Il pensiero simbolico non è di dominio esclusivo del bambino, del poeta o dello squilibrato: esso è connaturato all’essere umano, precede il linguaggio e il ragionamento discorsivo. Il simbolo rivela determinati aspetti della realtà – gli aspetti più profondi – che sfuggono a qualsiasi altro mezzo di conoscenza.
Le immagini, i simboli, i miti, non sono creazioni irresponsabili della psiche; essi rispondono a una necessità ed adempiono a una funzione importante: mettere a nudo le modalità più segrete dell’essere.
Ne consegue che il loro studio ci permette di conoscere meglio l’uomo, l’«uomo tout court», quello che non è ancora sceso a patti con le condizioni della storia. Ogni essere storico porta con sé una grande parte dell’umanità prima della Storia.
Questo dato, certo, non è mai stato dimenticato, nemmeno ai tempi più inclementi del positivismo: chi meglio di un positivista poteva sapere che l’uomo è un «animale», definito e governato da istinti identici a quelli dei suoi fratelli, gli animali? Constatazione esatta, però parziale, schiava di un piano di riferimento esclusivo.
Oggi si comincia a vedere che la parte antistorica di ogni essere umano non affonda, contrariamente a quanto si pensava nel XIX secolo, nel regno animale e, in fin dei conti, nella «Vita»; anzi, al contrario, devia e si innalza ben al di sopra di essa: questa parte astorica dell’essere umano porta, come una medaglia, l’impronta del ricordo di un’esistenza più ricca, più completa, quasi beatifica.
Quando un essere storicamente determinato, ad es. un occidentale dei nostri giorni, si lascia invadere dalla parte non storica di sé (cosa che gli capita molto più spesso e molto più radicalmente di quanto immagini), ciò non avviene necessariamente per regredire allo stadio animale dell’umanità, per ridiscendere alle fonti più profonde della vita organica: molte volte egli ritrova, tramite le immagini e i simboli che mette in opera, uno stadio paradisiaco dell’uomo primordiale (checché ne sia dell’esistenza concreta di costui, in quanto questo «uomo primordiale» si rivela soprattutto essere un archetipo impossibile da «realizzare» pienamente in una qualsivoglia esistenza umana).
Sfuggendo alla sua storicità l’uomo non abdica alla propria qualità di essere umano per perdersi nell’«animalità»; egli ritrova il linguaggio e, a volte, l’esperienza di un «paradiso perduto».
I sogni, le fantasticherie, le immagini delle sue nostalgie, dei suoi desideri, dei suoi entusiasmi, ecc. sono tutte forze che proiettano l’essere umano storicamente condizionato in un mondo spirituale infinitamente più ricco rispetto al mondo chiuso del suo «momento storico».
A detta dei surrealisti chiunque può diventare poeta: basta sapersi abbandonare alla scrittura automatica. Questa tecnica poetica si giustifica perfettamente in termini psicologici. L’«inconscio», come viene chiamato, è di gran lunga più «poetico» – e, vorremmo aggiungere, più «filosofico», più «mitico» – della vita cosciente.
Non sempre è necessario conoscere la mitologia per vivere i grandi temi mitici. Ben lo sanno gli psicologi i quali scoprono le più belle mitologie nelle «rêveries» o nei sogni dei loro pazienti. L’inconscio, infatti, non è popolato solo di mostri: è abitato anche dagli dèi, le dee, gli eroi, le fate e, del resto, i mostri dell’inconscio sono anch’essi mitologici, poiché continuano ad adempiere alle stesse funzioni che hanno avuto in tutte le mitologie; in ultima analisi, aiutano l’uomo a liberarsi, a completare la sua iniziazione.
La brutalità del linguaggio usato da Freud e dai suoi discepoli più ortodossi ha spesso irritato i lettori benpensanti. Di fatto questa brutalità di linguaggio è il risultato di un malinteso: non era la sessualità in quanto tale che irritava, ma l’ideologia costruita da Freud sulla «sessualità pura».
