Supponi di prendere una linea e di dividerla in due segmenti diseguali e, mantenendo costante il rapporto, dividi a sua volta ciascuno dei due segmenti, quello che rappresenta il genere visibile e quello che rappresenta il genere intelligibile; e, secondo la rispettiva chiarezza e oscurità, tu avrai, nel mondo visibile, un primo segmento, le immagini (per immagini intendo in primo luogo le ombre, poi i riflessi nell’acqua e in tutti gli oggetti formati da materia compatta, liscia e lucida, e ogni fenomeno simile). Considera poi il secondo, a cui il primo somiglia: gli animali che ci circondano, ogni sorta di piante e tutti gli oggetti artificiali. Non ammetterai che il genere visibile è diviso secondo verità e non verità, ossia che l’oggetto simile sta al suo modello come l’opinabile sta al conoscibile?
Esamina poi anche in che modo si deve dividere la sezione dell’intelligibile. L’anima è costretta a cercarne la prima parte ricorrendo, come ad immagini, a quelle che nel caso precedente erano le cose imitate; e partendo da ipotesi, procedendo non verso un principio, ma verso una conclusione. Quanto alla seconda parte, quella che fa capo a un principio non ipotetico, è costretta a cercarla muovendo dall’ipotesi e conducendo questa sua ricerca senza le immagini cui ricorreva in quell’altro caso, con le sole idee e per mezzo loro.
Tu sai, io credo, che quelli che si occupano di geometria, di calcoli e di simili studi, ammettono in via d’ipotesi il pari e il dispari, le figure, tre specie di angoli e altre cose a queste analoghe, secondo il loro particolare campo di indagine; e, come se ne avessero piena coscienza, le riducono a ipotesi e pensano che non meriti più renderne conto né a se stessi né ad altri, trattandosi di cose a ognuno evidenti. E, partendo da queste, eccoli svolgere i restanti punti dell’argomentazione e finire, in piena coerenza, a quel risultato che si erano mossi a cercare.
Essi si servono e discorrono di figure visibili, ma non pensando a queste, sì invece a quelle di cui queste sono copia: discorrono del quadrato in sé e della diagonale in sé, ma non di quella che tracciano, e così via; e di quelle stesse figure che modellano e tracciano, figure che danno luogo a ombre e riflessi in acqua, si servono a loro volta come di immagini, per cercare di vedere quelle cose in sé che non si possono vedere se non col pensiero, dianoeticamente.
L’anima è costretta a ricorrere a ipotesi, senza arrivare al principio, perché non può trascendere le ipotesi; essa si serve, come di immagini, di quegli oggetti stessi di cui quelli della classe inferiore sono copie e che in confronto a questi ultimi sono ritenuti e stimati evidenti realtà.
Per secondo segmento dell’intelligibile intendo quello cui il discorso attinge con il potere dialettico, considerando le ipotesi non princìpi, ma ipotesi nel senso vero della parola, punti di appoggio e di slancio per arrivare a ciò che è immune da ipotesi, al principio del tutto; e, avendolo raggiunto, ripiegare attenendosi rigorosamente alle conseguenze che ne derivano, e così discendere alla conclusione senza assolutamente ricorrere a niente di sensibile, ma alle sole idee, mediante le idee passando alle idee; e nelle idee termina tutto il processo.
Quella parte dell’essere e dell’intelligibile che è contemplata dalla scienza dialettica è più chiara di quella contemplata dalle cosiddette arti, per le quali le ipotesi sono princìpi; e coloro che osservano gli oggetti delle arti sono costretti, sì, a osservarli col pensiero senza ricorrere ai sensi, ma poiché li esaminano senza risalire al principio, bensì per via d’ipotesi, sembrano incapaci d’intenderli, anche se questi oggetti sono intelligibili con un principio.
Perciò chiamo pensiero dianoetico, e non intelletto, la condizione degli studiosi di geometria e di simili dotti, come se il pensiero dianoetico venisse a essere qualcosa di intermedio tra l’opinione e l’intelletto.
Applica infine ai quattro segmenti questi quattro processi che si svolgono nell’anima: applica l’intellezione al più alto, il pensiero dianoetico al secondo, al terzo assegna la credenza e all’ultimo l’immaginazione; e ordinali proporzionalmente, ritenendo che essi abbiano tanta chiarezza quanta è la verità posseduta dai loro rispettivi oggetti.
(Platone, Repubblica, 6: 509d-511e)
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Visibile e intelligibile – le due sponde del Fiume, secondo Platone: ovvero due modi di «interpretare» ciò in cui lo sguardo s’imbatte. Se all’occhio fisico «ciò che è» si manifesta attraverso la mediazione delle «immagini», l’occhio della mente invece, il noûs, non ne prende visione che nelle «idee» invisibili – senza immagini.
