Deleuze – Ciò che ci costringe a pensare

Il nuovo si crea, il vecchio (il già in circolazione) si riconosce. Non c’è dunque creazione che del nuovo, e non c’è riconoscimento (non c’è anamnesi) che del vecchio (del «già stato» o, Platone docet, dell’Eterno – di quello che «è» Sempre e che mai «è divenuto» o Sulaj-squarcio«avvenuto»).
Ma è proprio, e sempre, così? Il Quadrato in Sé non avviene in nessun quadrato? E come posso io disegnarne uno alla lavagna se non passando per un disprezzo preliminare dell’In Sé? E viceversa: come posso io anche solo a parole ipotizzare un «in sé» qualunque, se non sono abbastanza schifato dalle sue rappresentazioni, più o meno alla moda?

L’«inizio», il «principio», l’incipit Vita nova – è necessariamente una creazione dal nulla? o non è piuttosto, come vuole Platone, il riconoscimento di presenze «increate», le Idee, a dare il la al nostro pensiero – a darlo sin dal principio sorgendo al pensiero come «ricordi»… di ciò che non è mai accaduto, di quell’Inattuale che può essere solo ricordato, che può venire all’esistenza solo in un «memento», ma sì: solo in un furioso «memento mori» che insorge contro quello che «vede»?

Questione antica, questione moderna – da dove a noi questa incognita che siamo soliti chiamare il pensiero, il cogito (a prescindere se ergo sum)? E da dove a noi, in subordine, anche questa stramba platonacea che si chiama filosofia pure quando le accade di pensare contro Platone e la sua dottrina dell’anamnesi, del riconoscimento?

Il nuovo, l’iniziale, non è semplicemente il «prima» che, col tempo, invecchia e ha solo da farsi riconoscere dal «successivo» come suo antefatto. Il nuovo, ci dice qui Deleuze sulla scorta di Nietzsche, è al di là e contro ogni possibile riconoscimento. Il nuovo fa oltraggio a ogni anamnesi, platonica o psicoanalitica. Il nuovo è davvero nuovo, solo se scatena un’insurrezione contro ogni forma, nascosta o palese, di riconoscimento, di ricordo, di rappresentazione. Il nuovo è nuovo solo se la sua «novità» è irriconoscibile. E, perché no?, irriconoscente, ingrata. Anzi: gratuitamente ingrata proprio a chi, l’Altra, la Vecchia, che si lascia così facilmente misconoscere e disprezzare perfino dall’ultimo arrivato.

Già, è arrivato anche lui al suo inizio: ecco, ancora un istante, et voilà: ora pensa, ora misconosce anche lui l’Altra, ora rigetta la Vecchia. Eccolo: ora ripudia Eco, si tappa le Boligan-addioorecchie alle sue libidinose profferte – incipit Vita Nova.
Non si dà mai il dovuto riguardo al disprezzo di Narciso per Eco, mai si presta la dovuta attenzione alla sua crudele indifferenza alle provocazioni della Ninfa. Eppure, il mito parla chiaro: la storia di Narciso non comincia allo specchio – questa non è che la scena finale del Dramma. Il Dramma comincia col misconoscimento dell’Altra, la quale a sua volta è già passata per la trafila di una «gelosia divina» ed è ridotta senza corpo, ridotta allo stato invisibile, senza Immagine.

È questo il Problema narcisistico. Tutto il resto sono chiacchiere. Il problema è che Narciso disprezza tutto ciò che non immagina. Il problema è che Narciso è in guerra con l’invisibile, dacché le parole di Eco lo hanno «turbato», e perciò tanto più è inconsapevole d’essere preso, suo malgrado, nella ripetizione di un «pensiero senza immagine», di un cogitandum – dice Deleuze –, quanto più si guarda e si riguarda, vede e vuole essere visto: (lui non lo sa più) ma lo fa solo per scongiurarlo visibilmente, solo per screditarlo manifestamente, quel «cogitandum» senza corpo, quel Quadrato là che non si vede. E quanto più sensibilmente gli sembrerà di averlo risolto nella «folle visione» di quell’altro (nessun altro che un riflesso di Se Stesso), tanto più sonora sarà la sua disfatta – tanto più insostanziale quanto più alle dipendenze oscure della trimetilamina dei suoi sogni.

