia, scienza del pneuma, spiritus o logos, che si divideva in tre parti: la divina, l’angelica e l’umana. È il momento in cui bisogna decidere se noi incideremo quello che sentiamo. E se l’incidere salva o perde la parola.

Dio, il Dio di Leibniz, non conosceva l’angoscia della scelta tra i possibili: pensava i possibili solo in atto e come tale ne disponeva nel suo Intelletto o Logos; è il «meglio» che, in ogni caso, favorisce la ristrettezza di un passaggio che è Volontà. E ogni esistenza Leibnizcontinua a «esprimere» la totalità dell’Universo.
Qui, dunque, non c’è tragedia del libro. Non c’è che un Libro ed è il medesimo Libro che si distribuisce in tutti i libri [analogamente in Cartesio: non c’è che un Pensiero ed è lo stesso Pensiero che si ripartisce nelle menti di tutti gli uomini: Cogitatio natura universalis].

Nella Teodicea, Teodoro, divenuto «capace di sostenere il divino splendore della figlia di Giove», è condotto da quest’ultima nel «palazzo dei destini» dove Giove, che «ha fatto la rassegna del possibile prima dell’inizio del mondo esistente», «avendo trasformato le possibilità in mondi», e avendo scelto «il migliore di tutti», di tanto in tanto «torna a vedere questi luoghi per prendersi il piacere di ricapitolare le cose e di rinnovare la propria scelta della quale non può mancare di compiacersi». Teodoro viene allora introdotto in un appartamento che «era un mondo». Nell’appartamento vi era un grande volume di scritti: Teodoro non poté trattenersi dal domandare che cosa contenessero.

È la storia del mondo che stiamo visitando, gli dice la Dea: è il libro dei destini. Tu hai visto un numero sulla fronte di Sesto; cerca in questo libro il passo che gli corrisponde.
Teodoro lo cerca e vi trova la storia di Sesto raccontata in modo più esteso di quella che aveva vista come in un compendio.
Metti il dito sulla linea che più ti piace, gli dice Pallade, e vedrai rappresentato in tutti i particolari ciò che la linea indica in modo sommario.
Egli obbedisce e vede apparire in tutti i particolari una parte della vita di Sesto.
(Leibniz, Saggi di teodicea)

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Scrivere, non è solo pensare il libro leibniziano come possibilità impossibile… Non è solo sapere che il Libro non esiste e che per sempre ci saranno dei libri in cui (si) frantuma, prima ancora di essere stato uno, il senso di un mondo impensato da un soggetto assoluto; che il non-scritto e il non-letto non possono essere sottratti al senza fondo grazie alla negatività servizievole di qualche dialettica e che, soffocati dal «troppi scritti!», è l’assenza del Libro che noi in tal modo lamentiamo.

Non è solo aver perduto la certezza teologica di vedere ogni pagina ricollegarsi da sé nel testo unico della verità, «livre de raison», come si diceva in passato del diario in cui si depositavano in Memoria i conti (rationes) e le esperienze, raccolta genealogica, Libro di Ragione, in questo caso, manoscritto infinito letto da un Dio che, di tanto in tanto, ci abbia prestato la sua penna.
Questa certezza perduta, questa assenza della scrittura divina, cioè prima di tutto del Dio ebraico che in qualche occasione scrive esso stesso, non definisce solamente e vagamente qualcosa come la «modernità». In quanto assenza e ossessione del segno divino, essa domina per intero l’estetica e la critica moderne. […]

Scrivere non è soltanto sapere che attraverso la scrittura, attraverso la soluzione dello stile, non è necessario che passi il meglio come credeva Leibniz della creazione divina, biblioteca-magicané che questo passaggio sia voluto, né che ciò che è registrato esprima infinitamente l’universo, gli rassomigli e lo sintetizzi sempre.
È anche non poter assolutamente far precedere allo scrivere il suo senso: far discendere cioè il senso, ma innalzare contemporaneamente l’iscrizione.
Fraternità in eterno dell’ottimismo teologico e del pessimismo: niente di più rassicurante e niente di più disperante, nulla distrugge i nostri libri quanto il Libro leibniziano.
Di che cosa vivrebbero i libri, che cosa sarebbero se non fossero soli, e in quanto soli, mondi infiniti e separati?

Scrivere è sapere che ciò che non è ancora prodotto nella lettera non ha altra dimora, non ci attende come prescrizione in qualche τόπος ουράνιος [«luogo celeste», «mondo delle idee»] o in qualche intelletto divino.
Il senso deve attendere di essere detto o scritto per abitare se stesso e diventare quello che è differendo da sé: il senso. È quello che Husserl ci insegna a pensare nell’Origine della geometria. L’atto letterario ritrova così alla sua sorgente il suo vero potere.
In un frammento del libro che progettava di dedicare all’Origine della verità, Merleau-Ponty scriveva:

La comunicazione in letteratura non è semplicemente un appello dello scrittore a significazioni che farebbero parte di un a priori dello spirito umano: al contrario, essa ve le suscita con la sua foga o con una specie di azione obliqua. Nello scrittore il pensiero non guida il linguaggio dal di fuori: lo scrittore è esso stesso come un nuovo idioma che si va costruendo…
(Merleau-Ponty, Sulla fenomenologia del linguaggio)

È perché è inaugurale, nel senso giovane della parola, che la scrittura è pericolosa e angosciosa. Essa non sa dove va, nessuna saggezza la preserva da quella precipitazione essenziale verso il senso che essa costituisce e che è innanzitutto il suo avvenire. Nondimeno non è capricciosa se non per vigliaccheria.
Non c’è dunque garanzia contro questo rischio. La scrittura è per lo scrittore, anche se non è ateo, ma se è scrittore, una navigazione prima e senza grazia.

(Derrida, Forza e significazione, in La scrittura e la differenza)