Ibn ‘Arabî – I due mattoni sporgenti dal muro

Se la metafora in gioco è il Muro (del linguaggio), se il Segno su cui per caso va a sbattere l’incipit del Pensiero non è che un mattone di questo Muro, se è questo l’Incontro Fondamentale, lo «scontro», la «contrarietà», il «di fronte» che il Pensiero è chiamato ad affrontare nel suo primo Inizio – l’incontro della sua realtà inconscia immediata con un «altolà» che l’obbliga a «trascendere» se vuole passare, e che ne costringe le facoltà (le «cavalle» di Parmenide, per es.) a impennarsi in uno slancio «metafisico» o, come qui calice-profiloamerebbe dire il mai abbastanza compianto Jarry, in quel funambolismo «patafisico» che, dal canto suo, Lacan interpreta come la prima auto-analisi che ogni bambino a non più di tre anni «è costretto» a farsi da sé – se… se il Muro in questione fosse la Necessità, l’Impedimento, il «di qui tu non passerai», se fosse la parete d’una Caverna su cui non si vedono danzare che le ombre illusorie di oggetti tanto astratti quanto attraenti (non è il linguaggio che quelle ombre le spaccia per «cose», per «res reali»?), e se… ma quanti se servono ancora? se la finissimo qui di elencare gli innumerevoli casi in cui il Pensiero va a sbattere contro il Muro (del linguaggio), se non ci perdessimo dietro alle declinazioni particolari di questo o quel Muro, se anzi scippassimo il Segno Muro a tutti i suoi molteplici contesti, ai colori e alle maschere che di caso in caso lo travestono (che lo ripetono cioè travestendolo) – ecco, se volessimo giocare a decostruire la Vecchia, la Ripetizione, a oltraggiare cioè la Metafora al cui gioco giochiamo, dovremmo saper abbozzare un’algebra che, in quanto ad audacia e semplicità, non abbia nulla da invidiare ai bambini.

Perché allora non chiamare in causa anche un «mistico» come il Platonico d’Andalusia – un poeta «visionario» qual è Ibn ‘Arabî? Forse che il suo «dire» non è abbastanza «iniziale», ingenuo e avventuroso, come quello di ogni guaglione?
Mi raccomando: sii algebrico nel leggerlo. Non farti catturare dalla questione «religiosa». È sul Segno Muro, è su questa ennesima sua applicazione a un altro contesto, è su questa sua mobilità, su questa sua fluttuazione che devi puntare… se vuoi saltare di là.

Il Segno Muro non è che un Mattone del Muro. Sii dunque accortamente strabico nel guardarlo. Sfuggi a ogni aut-aut. Guarda l’Ombra del caso particolare, ma intanto non distrarti dal Segno di cui anche questo di Ibn ‘Arabî è soltanto un’ombra, una traccia scritta sulla parete della Caverna.
Bada bene, ché Polifemo ha chiuso ogni via d’uscita. Ogni segno di cui ti servirai per la tua Algebra del Segno, non sarà che un altro mattone del Muro. Anzi no: sarà di nuovo, un’altra volta, lo Stesso Mattone, il Differente, che attende di essere ulteriormente differenziato – anche se, a quanto pare, differenziato totalmente, fino in fondo, definitivamente, non lo sarà mai. Sarà sempre il segno di una differenza «parziale» che non fa altro che «differirsi» di testo in testo, di contesto in contesto, sempre pronta a fare un’altra parte.
E poi dice che uno esce pazzo!!!

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L’Inviato di Dio ha dichiarato: «Io sono tra i profeti come quel muratore che a porta a compimento un muro già alzato a cui manca un solo e unico mattone. Sono io che sono questo mattone, giacché dopo di me non ci sarà più né profeta né inviato».
La profezia è dunque comparabile ai mattoni con cui il muro è innalzato. Si tratta di un simbolo che mira a esprimere la Bellezza divina perfetta, giacché ciò che qui è chiamato il muro (la profezia) non potrebbe essere pienamente manifestato che attraverso i mattoni (i profeti).
Ed è l’Inviato di Dio – Dio si degni di pregare su di lui e lo mantenga in pace – che è il Sigillo dei profeti (il mattone che completa il muro della profezia).

Mi trovavo alla Mecca nell’anno 599 (1219) quando vidi in sogno la Ka’aba interamente costruita di mattoni d’argento e d’oro; c’erano dei mattoni d’argento e dei mattoni d’oro. L’architetto aveva finito di costruirla e non restava nella Ka’aba più niente da aggiungere.
Mi misi anche a contemplarla e a considerare la sua suprema bellezza, poi volsi lo sguardo verso la facciata che si trova tra il pilastro Sud e il pilastro Nord, poiché due-mattoniquest’ultimo era il più vicino a me.

Notai allora il posto occupato da due mattoni, un mattone d’argento e un mattone d’oro, che sporgevano dal muro su due file. Nella fila superiore del muro si stagliava un mattone d’oro, e sulla fila immediatamente al di sotto si distaccava un mattone d’argento.
Vidi allora me stesso impresso nello spazio riempito da quei due mattoni, e in modo tale da identificarmi completamente con essi.
Il muro era completato, e non sussisteva più niente nella Ka’aba che potesse frazionarla.
Restai ritto, in contemplazione, e compresi che al tempo stesso ero là ritto di fronte a quel che contemplavo, e tuttavia mi identificavo completamente con [lo spazio vuoto tra] i due mattoni.
Non ho al riguardo alcun dubbio. I due mattoni costituiscono la realtà profonda (‘ayn) della mia propria essenza.