Tu che non puoi fare a meno di esibirti sulla pubblica piazza, tu funambolo di Nietzsche, tu pagliaccio del Circo dei Sapienti, tu devoto di Kafka, continui a dare un nome differente alla solita strada che fai tutti i (santi) giorni. Lo vedi quel campanile? Un giorno passi di qui e lo chiami «Torre di Babele». Il giorno dopo ripassi e dici che è «Noè ubriaco», così ubriaco che barcolla.
Tu non riconosci il Campanile! Tu non riconosci quello che sulla solita strada incontri tutti i giorni! Tu ripeti un’antica misconoscenza, un vecchio cocciuto «ignoro», una ribelle «novità», ingrata e irriconoscente! Tu ripeti ostinatamente il disprezzo per l’invisibile che ti assalì nel primo degli inizi, in quell’Inizio che tuttora continui a iniziare ogni giorno, punto e a capo. Tu ripeti, a prescindere e comunque, l’animosità, il θυμός, l’eccitazione, l’esaltazione, l’antagonismo e il conflitto dell’Inizio!

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Perché l’Inizio fu una «discordanza», una presa di distanza dalle filastrocche e dalle ninnananne che ti cantava la Vecchia – una rivolta contro la sua Parola, un disprezzo per le lusinghe di Eco. Inizio dopo inizio, questa Lingua, la Fama, la Vecchia, è diventata un muro! Il muro contro cui vanno a sbattere tutte le tue immagini del Passato. Tutta l’«immediatezza» dell’Essere s’infrange su questa Roccia che non ride. E insorge e schiuma di rabbia e di rivolta: ora, il pensiero è costretto a pensare! Costretto a fare i conti col muro… e con l’annichilimento di tutte le sue immagini.

Questione antica, questione moderna – la sempre attuale, l’Inattuale: quella che mai è stata una questione, ma sempre la Questione di vita e di morte. O meglio: la Questione di Eros e Thanatos, la Dubitazione Perenne, la Scommessa – sfidare la Morte e perché? Niente di meno che «per innalzare la necessità assoluta di un atto di pensare, di una passione di pensare», di una libido (finalmente ci siamo!) presentita fin da subito più intima e familiare al nostro essere di quanto non ci sia poi divenuta la nostra stessa faccia allo specchio? Se vi serve un testimone, chiamatemi: si può essere pazzi fino a questo punto! Essere filosofi così avventurosi da mettere in questione ciò che la filosofia s’affanna da sempre a eludere.
La Questione rivoluzionaria – quella impostaci da Nietzsche, là dove giunge a un tale disprezzo di ogni voce del Passato, da pensare la Novità come ciò che si dà solo nell’Eterno Picasso-donna-nuda-in-poltronaRitorno di un «Passato» nudo e crudo, spoglio di ogni idolatria, di ogni storia, di ogni avvenire, di ogni attributo: Puro Volere, Desiderio senza oggetto.

Rivoluzione: distruggere ciò che la Ripetizione, quanto più automatica, tanto più dà per scontato – distruggere i presupposti, la malafede, del Filosofo, ma egualmente dell’Artista e dello Scienziato, per riguadagnare le altezze di un pensiero che pensa Se Stesso, idealmente accecato allo zenit del suo stesso splendore.
Solo per questa via è possibile, secondo Deleuze, risalire all’Incontro con il Segno come al luogo degli Inizi e delle Novità. All’Incontro con il Segno su cui si schianta la spensieratezza del pensiero. All’Incontro casuale con ciò che lo costringe a elevarsi di potenza, a fare i conti col muro del linguaggio, a ricusare le caramelle con cui quello lo vorrebbe addomesticare al buonsenso comune, o in ogni caso a una «filosofia di vita».

Qual altra via resta, allora, in quell’Incontro Iniziale, ai nostri sensi? – quale, se non quella di farsi (in malafede) «metafisici»? di trascendere cioè tutti i quadrati sensibili, per lanciarsi nel «folle volo» al di là dell’Immaginazione? Ma perché? Per andare dove?
Rivoluzione: andare (senza scopo) dove il Problema li traghetta, alla fonte stessa della sensibilità, là dove la Questione (o è amore o è morte!) li richiama, là dove non è più in questione il tale o talaltro fatto del Passato – ma l’essere del Passato, il Passato di tutti i tempi, la Questione, il Dramma nudo e crudo, senza corpo.