Affascinato dalla sua missione – si riteneva il Grande Illuminato mentre non era che l’Ultimo Positivista – Freud non poteva rendersi conto che la sessualità non è mai stata «pura», che in ogni luogo e in ogni tempo essa è stata una funzione polivalente la cui valenza prima e forse suprema è la funzione cosmologica; che tradurre una situazione psichica in termini sessuali non è affatto umiliarla poiché, all’infuori del mondo moderno, la sessualità è stata ovunque e sempre una ierofania e l’atto sessuale un atto integrale (quindi anche un mezzo di conoscenza).

L’attrazione provata dal bambino per la propria madre e il suo corollario, il complesso di Edipo, sono «scioccanti» solo nella misura in cui sono tradotti pari pari, invece di essere presentati, come bisogna, in quanto Immagini.
Infatti è vera l’Immagine della Madre e non la tale o talaltra madre, hic et nunc, come lasciava intendere Freud. È l’Immagine della Madre che rivela – e sola può rivelare – la sua realtà e funzione, a un tempo cosmologica, antropologica e psicologica.
«Tradurre» le Immagini in termini concreti è un’operazione priva di senso: le Immagini inglobano, certo, tutte le allusioni al «concreto» messe in luce da Freud, ma il reale che esse si sforzano di esprimere non si lascia esaurire da tali riferimenti al «concreto».
L’«origine» delle Immagini è a sua volta un problema senza oggetto: è come se si contestasse la «verità» matematica col pretesto che la «scoperta storica» della geometria è scaturita dai lavori intrapresi dagli Egizi per la canalizzazione del delta del Nilo.
Sul piano filosofico questi problemi dell’«origine» e della «vera traduzione» delle Immagini sono privi di oggetto. Basterà ricordare che l’attrazione materna, interpretata sul piano immediato e «concreto» – come desiderio di possedere la propria madre – non vuol dire nulla di più di quel che dice; al contrario, se si tiene conto del fatto che si tratta dell’Immagine della Madre, questo desiderio vuol dire contemporaneamente molte cose, dal momento che è il desiderio di ritrovare la beatitudine della Materia vivente non ancora «formata», con tutte le sue possibili fratture, cosmologica, antropologica, ecc., l’attrazione che la «Materia» esercita sullo «Spirito», la nostalgia dell’unità primordiale e, di conseguenza, il desiderio di abolire gli opposti, le polarità, ecc.
Orbene, come s’è detto, le Immagini sono per loro stessa struttura polivalenti. Se lo Spirito utilizza le Immagini per cogliere la realtà ultima delle cose è proprio perché questa realtà si manifesta in modo contraddittorio ed è quindi impossibile esprimerla tramite concetti.
È quindi vera l’Immagine in quanto tale, in quanto fascio di significati, mentre non lo è uno solo dei suoi significati oppure uno solo dei suoi numerosi piani di riferimento.
Tradurre un’Immagine in una terminologia concreta, riducendola a uno soltanto dei suoi piani di riferimento, è peggio che mutilarla, significa annientarla, annullarla in quanto strumento di conoscenza.
Non ignoriamo che in certi casi la psiche fissa un’immagine su un unico piano di riferimento, il piano «concreto», però questa è già la prova di uno squilibrio psichico. Esistono indubbiamente casi in cui l’Immagine della Madre non è più che il desiderio incestuoso della propria madre, ma gli psicologi concordano nel vedere, in una tale interpretazione carnale di un simbolo, il segno di una crisi psichica.
Sul piano stesso della dialettica dell’Immagine qualsiasi riduzione esclusiva è aberrante. Nella storia delle religioni abbondano le interpretazioni unilaterali e di conseguenza aberranti dei simboli.
Non si troverà un solo grande simbolo religioso la cui storia non sia un tragico susseguirsi di «cadute» innumerevoli. Non esiste eresia mostruosa, orgia infernale, crudeltà religiosa, follia, assurdità o pazzia magico-religiosa che non sia «giustificata», nel suo principio stesso, da un’interpretazione errata – in quanto parziale, incompleta – di un simbolismo grandioso.
Non è, del resto, necessario chiamare in causa le scoperte della psicologia del profondo o la tecnica surrealista della scrittura automatica per dimostrare il sopravvivere a livello subcosciente, nell’uomo moderno, di una mitologia rigogliosa e, a nostro avviso, dotata di una carica spirituale superiore alla sua vita «conscia».
