
All’inizio del libro VII del dialogo sulla πόλις [la Repubblica], Platone parla, e precisamente nella forma di un μῦθος, della ἀλήθεια. Questo «mito» è noto come il «paragone» platonico della «caverna», a cui si è attribuita una quantità di significati, ma mai quello più semplice ed evidente. Come dice il titolo, in questo «paragone» si parla sì di una caverna, e quindi della dissimulazione e del velamento, ma si parla anche della svelatezza. Questo stesso dialogo di Platone sulla πόλις, che contiene un μῦθος sulla ἀλήθεια, si conclude complessivamente alla fine del libro X con un altro μῦθος, culminante nella saga della λήθη [il mito di Er l’Armeno].
Il mito della λήθη con cui si conclude il dialogo sulla πόλις è talmente ricco e di così ampia portata che già solo per questo motivo non è qui possibile descriverlo. È vero peraltro che qualsiasi descrizione meramente informativa che voglia sostituire un’interpretazione dettagliata appare comunque controproducente. Ma per poterci impegnare in una simile interpretazione ci manca anzitutto l’essenziale, cioè l’esperienza del tratto fondamentale del mito in generale e del suo riferimento alla metafisica di Platone.
La spiegazione dei singoli tratti del μῦθος platonico può avere inizio solo a partire da qui. Siamo dunque costretti a prendere una scorciatoia. Raccogliamo i tratti principali di un disegno appena abbozzato, nell’intento di delineare, almeno da un certo punto di vista, l’aspetto fondamentale dell’insieme.
Ciò equivale a domandare come la λήθη si situi nell’insieme del mito, vale a dire in che maniera tale insieme debba menzionare la λήθη.
L’insieme del mito è coperto e nascosto dall’insieme del dialogo sulla πόλις. Nella πόλις, intesa come sito essenziale dell’uomo storico – sito che svela e vela l’ente nella sua globalità – è essenzialmente presente attorno all’uomo tutto ciò che, nel senso stretto della parola, gli è assegnato, ma che nel contempo gli è anche sottratto […]: assegnato, cioè, come ciò che si riferisce essenzialmente all’essere umano, così che l’uomo si trova immesso e integrato in questo qualcosa che è essenzialmente per lui, ragione per la quale egli deve con-venire con esso affinché la sua essenza rimanga integra.
Ciò che in tal senso è assegnato e si assegna all’uomo, e lo determina, lo chiamiamo, con una parola, la convenienza, ovvero, in greco, δίκη […].
Ora, il permanere all’interno della πόλις è un soggiornare «qua» sulla terra, ἐνθάδε. Tale soggiorno nella πόλις è però di volta in volta un περίοδος θανατοφόρος, una via, cioè un percorso «aprente una prospettiva» che attraversa e circoscrive completamente il periodo di soggiorno sulla terra che è stato assegnato.
Questo percorso attraversante è θανατοφόρος, cioè porta la morte con sé, e quindi conduce alla morte. Tuttavia, tale percorso «mortifero» dell’uomo attraverso il sito essenziale della storia non esaurisce affatto il cammino e il tragitto, cioè in generale l’essere dell’uomo.
Secondo la dottrina di Platone, il passaggio dell’uomo attraverso un βίος, un «corso della vita», non è l’unico, giacché dopo un certo periodo egli ritorna in una nuova forma, per ricominciare da capo il suo corso.
La storia delle religioni definisce tutto ciò «dottrina della trasmigrazione delle anime». Ma anche in questo caso faremmo bene a mantenerci nell’ambito del pensiero greco.
Qui ciò che emerge è anzitutto che col relativo compimento del percorso «mortifero» l’essere dell’uomo non giunge a fine. Ciò significa che in qualche modo, conformemente all’essenza dell’uomo, anche dopo la morte individuale, attorno a lui è presente e rimane qualcosa di essente.
Ecco perché, da ultimo, la meditazione sulla πόλις giunge alla questione: che cosa rimane e circonda di volta in volta ciascuno, una volta giunto al termine (del percorso «mortifero»)? Che cosa circonda l’uomo quando è via dal «qua» della πόλις e si sofferma «là», ἐκεῖ? Che cosa circonda l’uomo, dove è egli prima di intraprendere una nuova via?
