Se il pianeta non parla, non è soltanto perché è reale, ma perché non ha il tempo, alla lettera – non ha questa dimensione. Perché?
Perché è rotondo – il corpo circolare può fare tutto quello che vuole…
Vorrei oggi proporvi un piccolo schema, per illustrare i problemi sollevati dall’io e dall’altro, dal linguaggio e dalla parola.
Questo schema non sarebbe uno schema se presentasse una soluzione. Non è neppure un modello. È semplicemente un modo per fissare le idee, stante l’infermità del nostro spirito discorsivo.
Non c’è bisogno di rievocare, perché penso che vi sia abbastanza familiare, che cosa distingua l’immaginario e il simbolico.
Che cosa sappiamo dell’io? L’io è reale, è una luna, o è una costruzione immaginaria?
Partiamo dall’idea, che vi ho ripetuto un sacco di volte, che non si coglie nulla della dialettica analitica se non si pone che l’io è una costruzione immaginaria. Non gli toglie niente, al povero io, il fatto di essere immaginario – direi addirittura che è quanto ha di buono. Se non fosse immaginario, non saremmo degli uomini, saremmo delle lune. Il che non significa che basta avere questo io immaginario per essere degli uomini. Possiamo ancora essere quella cosa intermedia [tra la luna e l’uomo] che si chiama un pazzo. Un pazzo è precisamente colui che aderisce a questo immaginario, puramente e semplicemente.
Ecco di che cosa si tratta.
S è la lettera S, ma è anche il soggetto, il soggetto analitico, cioè non il soggetto nella sua totalità. Si passa il tempo a romperci l’anima dicendo che lo si prende nella sua totalità. Perché sarebbe totale? Non se ne sa niente. Ne avete già incontrati degli esseri totali? Forse è un ideale. Io, non ne ho mai visti. Io, non sono totale. Voi neanche. Se si fosse totali, si starebbe ciascuno per i fatti propri, totale, non si sarebbe qui, insieme, a cercare di organizzarci, come si suol dire.
È il soggetto, non nella sua totalità, ma nella sua apertura. Come al solito, non sa cosa dice. Se sapesse quello che dice, non sarebbe qui. È qui, in basso a destra.
Beninteso, non è lì che si vede – non se ne dà mai il caso – neppure alla fine dell’analisi. Si vede in a, ed è per questo che ha un io. Può credere che sia questo io a essere lui, tutti solo a questo punto, e non c’è modo di uscirne.
L’analisi d’altra parte ci insegna che l’io è una forma assolutamente fondamentale per la costituzione degli oggetti. In particolare, è nella forma dell’altro speculare che vede colui che, per ragioni strutturali, chiamiamo il suo simile. La forma dell’altro ha il più stretto rapporto con l’io, gli è sovrapponibile, e lo scriviamo con a’.
Abbiamo dunque il piano dello specchio, il mondo simmetrico degli ego e degli altri omogenei. Va distinto da questo un altro piano, che chiameremo il muro del linguaggio.
È a partire dall’ordine definito dal muro del linguaggio che l’immaginario prende la sua falsa realtà, che è pur sempre una realtà verificata. L’io come l’intendiamo noi, l’altro, il simile, tutti questi immaginari sono degli oggetti. Certo, non sono omogenei alle lune – e rischiamo continuamente di dimenticarlo. Ma sono degli oggetti perché sono nominati come tali in un sistema organizzato, che è quello del muro del linguaggio.
Quando il soggetto parla con i suoi simili, parla nel linguaggio comune, che tratta gli io immaginari non come cose semplicemente ex-sistenti, ma reali. Non potendo sapere che cosa c’è nel campo del dialogo concreto, ha a che fare con un certo numero di personaggi, a’, a”. In quanto il soggetto li mette in relazione con la propria immagine, coloro a cui parla sono anche coloro a cui si identifica.
Detto questo, non va omessa la nostra supposizione di base, nostra in quanto analisti – crediamo che ci siano altri soggetti oltre a noi, che ci siano rapporti autenticamente intersoggettivi. Non ci sarebbe alcuna ragione di pensarlo se non avessimo la testimonianza di ciò che caratterizza l’intersoggettività, cioè che il soggetto può mentirci. È la prova decisiva. Non dico che sia l’unico fondamento della realtà dell’altro soggetto, ne è la prova. In altri termini, ci rivolgiamo di fatto a degli A1, A2, che sono ciò che non conosciamo, degli autentici Altri, dei veri soggetti.