Non c’è bisogno di ricorrere alla poesia o agli psichismi in crisi per confermare l’attualità e la forza delle Immagini e dei simboli. L’esistenza più sbiadita rigurgita di simboli, l’uomo più «realista» vive d’immagini. Per dirlo una volta di più, i simboli non scompaiono mai dall’attualità psichica: possono mutare d’aspetto, ma la loro funzione rimane identica, è sufficiente togliere le nuove maschere sotto cui si dissimulano.
La «nostalgia» più abietta cela la «nostalgia del paradiso». Oltre alle immagini del «paradiso perduto» che popolano libri e film (non c’è forse chi ha affermato che il cinema è la «fabbrica dei sogni»?), si possono analizzare anche le immagini liberate improvvisamente da una musica qualsiasi, a volte dalla più volgare delle canzonette, e si constaterà che queste immagini esprimono la nostalgia di un passato mitizzato, trasformato in archetipo e che questo «Passato» comporta, oltre al rimpianto di un tempo abolito, mille altri significati: esprime tutto ciò che sarebbe potuto essere e non è stato, la tristezza di ogni esistenza che è solo cessando di essere altra cosa, il rimpianto di non vivere nel paesaggio e nel tempo che la canzone evoca (quali che siano i colori locali o storici: «il buon tempo passato», la Russia delle balalaike, l’oriente romantico, l’Haiti dei film, il milionario americano, il principe esotico, ecc.); in fin dei conti, il desiderio di qualcosa di completamente diverso dall’istante presente, qualcosa, in definitiva, di inaccessibile o di irrimediabilmente perduto: il «Paradiso».
L’elemento importante, in queste immagini della «nostalgia del paradiso», è che esse sono sempre più eloquenti rispetto a ciò che potrebbe esprimere a parole il soggetto che le ha provate. La maggior parte degli esseri umani, del resto, sarebbero incapaci di raccontarle: non è che siano meno intelligenti degli altri, tuttavia sta di fatto che accordano meno importanza al nostro linguaggio analitico.
Di fatto, se una solidarietà totale del genere umano esiste, essa non può essere percepita e «attuata» se non a livello delle Immagini.
Non si è prestata sufficiente attenzione a tali «nostalgie»; in esse si è voluto riconoscere solo dei frammenti psichici privi di significato: al massimo ci si trovava d’accordo nel riconoscere che potevano interessare determinate indagini sulle forme di evasione psichica. Orbene, le nostalgie sono a volte cariche di significati che investono la situazione stessa dell’uomo: a questo titolo esse si impongono sia al filosofo che al teologo.
Soltanto non le si prendeva sul serio, le si trovava «frivole»: l’immagine del Paradiso Perduto sprigionata all’improvviso da un’aria di fisarmonica, che argomento di studio compromettente! Questo vuol dire dimenticare che la vita dell’uomo moderno è tutto un brulichio di miti semidimenticati, di ierofanie decadute, di simboli abbandonati. La dissacrazione ininterrotta dell’uomo moderno ha alterato il contenuto della sua vita spirituale, ma non ha infranto le matrici della sua immaginazione: in zone mal controllate sopravvive tutta una scoria mitologica.
Del resto, la parte più «nobile» della coscienza di un uomo moderno è meno «spirituale» di quanto si sia generalmente portati a credere. Una rapida analisi rivelerebbe in questa sfera «nobile» ed «elevata» della coscienza alcune reminiscenze libresche, molti pregiudizi di ordine diverso (religioso, morale, sociale, estetico, ecc.), alcune idee precostituite sul «senso della vita», sulla «realtà ultima», ecc.