Dall’immaginazione al Senza Immagine – ecco le due sponde da cui va e viene il Traghetto, secondo Platone. La «realtà», il «ciò che è», è su tutt’e due le sponde – ma è differente dall’una all’altra. Su una sponda, è «cosa», sull’altra invece è «idea». Sull’una è «vista», sull’altra è «visione».
Pensaci: non sarà in ogni caso un «miraggio» a traghettarci dall’una all’altra? Non sarà necessariamente un «caso», un «capriccio», un imprevisto tale da sembrare un già visto, che so?, un disordine qualunque, una «asimmetria» ritmica – a fungere da veicolo «dianoetico»?
Hanno scritto trattati sull’argomento: tutti, più o meno, professano di avere le idee chiare riguardo al noûs, ma che cosa sarà mai questa dianoia?
Siamo dovuti andare a spasso nella mitologia degli Indiani delle Pianure, per capire di che si tratta. Eppure, non dovrebbe essere difficile: qualunque cosa s’intenda per noûs, la dianoia non può essere che l’ambiguo e alterno gioco delle «figure» che, nella traslazione, passando «attraverso» (διά), tagliano trasversalmente la corrente. Nient’altro che il «doppio gioco» delle Maschere o Forme immaginali che si spostano da una circolazione all’altra [del linguaggio], e nello spostamento si travestono e si trasformano esse stesse da un «modo di apparizione» all’altro.
Il dio ha trovato e donato a noi la vista, affinché osservando nel cielo i movimenti periodici dell’intelligenza (νοῦς), ce ne servissimo per le circolazioni trasversali del nostro pensiero (διανόησις), che sono affini a quelli, sia pure come circolazioni non ordinate a circolazioni ordinate; e così, traendone insegnamento e partecipando alla rettitudine dei ragionamenti conformi a natura, imitando le circolazioni del dio che sono tutte regolari, correggessimo le nostre circolazioni erranti.
(Platone, Timeo,45b-46c; 47a-47c)
La dianoia non obbedisce al «ritmo periodico» regolare, non rispetta una piena ordinata e disciplinata «simmetria»: essa, al contrario, salta da una «serie periodica» a un’altra che obbedisce a tutt’altro «periodo». La dianoia zompa disinvolta da una «serie espressiva» a un’altra: incrocia le differenze. Enigmistica della mente, «parole» crociate, segni e gesti di un linguaggio che è già in nuce «triviale». Di un linguaggio che si sente in obbligo di chiamare in causa il Terzo [e le sue tre maschere, i suoi tre scrigni, i suoi tre indovinelli] per «congiungere» le due differenti «serie espressive»: quella in cui il «ciò che è» si manifesta come cosa [il Bisonte] e quella in cui il «ciò che è» si lascia intelligere come idea [la Spiga Vergine, la Sposa Celeste].
Poiché il Bisonte non sarà mai compatibile con l’adolescenziale tenerezza del Mais a primavera, e poiché la «realtà delle cose» sarà sempre incompatibile con le nostre immaginazioni – solo un capriccio del Caso decide per il Traghettato: vuolsi così colà… solo a questa «terza» volontà è delegato il potere di prendere la decisione che lo assolve dal suo «sconfinamento» vivo nel Paese dei Morti.
Ammettiamo che negli occhi abbia sede la vista e che chi la possiede cominci a servirsene, e che in essi si trovi il colore. Ma se non è presente un terzo elemento, che la natura riserva proprio a questo compito, tu ti rendi conto che la vista non vedrà nulla e che i colori resteranno invisibili? – Qual è questo elemento di cui parli? – Quello, risposi, che tu chiami luce.
(Platone, Repubblica, 6: 507de)
La «luce» che illumina e acceca, la «luce» al culmine del suo fulgore solstiziale, la «luce» massima coincide con l’oscurità totale.
Il Solstizio è, paradossalmente, il momento più «equinoziale» dell’anno: a mezzogiorno, prova a guardare in faccia il Sole e di’: non è piena Notte, non vedi il Sole di mezzanotte?
Il Solstizio è l’Ora della «luce nera» (l’Ora delle «vespe nere», l’Ora dei ronzii nelle orecchie): l’Ora in cui la Luce sconfessa la pretesa onnipotenza dei nostri occhi fisici, l’Ora del supremo abbaglio, e perciò è l’Ora dell’Immaginazione giunta al suo apice, l’Ora in cui essa stessa si torce e si lascia distorcere dai giochi della Luce.
Temetti che mi si accecasse del tutto l’anima a voler vedere (βλέπων) le «cose» con gli occhi, e a cercare di coglierle con ciascuno dei sensi. Mi parve, al contrario, necessario rifugiarmi nei logoi per cercare in essi la «verità» (ἀλήθεια) delle cose che sono…
Non posso acconsentire infatti che coloro i quali cercano nei logoi le cose che sono, le vedano in immagine meglio di chi le cerchi nei fatti.