Essi sono dall’altra parte del muro del linguaggio, dove in linea di principio non li raggiungo mai. Fondamentalmente è loro che ho di mira ogni volta che pronuncio una vera parola, ma raggiungo sempre a’, a”, per riflessione. Miro sempre ai veri soggetti, e mi devo accontentare di ombre. Il soggetto è separato dagli Altri, i veri, a causa del muro del linguaggio.
Se la parola si fonda sull’esistenza dell’Altro, il vero, il linguaggio è fatto per rinviarci all’altro oggettivato, all’altro di cui possiamo fare tutto ciò che vogliamo, ivi compreso pensare che è un oggetto, cioè che non sa quel che dice. Quando ci serviamo del linguaggio, la relazione con l’altro si svolge sempre in questa ambiguità.
In altri termini, il linguaggio è altrettanto fatto per fondarci nell’Altro, che per impedirci radicalmente di comprenderlo. Ed è appunto di questo che si tratta nell’esperienza analitica.
Il soggetto non sa quello che dice, e per le migliori ragioni, perché non sa che cos’è. Ma egli si vede. Si vede dall’altro lato, in modo imperfetto, com’è noto, in ragione del carattere fondamentalmente incompiuto dell’Urbild speculare [dell’immagine narcisistica primitiva], che è non solamente immaginario, ma illusorio.
Su questo si basa l’inflessione pervertita che prende da qualche tempo la tecnica analitica. In quest’ottica, si vorrebbe che il soggetto aggregasse a sé tutte le forme più o meno frammentate e frammentanti, di ciò in cui si misconosce. Si vorrebbe che riunificasse tutto ciò che ha vissuto effettivamente nello stadio pregenitale, le membra sparse, le pulsioni parziali, la successione degli oggetti parziali – pensate al San Giorgio del Carpaccio che sta per infilzare il drago, e tutt’attorno le piccole teste decapitate, le braccia, ecc. Si vorrebbe permettere, a questo io, di prender forza, di realizzarsi, di integrarsi – il piccolo caro.

Se si persegue direttamente questo scopo, se ci si regola sull’immaginario e sullo stadio pregenitale, si va inevitabilmente a finire nel tipo di analisi in cui la consumazione degli oggetti parziali avviene con la mediazione dell’immagine dell’altro.
Senza sapere perché, gli autori che prendono questa strada arrivano tutti alla stessa conclusione – l’io non può riunificarsi e ricomporsi che per il tramite del simile che il soggetto ha davanti a sé – o dietro, il risultato è lo stesso.
Il soggetto riconcentra il proprio io immaginario essenzialmente nella forma dell’io dell’analista. D’altra parte, questo io non resta solamente immaginario, l’intervento parlato dell’analista è infatti esplicitamente concepito come un incontro da io a io, come una proiezione da parte dell’analista di oggetti precisi. L’analisi, in una prospettiva come questa, è sempre rappresentata e pianificata sul piano dell’oggettività. Si tratta, a quanto si scrive, di far passare il soggetto da una realtà psichica a una realtà vera, ossia a una luna ricomposta nell’immaginario, e per l’esattezza, come non ci si preoccupa neanche di dissimulare, sul modello dell’io dell’analista. Si è abbastanza coerenti da rendersi conto che non si tratta di indottrinare, né di far vedere quel che si deve fare al mondo. È proprio sul piano dell’immaginario che si opera. Per questo nulla sarà più apprezzato di ciò che si situa al di là del linguaggio considerato come illusione, e non come muro – il vissuto ineffabile.
Tra gli esempi clinici citati, ce n’è uno piccolo ma molto grazioso, quello della paziente terrorizzata al pensiero che l’analista sappia che cosa ha nella borsa. Lo sa e nello stesso tempo non lo sa. Tutto quel che può dire a proposito di questa inquietudine immaginaria, l’analista lo trascura. E tutto a un tratto, si coglie che l’unica cosa importante è lì – teme che l’analista le tolga tutto quello che ha nel ventre, cioè il contenuto della borsa, che simbolizza il suo oggetto parziale.
La nozione dell’assunzione immaginaria degli oggetti parziali grazie alla mediazione della figura dell’analista va nel senso di una sorta di Comulgatorio, per usare il titolo che Baltasar Gracián ha dato a un trattato sulla santa eucarestia, va nel senso di una consumazione immaginaria dell’analista.
Singolare comunione – al banco del macellaio, la testa col prezzemolo nel naso, o anche il taglio di culatta, e, come diceva Apollinaire in Le mammelle di Tiresia: Mangia i piedi del tuo analista nella loro salsa: ecco la teoria fondamentale dell’analisi.
Non c’è un’altra concezione dell’analisi che permetta di concludere che essa è altro, e non una ricomposizione di una fondamentale parzializzazione immaginaria del soggetto?