Secondo il nostro modo di pensare corrente, cioè «cristiano» nel senso più ampio, con questi interrogativi si è posta la questione dell’«aldilà». Passando per le dottrine giudaico-ellenistiche, il cristianesimo si è ben presto impadronito a modo suo della filosofia platonica, facendo sì che da allora a oggi essa, presentata al tempo stesso come il culmine della filosofia greca, appaia nella luce della fede cristiana. Anche il pensiero precedente Platone e Socrate viene concepito a partire dalla filosofia di Platone, come risulta ancor oggi sia dal fatto che lo si definisce correntemente filosofia «preplatonica», sia dal fatto che i suoi frammenti prendono il nome di «frammenti dei presocratici». Non soltanto nell’interpretazione teologica cristiana, ma anche in seno alla filosofia il pensiero greco appare come lo stadio preparatorio del pensiero cristiano-occidentale.
La prima meditazione storico-metafisica sull’insieme del pensiero occidentale – le lezioni di Hegel sulla storia della filosofia – concepisce infatti la filosofia greca come lo stadio del pensiero immediato, non ancora mediato e non ancora pervenuto a se stesso. Soltanto quest’ultimo, il pensiero certo di se stesso, cioè il primissimo «vero» pensiero nel senso moderno, è anche il pensiero effettivo, rispetto al quale il cristianesimo costituisce lo stadio della mediazione.
Anche là dove, al seguito di Hegel, la storiografia del diciannovesimo secolo conferma tutti i suoi concetti fondamentali, pur rifiutandone nel contempo, con un singolare auto-abbaglio, la «metafisica» per rifugiarsi in «Schopenhauer» e «Goethe», si continua a pensare la filosofia greca in generale, e quella di Platone in particolare, in base all’orizzonte di un platonismo cristiano.

Ciò vale anche per Nietzsche, la cui molto celebrata interpretazione dei filosofi «preplatonici» è platonizzante, cioè schopenhaueriana, dunque assolutamente non greca.
Ma che cosa c’è di più ovvio dell’opinione secondo cui le interpretazioni più adeguate della filosofia di Platone sarebbero quelle che le si avvicinano con l’ausilio di un «platonismo»?
Eppure, questo modo di procedere non è diverso da quello che pretende di «spiegare» la foglia fresca dell’albero in base al fogliame caduto a terra. Una spiegazione greca del pensiero di Platone è la più difficile, non perché esso abbia in sé particolari oscurità e abissi, ma perché le epoche successive, e ancora gli uomini d’oggi, tendono a ritrovare immediatamente in questa filosofia ciò che è loro peculiare, e che dunque è successivo. […]
L’opposizione essenziale iniziale all’ἀ-λήθεια è la λήθη, vale a dire il velamento che, in quanto oblio, è privo di segni e si sottrae. L’ultima parola della grecità che nomina la λήθη nella sua essenza è il μῦθος che conclude il dialogo platonico sull’essenza della πόλις.
Un dialogo che pensa parla continuamente dell’essere dell’ente. Un dialogo di Platone sulla πόλις non può essere quindi una conversazione su una singola πόλις esistente qua e là. Il pensatore pensa ciò che la πόλις è in quanto tale; dice cioè che cos’è e com’è la πόλις nella sua essenza. […]
Si è scoperto che «in senso proprio» la πολιτεία di Platone non è reale in alcun luogo e dovrebbe pertanto essere definita una «utopia», cioè «qualcosa che non ha luogo». Questa scoperta è «corretta», solo che non comprende ciò che ha scoperto. In effetti, ci si imbatte qui nell’idea che «in senso proprio» non c’è luogo in cui l’essere dell’ente sia lì presente nell’ente, per così dire come uno dei suoi elementi.
In tal senso, anche l’essere dovrebbe essere una «utopia». In verità, però, proprio l’essere, ed esso soltanto, è il τόπος di tutto l’ente, sicché la Politeia di Platone non è una «utopia», ma esattamente l’opposto, e cioè il τόπος metafisicamente determinato dell’essenza della πόλις. La Politeia di Platone è memoria dell’essenziale, non un progetto concernente qualcosa di fattuale.