(Platone, Parmenide, 99e-100a3)
Dalla sponda delle «immagini» a quella dei «logoi», c’è che ogni cucciolo della nostra Specie deve farsi traghettare nel «dire» del nostro Paese Simbolico – farsi guidare dalle sue stesse immaginazioni all’incontro col Vecchio Traghettatore che lo porterà sull’altra sponda, al di là dell’Immagine – per mettere in salvo la sua singolare, casuale, capricciosa, sortita dal Lete (ἀλήθεια) nell’unico «posto» possibile: il Reame delle parole, dei «si dice»… vuolsi così colà…
Tra le due sponde del Fiume si apre uno iato, si scava un abisso che costringe il nostro stesso linguaggio a fare le torsioni, e soprattutto le ritorsioni, su se stesso: lo costringe a fluire e, di colpo, a rifluire su se stesso – a ondeggiare tra oblio e sempre meno rare eccezioni di memoria. A sovrascrivere all’oblio segni marcati della sua «differenza» propria: le esagerazioni e gli eccessi sottratti alla ripetizione e «sintetizzate» nelle sue «espressioni prime».
Dal vedere con l’occhio fisico al contemplare con l’occhio della mente (del noûs), c’è un percorso «tortuoso» da fare per il nostro linguaggio: c’è da fare quella traversata «dianoetica» che, – a differenza dell’atto «noetico», della pura «contemplazione» mentale, che corre come la Piroga lungo la corrente –, deve invece attraversare, come il Traghetto, il Fiume perpendicolarmente per approdare alla Dialettica. E l’impresa, lo sappiamo, è tosta, perché il suo esito, bene o male, dipende dalla «suscettibilità» del Traghettatore. Il Traghettatore, in fondo, dal Traghettato non pretende altro: se lo «esamina», è solo per metterne alla prova l’abilità: se non saprà saltare dal «visibile» all’«intelligibile», se lo divorerà!
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Se [però] noi riusciamo a spogliarci davvero delle abitudini nostre, allora arriviamo a comprendere, a pensare fino in fondo, o a tentare di pensare, che non c’è una via sensibile e una via ultrasensibile [alla conoscenza], non ci sono se non perché Platone le ha istituite. E non ci sono neppure sensazioni, non ci sono percezioni sensibili; queste sono solo parole, sono solo una teoria.
Non è che ci sono, come dato di fatto indubitabile ed eterno, quelle cose che sono le sensazioni e quelle cose che sarebbero il pensiero: questo non è affatto evidente. Si tratta piuttosto di un’interpretazione dell’esperienza, di una grandiosa interpretazione dell’esperienza, quale Platone ha costituito. E dovremmo avere il coraggio di aggiungere che certo Platone non farebbe un passo senza il concetto di immagine. Ma, di nuovo, il fatto è che non ci sono le immagini. In Omero non ci sono le immagini come le pensa Platone, non c’è un uomo che immagina, non c’è un uomo psichico. Che noi abbiamo un’anima, che quest’anima è psichica, che quest’anima formula immagini e rappresentazioni che sono il termine di raccordo tra le sensazioni, la dianoia e il noûs, tutto questo è una straordinaria costruzione.
(Sini, Il Parmenide di Platone)
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Visibile e intelligibile «sono solo parole», nient’altro che due logoi presso i quali Platone ammette egli stesso d’essersi dovuto rifugiare, lui come tutti i cuccioli della nostra Specie, per «salvare» dalle acque del Lete la sua propria ἀλήθεια.
Possiamo accogliere o rifiutare la sua «costruzione». Volendo, possiamo anche sostituire i termini con cui lui «nomina» le due sponde del Reale.
Ma con ciò non facciamo un passo in avanti nella comprensione della dianoia: invece di «visibile» (o «sensibile») e «intelligibile» (o «noetico») possiamo prendere in esame qualunque coppia di «opposti»: prendere perfino il bene e il male. Prendere insomma due qualsiasi differenti «serie» o «valori», e sempre ci si troverà a chiamare in causa un Terzo che la natura [la «trivialità» propria del linguaggio umano] destina a questo compito: a fare «luce», a illuminare della sua «luce nera» la traversata da una differenza all’altra di «ciò che è».
Di «triviale» non c’è che la Struttura del nostro linguaggio (un neoplatonico direbbe della nostra «fisiologia di luce», del «corpo sottile», «larvale», della nostra mente): per sfuggire all’opposizione statica, catatonica, di due differenze tra loro irriducibili, per eludere l’«incompatibilità» del Bisonte con la Spiga di Mais, il nostro linguaggio ricorre alla mediazione dei Grandi Uccelli – alla mediazione, cioè, di «messaggeri» che vanno e vengono.
Di «messaggeri» che non portano più le loro «immagini», ma solo echi, solo voci, solo logoi a cui chiedere «rifugio». Di «messaggeri» delle cui antiche forme non restano che vaghe informazioni, volatili come le «parole» a cui sono affidate. Perciò, qualunque sia il Fiume da traversare, tocca a uno di questi «resti», a un vuolsi così colà, a una citazione a caso, decidere per il Traghettato.