Questa parzializzazione esiste effettivamente. È una delle dimensioni che permettono all’analista di operare per identificazione, dando al soggetto il proprio io. Vi risparmio i particolari, ma certamente l’analista può, attraverso una certa interpretazione delle resistenze, attraverso una certa riduzione della totalità dell’esperienza dell’analisi agli elementi esclusivamente immaginari, riuscire a proiettare sul paziente le differenti caratteristiche del suo io d’analista – e Dio sa che possono differire, e in un modo che si ritrova alla fine dell’analisi.
Quello che ci ha insegnato Freud, è esattamente all’opposto.
Se si formano degli analisti, è perché ci siano soggetti tali in cui l’io sia assente. È l’ideale dell’analisi, che resta, beninteso, virtuale. Non c’è mai un soggetto senza io, un soggetto pienamente realizzato, ma è ciò che bisogna sempre mirare a ottenere dal soggetto in analisi.
L’analisi deve mirare al passaggio di una vera parola, che congiunga il soggetto a un altro soggetto, dall’altra parte del muro del linguaggio. È la relazione ultima del soggetto con un Altro vero, con l’Altro che dà la risposta che non si aspetta, a definire il punto terminale dell’analisi.
Nel corso di tutta l’analisi, a condizione che l’io dell’analista voglia non essere lì, a condizione che l’analista non sia uno specchio vivente, ma uno specchio vuoto, ciò che accade, accade tra l’io del soggetto – è sempre l’io del soggetto che parla, apparentemente – e gli altri. Tutto il progresso dell’analisi non è che lo spostamento progressivo di questa relazione, che il soggetto può in ogni momento cogliere, al di là del muro del linguaggio, come transfert, che è il suo, e in cui non si riconosce.
Questa relazione, non si tratta di ridurla, come qualcuno scrive, bisogna che il soggetto la assuma al suo posto. L’analisi consiste nel fargli prendere coscienza delle sue relazioni, non con l’io dell’analista, ma con tutti quegli Altri che sono i suoi veri interlocutori, e che non ha riconosciuto.
Il soggetto deve progressivamente scoprire a quale Altro si rivolge realmente, senza saperlo, e assumere progressivamente le relazioni di transfert al posto in cui è, e dove all’inizio non sapeva di essere.
Ci sono due sensi da dare alla frase di Freud – Wo Es war, soll Ich werden. Questo Es, prendetelo come la lettera S. È lì, sempre lì. È il soggetto. Si conosca o non si conosca. Non è nemmeno la cosa più importante – ha o non ha la parola. Alla fine dell’analisi, è lui che deve avere la parola ed entrare in relazione con i veri Altri. Lì dove l’S era, l’Ich deve essere.
È qui che il soggetto reintegra autenticamente le membra disgiunte e riconosce e riaggrega la sua esperienza.
Può aversi nel corso di un’analisi qualcosa che prenda la forma di un oggetto. Ma questo oggetto, lungi dall’essere ciò di cui si tratta, non è altro che una forma fondamentalmente alienata. È l’io immaginario che gli dà il suo centro e il suo gruppo, ed è perfettamente identificabile con una forma di alienazione, parente della paranoia.
Che il soggetto finisca per credere all’io, è come tale una pazzia. Grazie a Dio, l’analisi ci riesce molto raramente, che però la si spinga in questo senso, ne abbiamo mille prove.
(Lacan, Il Seminario: 2)
***
Il pianeta non ha il tempo perché non parla – il tempo è nel «dire», il tempo che passa… passa soltanto nelle nostre rappresentazioni simboliche. Non è reale, in quanto tutto ciò che è reale – immediatamente reale, reale in sé – non ha niente da dire, perché può tutto quello che vuole. Il Reale è muto Volere ineffabile.
Anche le immagini e le figure ignorano il tempo, e sono (come per es. il quadrato in sé) immutabili – è il «dire» che le rende soggette a traslazione e trasformazione, è solo quando entrano nell’«ordine» della Parola – solo sotto il trattamento del Simbolo – che diventano, come il corvo, così «loquaci» che il buon Apollo, l’«ingenuo» Apollo, finisce per illudersi della stessa illusione di Platone: e cioè, che immagini e figure (in primis quelle «geometriche») siano esse, e non la Parola che le assoggetta al suo «ordine», i traghetti dianoetici alla muta eternità dell’Essere.
Ma è proprio così?