La πόλις è il sito essenziale dell’uomo storico, il «dove» a cui l’uomo inteso come ζῷον λόγον ἔχον [vivente dotato di parola] appartiene, quel «dove» da cui soltanto gli viene assegnata la convenienza nella quale si trova inserito.
Ora, proprio perché la πόλις è quel «dove» nella cui fattispecie ed entro cui la convenienza si svela e si vela, e proprio perché essa è la modalità in cui ha-luogo lo svelarsi-velato della convenienza – di modo che in questo avere luogo l’uomo storico perviene nel contempo alla sua essenza e non essenza –, proprio per ciò definiamo la πόλις (nella quale l’essere dell’uomo si è raccolto nel suo riferimento all’ente nel suo insieme) il sito essenziale dell’uomo storico.
Ogni πολιτικόν, tutto ciò che è «politico», è sempre anzitutto la conseguenza essenziale della πόλις, cioè della πολιτεία.
L’essenza della πόλις, la πολιτεία, non è essa stessa determinata o anche soltanto determinabile in termini «politici». La πόλις è tanto poco qualcosa di «politico», quanto lo spazio stesso è qualcosa di spaziale.
Ma a sua volta la πόλις stessa è solo il polo del πέλειν, cioè la modalità in cui l’essere dell’ente, nel suo svelare e velare, si rende disponibile un «dove» in cui la storia di un’umanità rimane raccolta.
È proprio perché i Greci, nella loro essenza, sono un popolo assolutamente politico – e perché la loro umanità è determinata inizialmente ed esclusivamente dall’essere stesso, cioè dall’ἀλήθεια – proprio perciò solo essi poterono e, anzi, dovettero giungere alla fondazione della πόλις, vale a dire di siti in cui avesse luogo la raccolta e la custodia dell’ἀλήθεια. […]
Ogni πόλις particolare è storicamente sulla terra, ἐνθάδε, qua. Il «corso della vita» dell’uomo percorre un cerchio spazialmente e temporalmente delimitato, ed è una via entro tale circolo, un περίοδος, e precisamente θανατοφόρος, «mortifero», che porta con sé la morte e che quindi a essa conduce.
La morte compie il corso contingente dell’uomo, ma non pone fine al suo essere. Con la morte si verifica un passaggio dal qua, ἐνθάδε, al là, ἐκεῖ. Questo passaggio è l’inizio di un itinerario che a sua volta si compie in un passaggio a un nuovo περίοδος θανατοφόρος.
Ora si rende quindi necessario domandare: che cosa circonda l’essere umano? Che cos’è ciò che rimane per l’uomo dopo che egli ha di volta in volta compiuto il suo percorso «mortifero» qua sulla terra?
In termini cristiani si pone qui la questione dell’«aldilà». Per varie ragioni il pericolo di una consapevole o anche inconsapevole interpretazione cristiana del pensiero di Platone appare in questo caso più vicino che mai.
Già con Filone il pensiero platonico è stato assai presto assorbito nella spiegazione e nell’interpretazione ellenistica e, soprattutto con Agostino, in quella neoplatonica e cristiana, restando da allora al suo interno pur nelle più diverse varianti.
Anche là dove ci si crede liberi da rappresentazioni cristiane e si considera Platone in base all’umanismo e al classicismo – dunque in termini apparentemente «pagani» – si pensa in modo cristiano, se non altro nella misura in cui «il pagano» è comunque sempre e soltanto l’anticristiano. Solo se valutati dal punto di vista del cristianesimo i Greci sono «pagani».
Tuttavia, perfino laddove si resta in generale fuori dalla distinzione cristiano-pagano si pensa sempre la filosofia di Platone platonicamente nel senso di un platonismo.
Ma che cosa c’è mai da eccepire riguardo al fatto di pensare «platonicamente» Platone? Non è forse questo il modo più adeguato di comprenderlo, e in ogni caso molto più «corretto» che interpretare la filosofia di Platone con l’aiuto di quella di Kant o di Hegel?