Perciò, se vi manca un testimone, chiamate pure me in tribunale: si può, eccome, essere così pazzi da rinnovare sempre e solo quella Questione, anche quando non c’entra. Così pazzi da essere sempre in discordia, e perfino con la propria memoria! – per riassaporare, ancora una volta, un sorso di Lete.
Perché l’Oblio ha la sua memoria, e il Lete la sua alêthé – perfino la Rimozione di cui parlano i Dottori lascia un suo Segno: il segno del Confine, oltre il quale si passa solo facendo oltraggio alla propria memoria «storica». E, come il salmone, nuotando controcorrente.
Rivoluzione: pensare (a pazziella) una «metastoria» dell’Essere. Un’altra «platonacea», anche se a prima vista pare pensata contro Platone.
State a sentire!

***

Mirò-meraviglie-con-variazioni

Quando Nietzsche distingue la creazione dei valori nuovi e il riconoscimento dei valori costituiti, la distinzione non va certamente intesa in senso relativo e storico, come se i valori costituiti fossero stati nuovi al loro apparire, e come se i nuovi avessero semplicemente bisogno di tempo per affermarsi.
Si tratta in verità di una differenza formale e essenziale, poiché il nuovo resta sempre nuovo, nel suo potere di cominciamento e di rinunciamento, allo stesso modo che il costituito era costituito sin da principio, anche se occorreva del tempo empirico per riconoscerlo.
Ciò che si costituisce nel nuovo non è per l’appunto il nuovo. Difatti ciò che è proprio del nuovo, in altri termini la differenza, è di sollecitare nel pensiero forze che non sono quelle del riconoscimento, né oggi né mai, potenze di un ben diverso modello, in una terra incognita mai riconosciuta né riconoscibile.

E da quali forze viene il nuovo nel pensiero, da quale natura maligna e da quale cattiva volontà, da quale crollo centrale che spoglia il pensiero della sua «inneità», e lo tratta a ogni momento come qualcosa che non è sempre esistito, ma che tutt’a un tratto comincia, volto-sengatocostretto, e a forza?
Al confronto, risultano irrisorie le lotte volontarie per il riconoscimento. Non c’è lotta se non sotto un senso comune, e intorno a valori costituiti, per attribuirsi o farsi attribuire valori in corso (onori, ricchezze, potere). È una strana lotta delle coscienze per la conquista del trofeo costituito dalla Cogitatio natura universalis, il trofeo del riconoscimento e della rappresentazione pura [fondata sul presupposto cartesiano che il «pensiero» è ripartito universalmente nella natura di tutti gli uomini: a ciascuno il suo cogito]. Nietzsche rideva al solo pensiero che potesse essere questo il senso della sua «volontà di potenza», e definiva «operai della filosofia» non solo Hegel, ma anche Kant, in quanto la loro filosofia restava segnata dal modello indelebile del riconoscimento. […]

Se osservi, tra gli oggetti sensibili alcuni non invitano l’intellezione a indagare, perché basta il giudizio che ne dà la sensazione, altri invece la sollecitano in tutti i modi a indagare, perché la sensazione non offre conclusioni sane. – È chiaro – rispose – che stai parlando degli oggetti in prospettiva e di quelli dipinti a chiaroscuro. – Non hai afferrato bene – dissi – il mio pensiero…
(Platone, Repubblica, 7: 523b ss.).

Il testo platonico distingue dunque due specie di cose: quelle che lasciano il pensiero tranquillo, e (come dirà Platone in seguito) quelle che costringono a pensare. Le prime Rodin-pensatoresono gli oggetti di riconoscimento in cui il pensiero con tutte le sue facoltà può trovare pieno impiego, può applicarsi a piacimento, ma tutto questo non ha nulla a che fare col pensare. Il pensiero non è riempito se non di un’immagine di sé, in cui si riconosce quanto più riconosce le cose: un dito, una tavola, buongiorno Teeteto.
Di qui la domanda dell’interlocutore di Socrate: quando non si riconosce, quando si stenta a riconoscere, si pensa veramente?