Davvero, le immagini e le figure godono in sé di una «realtà» altrettanto indifferente alla parola quanto lo è la luna dei cieli dell’Essere? O sono, piuttosto, solo la tarda «eredità» (quella più recente, e a noi più vicina) di un’abitudine del linguaggio del nostro Essere, del nostro Passato inconscio, a «mitizzare» le differenze [i miraggi eccitanti] che di volta in volta sottrae alla monotonia della Ripetizione? – e dunque già, da subito, non sarà che esse, fin dal principio, godono di un’altra «realtà» che quella muta in sé della luna e delle stelle? Di una «realtà» intermedia tra il Silenzio e la Parola? Di un Silenzio prossimo a far parlare di Se Stesso?
E dove? quando? – questo Silenzio ci rivolge la parola, se non là dove e quando l’Immagine incanta? là dove lo Sguardo sente che l’Immagine, la Bellezza Muta, è la prima lettera da «dire»?
Oh, il buon Apollo non ce la fece più a sentire nelle orecchie le confidenze del Corvo, e il Traghetto delle sue contemplazioni traballò in mezzo alla corrente.
Grandi emozioni, terremoti e tremori sconvolsero la Memoria della nostra Specie. Il Corvo, tradito da Apollo, passò al servizio di Dioniso. E viceversa Orfeo, una volta fatto a pezzi, tradì Dioniso e passò a suonare la cetra di Apollo. Che rivoluzione! E soprattutto che eccitazione s’impadronì della Tribù, facendone in quello stesso istante una πόλις!
Sino a che, prima ancora d’essere istigato da Platone, qualcuno si chiese: l’immagine della luna è davvero così muta come la luna, o ha con la parola una relazione che tanto più ci è difficile da cogliere, quanto più potente è il fascino che la lunatica Elena la Bella esercita su di noi? Non sarà che le immagini ci stregano a tal punto da occultarci che fungono da grafemi della lingua dell’Inconscio? e che «a partire dall’ordine definito del muro del linguaggio», ovvero che dal momento della loro «giuntura» col Simbolico, esse «prendono un’altra realtà»? una «falsa» realtà – una realtà risorta, ma necessariamente distorta, guastata, dal fallimento dell’immediatezza reale?
Un Regno di mezzo – qualcosa d’intravisto nel fumo d’una nebbia, o d’una sigaretta…?
L’immagine delle «scarpe di papà» è muta, eppure ci dice qualcosa. Se ce lo dice, è perché è al servizio del linguaggio del (Soggetto) profondo, al servizio cioè del linguaggio dell’Altro e della sua Volontà inconscia (l’S, l’Es).
È l’Altro che da dietro le quinte «dirige» il traffico immaginario. Il realmente Altro, il sedicente Lui – in entrambi i poli: il Se Stesso qui «gettato» in basso (seconda stella) a destra, e il Si Stesso lassù in alto, il Despota Impersonale della Langue (il Soggetto di vuolSi così cola dove Si puote ciò che Si vuole).
Anche la «luce» è un’immagine senza tempo, e perciò non parla – come tutte le immagini, la «luce» non passa, perché non ha bisogno di «falsificarsi»: è solo da quando l’Altro alla sua immagine «sovrascrive» un nome di «cosa», che la «luce» tramonta. È la Parola dell’Altro che, da dietro le quinte, le dà un tempo, un ritmo, un «periodo mortifero». È il Denominatore che la «fraziona», ora in «ottavi», ora in «polpette», a seconda del dialetto dell’Es.
Ma certo. Nessuno ci può vietare, a questo punto, di lacanizzare perfino Platone.
Ecco, dunque, di che si tratta…
Si tratta di un muro che non si vede – di un muro parlante che «è» tra tutti noi, di uno «spartiacque» che ci trascina nelle onde del suo Okéanos, dicevano gli orfici (è sottinteso, solo dal giorno che tradirono Dioniso).
Si tratta di una «sostanza» che ci frequenta i timpani, finché non ci assorda al Silenzio. Si tratta di una diabolica angelicità che ci «accomuna» fin dal tempo della Grande Eccitazione che, traballando, ci traghettò dal μῦθος al λόγος – anzi: al διάλογος.
Il muro che divide Piramo e Tisbe, il canneto che separa Enki/Ea da Utnapištim, la tenda di Pitagora, si sente ma non si vede: che altro sarà mai se non il linguaggio del Sentimento? – il linguaggio che «sente» le presenze mute, e che ne ha un tale presentimento da azzardarsi a sottrarle all’Oblio. Il linguaggio del noûs, dicevano i Sapienti prima di Platone – il linguaggio che fiuta, il linguaggio che annusa «presenze» nell’Assenza, il linguaggio che finge il Presente, che se lo finge nel Vuoto, nello Spazio aperto dall’Assenza del Passato, a cui si sovrascrive. Memoria di Specie. Mnemosine. Radice di ciò che il Dottore si diverte a chiamare l’S, anziché l’Es – né più né meno di come lo spiritoso Derrida si compiace a pazziare con la parola differance, ovvero con una differenza che si vede solo se scritta, solo con gli occhi, mentre l’orecchio non la sente. Come dire: il caso simmetrico inverso alla tenda di Pitagora.