Eppure l’autentica rovina è proprio voler interpretare Platone con l’aiuto di una qualsiasi specie di platonismo, giacché un simile procedimento è analogo a quello che cerca di «spiegare» la foglia fresca che sta sull’albero in base al fogliame caduto al suolo.
(Heidegger, Parmenide)
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Il mito, il μῦθος, dice Heidegger, è l’«ultima parola» della λήθη, ma anche la «prima parola» dell’ἀλήθεια. Il μῦθος è il linguaggio che – a bordo dell’ἀλήθεια che di ciascuno è la sua propria differance, il capriccio del suo proprio «demone» – ci traghetta dalla λήθη (dalla Realtà Immediata «inconscia e analfabetica») alla δίκη, ossia al «dire» storico-politico di una Tribù, alla «convenienza» di una Macchina Simbolica, alla Co-scienza di una Langue.
Dal Polo dell’Essere a una πόλις – una sbandata «mitologica», e un ritrovarsi poi a «essere stati gettati» in un tempo che conosce la morte. Sembra questo il destino tracciato all’Uomo, secondo la lettura che Heidegger ci propone della Repubblica di Platone.
Heidegger però, al tempo stesso, ci consiglia di non estendere genericamente all’Umano, e di non confondere con il Cristiano, ciò che è propriamente Greco. Ci consiglia, nel caso particolare, di non accorciare le distanze tra noi e Platone – perché non faremmo altro che addomesticarlo a un «platonismo» a uso e consumo di esigenze «filosofiche» e «teologiche» posteriori. Ci invita, semmai, a percepire e a rispettare la distanza che c’è tra la nostra «politica» e la πόλις di cui parla Platone: la πόλις come luogo di custodia dell’«essenza dell’uomo». La πόλις, nientemeno, come il luogo, il solo in cui a un greco era possibile interrogarsi sul proprio «essere». La πόλις come il luogo propriamente greco di «convegno» e di «convenienza», il luogo della chiamata a raccolta, il luogo dell’appello all’adunanza, ciascuno a raccontare la propria particolare «sortita dal Lete», la propria perigliosa traversata da «là» (ἐκεῖ) a «qua» (ἐνθάδε), la propria ἀλήθεια… la propria differance, più o meno «suscettibile» alla traduzione nella dialettica d’un dialetto «politico» nostrano.
L’attraversamento che a chiusura della Repubblica Platone ci prospetta non è più quello «dianoetico» dal visibile all’intelligibile. Stavolta la «traghettata» è, per così dire, pura d’ogni nome o attributo: stavolta essa è dal «là» al «qua» puramente e semplicemente, stavolta è la Madre di tutte le svolte, la Matrice di ogni opposizione, corrispondenza o contraddizione, a essere in questione.
Stavolta si tratta della «traversata» iniziale, del «passaggio» essenziale dalla sponda dell’Essere a quella dell’Esserci – perché l’Essere non ha «luogo», non ha un «posto» in cui poter dire «ci sono», se non nella Lingua della πόλις. È la Lingua, la δίκη della πόλις, a raccogliere le «ultime volontà» dell’Essere. Essa sola a custodire una memoria di ciò che per sua natura è oblio.
L’«essere dell’ente», dice Heidegger – il Passato Puro di ciascun «traghettato» – non è materialmente presente nella πόλις come qualcosa di cui essa dispone, «come uno dei suoi elementi». Ciò che la δίκη della πόλις – ciò che nella sua Lingua «s’è convenuto» di dire e di mandare a memoria – non è che l’eco di un richiamo ai «naviganti» a non gettare a mare, nella traversata, la propria «essenza».
La πόλις greca è perciò il luogo in cui l’Essere, il Passato non ha disperso nella λήθη, non ha rimosso, non del tutto, le sue tracce: il luogo dove solo queste rare quanto preziose tracce meritano le parole – dove solo le parole che seguono queste tracce meritano di essere «dette», anche a costo di diventare quel che poi di fatto sono diventate: le «alterne» dicerie, le chiacchiere di Dikê, le immaginazioni e le credenze, le norme e i tabù di una Legge «paesana».