Quando infine mi svegliai, ringraziai Iddio l’Altissimo e dissi: «Come tra i profeti hai eletto l’Inviato di Dio, così tra i miei simili hai investito me della walâyat [amicizia intima]». Allora mi sovvenne l’hadîth in cui il Profeta paragona se stesso al muro (della profezia), di cui egli stesso è in verità l’unico mattone (il Sigillo della profezia che completa il muro); e raccontai il mio sogno visionario a un uomo esperto in materia che si trovava alla Mecca.
Egli me ne spiegò il significato nascosto, mi fece comprendere ciò che mi era accaduto e mi fece notare ciò che restava secondo lui di questa visione.

Così Dio nella sua magnanimità si è compiaciuto di concedermi questa visione, giacché in verità il servizio divino esclusivo non ammette che si resti pietrificato, né che si tentenni, né che ci si affaccendi.
Tale è il carisma di Dio, «Egli accorda il privilegio della sua Misericordia a chi vuole, Dio detiene il carisma supremo» (Corano, 2: 105; 3: 74).

(Ibn ‘Arabî, Fotûhât)

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Quando il Profeta paragonò la funzione profetica a un muro di mattoni quasi completo in cui mancava un solo mattone, s’identificò con questo mattone.
Egli non vide pertanto che lo spazio di un unico mattone da riempire. Ora, il Sigillo degli Awliyâ [Amici Intimi di Dio] avrà una visione analoga, ma scorgerà in quello che il Profeta simboleggiò come un muro incompiuto, lo spazio vuoto [non per uno, ma] per due mattoni.
I mattoni con cui il muro è costruito gli parranno d’oro e d’argento, e i due mattoni ancora mancanti per ultimare la costruzione saranno l’uno d’oro e l’altro d’argento. E il Sigillo degli Awliyâ vedrà se stesso corrispondere allo spazio che i due mattoni dovranno occupare per terminare il muro.

(Ibn ‘Arabî, Fosûs, fass di Seth)

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A uno accadde
di sollevare il velo della dea di Sais.
Ma che vide egli?
Meraviglia delle meraviglie,
vide se stesso.
(Novalis)

Chi aprirà una breccia nel muro?
Qualcuno ha detto che dall’altra parte del muro nessuno c’è mai andato. Ma ha detto pure che quanti ebbero la presunzione di trapassare come cammelli nella cruna dell’ago, – sì, ha Holmes-mattonidetto proprio così – nella povertà, nel vuoto, nel manco che nella cruna s’aprì, là e non oltre, nel mezzo, in medio coelo, trovarono il «Regno» da cui vanno e vengono poeti pazzi mistici e visionari. Un po’ uomini, un po’ lune. Ambigui chiari di luna che anelano a essere umanizzati. A essere murati nell’umanità delle relazioni – perfino di quella tra il santo che dice sì e il maledetto che dice no, giacché tutt’e due si perdono nel sogno d’un gioco a chi trova la chiave dello scrigno in cui è custodito l’ottuplice mantello del niente…

È nel Segno che si nasconde tra Narciso e la sua immagine, ecco dov’è che l’Invisibile, il «muro del linguaggio», trova il suo fondamento. Pietra su pietra, mattone su mattone, parola per parola, ogni delirio del muratore si fonda sul presupposto oscuro su cui egli ci mette e ci rimette ancora la faccia (per non vederlo, e non farlo vedere!).
Vedere invece, come il Maestro degli shaykh ebbe la ventura di vedere, la propria immagine proiettata a riempire lo spazio tra i due mattoni, è la stramba coincidenza di cui narrano certi poeti a diverse latitudini. È il segreto, per es., appreso dai discepoli della dea di Sais.

Sono io che tengo assieme tutto il palazzo del Tempio. E se il Tempio è uno e solo – e indivisibile, sono io che l’unifico – e l’unifico per paradosso solo nell’atto di percepire me stesso sdoppiato.
Perché io e tu sono i due mattoni della mia parola, Medesimo e Altro i due pronomi del mio nome – i due poli entro cui oscilla, per attrazione o per distrazione, la mia preghiera all’Ignoto perché mi comprenda nel suo slancio a quell’«umanità» delle relazioni, per la quale bene o male ho accettato di lasciarmi murare vivo.

Sono io – lo può dire chiunque, e lo scrivo anch’io sul Muro. È l’io il sigillo del Tempio. C’è la chiave e c’è il boncinello, c’è la quarta e la quinta, c’è l’alfiere e c’è il cavallo, e ciascuno col suo passo, ciascuno col suo ritmo, scandisce l’intervallo d’insania che popola la distanza tra i due mattoni, in cui – meraviglia delle meraviglie, come dice il Poeta – egli non può immaginare che di vedere Se Stesso. Ultimo di Paradiso:

… mi parve pinta della nostra effige;
per che ‘l mio viso in lei tutto era messo.
(Dante, Paradiso, 33: 131-132)