Questo insegnava il Maestro: ascolta! – il muro tra di noi non si vede, si sente: ecco perché nessuno s’accorge della sua propria differance, se non nella forma distorta dal verso gracchiante di un Corvo Nero.
Solo tradendosi l’Essere viene a mancare a Se Stesso, e allora si getta seconda stella in basso a destra – e «là», si rimette a essere l’Altro, il Sipario che mai non s’apre – la Caverna cava, la gola di ghùl, dell’Eterno che ascolta solo il suo Silenzio, e obbedisce solo ai richiami del Nulla, senza doverlo ancora chiamare «dio».
Questo intendeva dire Pitagora: ascoltalo! – ché il Muro non si vede, e tuttavia tra Piramo e Tisbe, tra Enki/Ea e Utnapištim, è Amore, Eros, che «parla» attraverso i mattoni della Discordia (Eris).
Intendeva dire: che negli strati linguistici sommersi dalle più recenti crittografie, si possono ancora sentire certe «aritmie» antiche: scansioni di un’arcaica aritmetica sentimentale, le cui pulsazioni sono il Tesoro Nascosto nel più vile dei tre scrigni, forse addirittura nel più blasfemo dei nostri dialetti.
Chiudi gli occhi! – diceva al discepolo. – Chiudi e ascolta il Passato, l’Eterno che ritorna, l’Es che si incanta, a ogni canto «di volta in volta» alienandosi in un periodo mortale, e solo per tenere in vita, di metempsicosi in metempsicosi, l’Altra, l’Ape Regina – la Signora dell’Alveare Umano, la Parola.
Tra le api ronzano più dialetti – l’un contro l’altro armati in una Discordia che non può fare a meno di essere Eterna, come Eterna è la Ferita che si apre nella continuità della Realtà Immediata, allorché da essa si slabbra l’Immagine, la «divina» Mnemosine, la Memoria Involontaria della nostra Specie.
Ma che razza di romanzo è mai questo? – si chiede, e a ragione, il nostro Dottore. Che ne può venir fuori da questa insistenza sull’Immagine, se si continua a non vedere le voci del Muro che è tra di noi? se ancora si rincorrono i frammenti del corpo di Orfeo, fingendo di non riconoscervi i Simulacri che sono? – copie di copie di copie di «cose», di «oggetti di desiderio», di «illusioni» che il desiderio eccitato «falsifica» e «si finge nella mente», di credenze e opinioni che l’Immagine «crea» una volta asservita all’Ordine Simbolico.
Non la luna reale, ma l’immagine della luna ci eccita a dire qualcosa. Non la donna reale (quella che non è mai più discesa dal cielo), ma l’immagine della donna così come ce la immaginiamo nel vuoto lasciato dal miraggio di Afrodite, è così potente da istigarci alla Parola. Elena la Bella o Beatrice, fa lo stesso: è la lingua della Tribù che ne ha fatto una «cosa». È il desiderio della πόλις che ne ha fatto un «oggetto».
L’inganno non è opera dell’Immagine, ma l’Immagine stessa è traslata e trasformata dalla Parola desiderante, dalla Parola «che vuole», dalla Parola a cui qualcosa «è venuto a mancare», e della cui nostalgia l’Immagine non è che un grafema.
Non credere dunque alla «cosa», all’«oggetto», ché è solo un’ombra sul muro della Caverna, solo un mattone nel muro del linguaggio. Questo ripeteva Pitagora al suo allievo più scemo, quello che gli diceva sempre: ma io, io, io signor Maestro, io non… e non finiva mai la frase. Non essere così «ingenuo» da fidarti a occhi chiusi, come Apollo di fronte alla Bellezza di Coronide, perché tra te e Bellezza, tra te e la tua Beatrice prediletta, mio caro Narciso, c’è il Muro della Parola. Tu non lo vedi, è vero: eppure, è tutto ciò che resta, soltanto un’Eco senza corpo, appena questa banda di frequenze in cui risuona un’antica aritmetica: quella d’un mezzo, d’un terzo, e di un ottavo. O forse resta solo il rimpianto, solo il Muro dove si piange una certa polpetta, di cui nessuno sa se era fatta di carne o di sterco. Perché l’Immagine è diavolo e angelo – è muta, ma fa parlare di sé.