Le «tracce dell’Essere» che ancora non si sono cancellate, le orme del Passato di cui, malgrado tutto, il logos greco non si è ancora scordato, secondo l’indicazione di Platone, vanno dunque cercate nel μῦθος. Ecco perché, subito dopo aver tracciato alla fine del VI libro la c. d. «teoria della linea», dopo aver cioè istruito un abbiccì della «dia-nautica», Platone introduce subito dopo, all’inizio del VII, il «mito della caverna».
La questione della πόλις è, per Platone, la questione del luogo, del τόπος, del «ci» a cui l’Essere dell’Uomo, il suo Passato inconscio, approda passando da là a qua. Passando per la Caverna e la «mitologia» delle sue «ombre», l’Essere si traduce dall’Immaginale al Simbolico – dalla Lingua del Passato al dialetto di un Popolo, a un Volgare, a un Triviale – a seconda di dove lo sbanda il suo Caso.
Quando il macabro sipario, con rumore di ventaglio, spalancò su di noi la sua grande ala rossa, davanti a noi s’aprì una gola di ghùl…
(Jarry, Ubu Re)
E come potrebbe non essere macabro questo sipario, se la scena su cui si apre, la sola prospettiva che schiude, è – come dice Platone – quella di un «periodo mortale», di un girotondo «periodico» sulla Giostra della Morte, dei cui messaggi solo l’alterno «dire» si fa a noi portavoce per bocca delle Ombre della Caverna?
Là si nasce e qua si muore. Si nasce e si muore, ma non una sola volta come siamo tentati di pensare noi. Non una sola volta, ma di volta in volta, più volte in una sola vita – perché il «là» di Platone non è il nostro «cristiano» postumo aldilà, ma il «delirato» Empireo del trentatreesimo di Paradiso: è il «là» che da sé si balbetta, il μύ in cui la Voce da sempre si mitizza nella propria eco.
Fa così, per niente, e quello che fa, lo fa sin da quando ancora navigava su e giù per la Via Lattea, e poppando contemplava le «idee» che non muoiono – le visioni di quel solo tempo in cui il tempo non passa…
Nel μῦθος c’è il μύ, c’è il «balbettare» infantile, c’è la «povertà» di senso delle voci «iniziali» del linguaggio che «mitizza», mentre nella λήθη – di cui il μῦθος è il solo «erede» – c’è il «nascondersi», c’è il «velarsi» geloso di un Tesoro Nascosto, c’è il «pudore», il non volersi fare vedere che ancora il buon saggio Epicuro consigliava ai suoi «devoti». C’è il rimando a un «modo d’essere» votato a sottrarsi a ogni segno che lo voglia significare, a ogni gesto che lo voglia imitare, a ogni memoria che gli voglia scippare il pegno stesso della sua oscura maestà.
Il μῦθος è tutto ciò che, sottratto al pudore, «di qua» rimane esposto. Di là, non c’è che l’irrappresentabile abisso della λήθη. Di là c’è il Passato che non muore, il Passato che ci coesiste senza nessun segno di memoria – ignaro di ogni scienza «politica».
In una sola vita, facciamo di volta in volta un giro sulla Giostra, e ogni volta è un «giro mortale» che facciamo, un arco di tempo, un «periodo» a termine. E allora ci tocca ritornare «là» a riprenderci, come Gilgameš, quelle due o tre cosucce «misteriose» che abbiamo lasciato a casa dell’Orco Humbaba.
In una sola vita, moriamo fino a sette volte, e ogni volta è una metempsicosi, una muta dell’anima, un ritorno al nostro balbettato Passato Eterno. In una sola vita siamo di volta in volta cavalli, alberi, stelle, pietre, indovini e maghi del nostro proprio «essere», e ogni volta, fino a settantasette volte sette, è un «c’era una volta» che ogni volta punto e a capo ricomincia.
Moriamo e dalle nostre ceneri risuscitiamo. Di volta in volta ci rianimiamo – però solo se «di là» a noi ritorna l’Eterno, e ci raggiunge fin nel nostro dialetto paesano, un frammento di quel tempo là – che di sé seppe appena enunciare un μύ.