L’interlocutore sembra già cartesiano. Ma è chiaro che l’incertezza non ci fa uscire dal punto di vista del riconoscimento, e così non ispira se non uno scetticismo relativo, oppure un metodo generalizzato a patto che il pensiero abbia già la volontà di riconoscere ciò che distingue essenzialmente la certezza dal dubbio.

Si danno cose dubbie e cose certe, ma sia le une che le altre presuppongono la buona volontà del pensatore e la buona natura del pensiero concepite come ideale di riconoscimento (la pretesa affinità con il vero, la philìa che predetermina a un tempo l’immagine del pensiero e il concetto della filosofia). E al pari delle cose dubbie, le cose certe non costringono a pensare. Il fatto che gli angoli di un triangolo siano uguali a due angoli retti, presuppone il pensiero, la volontà di pensare al triangolo, e anche di pensare ai suoi angoli: Cartesio notava che non si può negare tale uguaglianza se la si pensa, ma che si può certo pensare, anche al triangolo, senza pensare a tale uguaglianza.

Tutte le verità di questo tipo sono ipotetiche, in quanto sono incapaci di far nascere l’atto di pensare nel pensiero, in quanto presuppongono tutto ciò che è in questione. In verità, i concetti non designano altro che possibilità. Manca loro una provocazione, come surreal-maschera-triangolipotrebbe essere la necessità assoluta, cioè una violenza originaria fatta al pensiero, una estraneità, un’animosità che sola lo farebbe uscire dal proprio stupore naturale o dalla propria eterna possibilità: fintantoché non vi sia pensiero se non involontario, suscitato e costretto nel pensiero, è tanto più necessario assolutamente che esso nasca, per effrazione, dal fortuito nel mondo.

Ciò che è primo nel pensiero, è l’effrazione, la violenza, il nemico, e nulla presuppone la filosofia, tutto muove semmai da una misosofia. Non si può contare sul pensiero per installarvi la necessità relativa di ciò che esso pensa, ma viceversa sulla contingenza di un incontro con ciò che costringe a pensare, per levare e innalzare la necessità assoluta di un atto di pensare, di una passione di pensare.
Le condizioni di una vera critica e di una vera creazione sono le stesse: distruzione dell’immagine di un pensiero che si auto-presuppone, genesi dell’atto di pensare nel pensiero stesso.

C’è nel mondo qualcosa che costringe a pensare. Questo qualcosa è l’oggetto di un incontro fondamentale, e non di un riconoscimento. Ciò che è incontrato, può essere Socrate, il tempio o il demone, e può essere colto sotto tonalità affettive diverse, quali l’ammirazione, l’amore, l’odio, il dolore. Ma nel suo primo carattere, e sotto qualsiasi tonalità, esso può essere solo sentito, e in tal senso si oppone al riconoscimento.
Il sensibile nel riconoscimento non è affatto ciò che può essere solo sentito, ma ciò che si riferisce direttamente ai sensi in un oggetto che può essere ricordato, immaginato o concepito. Il sensibile non è soltanto riferito a un oggetto che può essere altro che sentito, ma può essere a sua volta rimirato mediante altre facoltà. Esso presuppone dunque l’esercizio dei sensi, e l’esercizio delle altre facoltà in un senso comune.

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L’oggetto dell’incontro, invece, fa realmente nascere la sensibilità nel senso, non è un aisthetón [percepibile], ma un aisthetéon [che s’impone alla percezione, che deve essere percepito, che non si può fare a meno di percepire], non una qualità, ma un segno, non un essere sensibile, ma l’essere del sensibile, non il dato, ma ciò per cui il dato è dato, e inoltre è l’insensibile in un certo senso, proprio dal punto di vista del riconoscimento, ossia dal punto di vista di un esercizio empirico in cui la sensibilità non coglie che ciò che potrà essere colto anche mediante altre facoltà, e si riferisce nella forma di un senso comune a un oggetto che deve essere appreso anche da altre facoltà. La sensibilità, in presenza di ciò che può essere solo sentito (l’insensibile al tempo stesso) si trova dinanzi a un limite proprio – il segno – e s’innalza a un esercizio trascendente – l’ennesima potenza. E qui il senso comune non ha più la funzione di limitare l’apporto specifico della sensibilità alle condizioni di un lavoro congiunto [di tutte le facoltà], ma la sensibilità entra ora in un gioco discordante in cui i suoi organi diventano metafisici.