Non si vada là a cercare che fine ha fatto, ad esempio, il mito del Paradiso Perduto, l’immagine dell’Uomo Perfetto, il mistero della Donna e dell’Amore, ecc. Tutto ciò e ben altro ancora si trova – e quanto laicizzato, degradato e truccato! – nel flusso semi-conscio della più terra terra delle esistenze: nelle fantasticherie, nelle malinconie, nel libero gioco delle immagini durante le «ore vuote» della coscienza (per la strada o nella metropolitana, ecc.), nelle distrazioni e nei divertimenti d’ogni sorta. Solo che, ripetiamo, questo tesoro mitico giace lì, «laicizzato» e «modernizzato». A Immagini di questo tipo è successo quel che è accaduto, come ha mostrato Freud, alle allusioni troppo scoperte a realtà di ordine sessuale: hanno cambiato «forma». Per garantirsi la sopravvivenza, le Immagini si sono fatte «familiari».
Non per questo è diminuito il loro interesse, poiché queste immagini degradate offrono il punto di partenza possibile per il rinnovamento spirituale dell’uomo moderno. È della massima importanza, pensiamo, ritrovare tutta una mitologia, se non una teologia, dissimulata nella vita più «qualunque» dell’uomo moderno: sta a lui risalire la corrente e riscoprire il significato profondo di tutte quelle immagini appassite e di tutti quei miti degradati.
Non ci si venga a dire che queste scorie non interessano più all’uomo moderno, che esse appartengono a un «passato di superstizione» fortunatamente liquidato dal XIX secolo, che va bene per i poeti, i bambini e la gente che viaggia in metropolitana rimpinzarsi di immagini e di nostalgia ma, per pietà!, si lasci che la gente seria continui a pensare e a «fare la storia»: una separazione del genere tra «le cose serie della vita» e le «fantasticherie» non corrisponde alla realtà.
L’uomo moderno è libero di disprezzare le mitologie, tuttavia ciò non gli impedirà di continuare a nutrirsi di miti decaduti e di immagini degradate. La più terribile crisi storica del mondo moderno – la seconda guerra mondiale e tutte le conseguenze che ha portato con sé e si è trascinata dietro – ha dimostrato a sufficienza che pensare di sradicare miti e simboli è pura illusione.
Anche nella «situazione storica» più disperata (nelle trincee di Stalingrado, nei campi di concentramento nazisti e sovietici), degli uomini e delle donne hanno cantato romanze, ascoltato delle storie (sono giunti al punto di sacrificare una parte della loro magra razione per offrirsi questo piacere) e quelle storie non facevano che trasmettere dei miti, quelle romanze erano cariche di «nostalgie».
Tutta questa parte, essenziale e imprescindibile dell’uomo, che si chiama l’immaginazione nuota in pieno simbolismo e continua a vivere miti e teologie arcaici.
Sta all’uomo moderno, dicevamo, «risvegliare» questo inestimabile tesoro di immagini che egli porta con sé: risvegliare queste immagini per contemplarle nella loro verginità e assimilare il loro messaggio. La saggezza popolare ha espresso a più riprese l’importanza dell’immaginazione per la salute stessa dell’individuo, per l’equilibrio e la ricchezza della sua vita interiore. In certe lingue moderne chi è «privo di immaginazione» è da compiangere, viene considerato un essere limitato, mediocre, triste, infelice.
Gli psicologi, Jung in primo luogo, hanno mostrato fino a che punto i drammi del mondo moderno derivino da un profondo squilibrio della psiche, sia individuale che collettiva, squilibrio in buona parte provocato da una sempre più grande sterilizzazione dell’immaginazione.
«Avere immaginazione» significa godere di ricchezza interiore, di un flusso ininterrotto e spontaneo di immagini. Spontaneità, però, non significa invenzione arbitraria.
Sul piano etimologico, «immaginazione» è solidale con imago, «rappresentazione, imitazione» e con imitor, «imitare, riprodurre». Per una volta l’etimologia riecheggia sia le realtà psicologiche che la verità spirituale. L’immaginazione imita dei modelli esemplari – le immagini – li riproduce, li riattualizza, li ripete incessantemente. Avere immaginazione è vedere il mondo nella sua totalità, giacché è potere e missione delle Immagini mostrare tutto ciò che rimane refrattario al concetto.
Ci si spiega allora la disgrazia e la rovina di chi è «privo di immaginazione»: un tale individuo è tagliato fuori dalla realtà profonda della vita e della sua stessa anima.
(Eliade, Immagini e simboli)