Ciò che può essere solo sentito (il sentiendum o l’essere del sensibile) ha come secondo carattere quello di turbare l’anima, di renderla «perplessa», cioè di costringerla a porre un problema, come se l’oggetto dell’incontro, il segno, fosse portatore di problemi – come mano-surrealistase costituisse problema.
In conformità con altri testi platonici, si deve qui identificare il problema o la domanda con l’oggetto singolare di una Memoria trascendentale, che renda possibile un apprendimento in questo campo cogliendo ciò che può essere solo ricordato?
Tutto sembra indicarlo. È vero tuttavia che la reminiscenza platonica pretende di cogliere l’essere del passato, immemoriale o memorandum, al tempo stesso colpito da un oblio essenziale, conforme alla legge dell’esercizio trascendente che vuole che ciò che può essere solo ricordato sia anche l’impossibile da ricordare (nell’esercizio empirico).

Esiste una grande differenza tra l’oblio essenziale e un oblio empirico. La memoria empirica si rivolge a cose che possono e devono anche essere colte in modo diverso: quel che ricordo, devo averlo visto, inteso, immaginato, o pensato. Il dimenticato, in senso empirico, è ciò che non si giunge a riafferrare con la memoria quando lo si cerca una seconda volta (è troppo lontano, l’oblio mi separa dal ricordo o lo ha cancellato). Invece, la memoria trascendentale coglie ciò che già la prima volta, sin dalla prima volta, può essere solo ricordato: non un passato contingente, ma l’essere del passato come tale e del passato di ogni tempo.

Obliata, la cosa appare così nella sua verità alla memoria che l’apprende essenzialmente, e non si rivolge alla memoria senza rivolgersi all’oblio nella memoria. Il memorandum è anche l’immemorabile, l’immemoriale. L’oblio non è più un’impotenza contingente che ci separa da un ricordo a sua volta contingente, ma esiste nel ricordo essenziale come l’ennesima potenza della memoria rispetto al suo limite o a quanto può essere solo ricordato.

È così anche per la sensibilità: all’insensibile contingente, troppo piccolo e troppo lontano per i nostri sensi nell’esercizio empirico, si contrappone un insensibile essenziale, che si confonde con ciò che può essere solo sentito dal punto di vista Brauner-Alchetrondell’esercizio trascendente.
Ecco dunque che la sensibilità, costretta dall’incontro a sentire il sentiendum, costringe a sua volta la memoria a ricordarsi del memorandum, di ciò che può essere solo ricordato.
E infine, come terzo carattere, la memoria trascendentale costringe a sua volta il pensiero ad afferrare ciò che può essere solo pensato, il cogitandum, il noetéon, l’Essenza: non l’intellegibile, poiché quest’ultimo è ancora il modo in cui si pensa ciò che può essere altro che pensato, ma l’essere dell’intellegibile come ultima potenza del pensiero, l’impensabile stesso.

Dal sentiendum al cogitandum, si è dispiegata la violenza di ciò che costringe a pensare. Ogni facoltà è uscita dai suoi cardini. Ma cosa sono i cardini, se non la forma del senso comune che fa ruotare e convergere tutte le facoltà? Ciascuna, da parte sua e nel proprio ordine, ha spezzato la forma del senso comune che la tratteneva nell’elemento empirico della doxa, per raggiungere l’ennesima potenza come l’elemento del paradosso nell’esercizio trascendente. In luogo della convergenza di tutte le facoltà, che contribuiscono allo sforzo comune di riconoscere un oggetto, si assiste a uno sforzo divergente, in quanto ciascuna è posta in presenza di ciò che le è «proprio» in ciò che la riguarda essenzialmente.
Discordia delle facoltà, catena di forza e miccia in cui ciascuna affronta il proprio limite, e non riceve dall’altra (o non comunica all’altra) se non una violenza che la pone di fronte al suo elemento proprio, come al disparato o all’incomparabile.

(Deleuze, Differenza e ripetizione)