Pochi avvenimenti hanno un valore simbolico più grande della presa della Bastiglia. In occasione della festa che la commemora, molti francesi, vedendo avanzare nella notte i bagliori di una fiaccolata, avvertono ciò che li unisce alla sovranità popolare, che è tutta tumulto, rivolta, è irresistibile come un grido. Nessun simbolo esprime la festa meglio della demolizione insurrezionale di una prigione: la festa, che può essere tale soltanto se è sovrana, è lo scatenamento per essenza, da cui procede inflessibile la sovranità. Ma senza un elemento casuale, senza capriccio, l’avvenimento non avrebbe la medesima portata (per questo è un simbolo, per questo si differenzia dalle formule astratte).
Si è detto che la presa della Bastiglia non ebbe in realtà il significato che le si attribuisce. È probabile. Il 14 luglio 1789 questo carcere ospitava prigionieri di scarso interesse. In fondo, l’avvenimento non sarebbe che un malinteso. Se vogliamo prestar fede allo stesso Sade, sarebbe la conseguenza di un equivoco: che egli stesso avrebbe provocato! Ma potremmo dire che una parte di malinteso conferisce alla storia quell’elemento cieco, senza il quale essa sarebbe una semplice risposta al comando della necessità (come succede in una fabbrica).
Aggiungiamo che il capriccio non solo introduce nell’immagine del 14 luglio una parziale smentita dell’immediato interesse, ma anche un interesse accidentale. Nel momento in cui nello spirito del popolo si decideva in modo oscuro un avvenimento che avrebbe scosso e anche relativamente liberato il mondo, uno degli infelici che le mura della Bastiglia imprigionavano era proprio l’autore di Justine (libro che – afferma nell’introduzione Jean Paulhan – poneva una domanda tanto ardua che un secolo intero non era sufficiente per darvi una risposta).
Egli si trovava in carcere da dieci anni, ed alla Bastiglia dal 1784; era uno degli uomini più ribelli e più furiosi che abbiano mai parlato di ribellione e di furia: in una parola, un uomo mostruoso, posseduto dalla passione di una libertà impossibile. Il manoscritto di Justine si trovava ancora alla Bastiglia il 14 luglio, abbandonato in una cella vuota (come pure quello delle Centoventi giornate di Sodoma).
È certo che Sade alla vigilia della sommossa arringò la folla: sembra che egli si sia munito, a guisa di amplificatore, di un arnese che gli serviva a svuotare i suoi rifiuti, gridando, fra le altre provocazioni, che «si stavano sgozzando i prigionieri». Questo particolare risponde esattamente al carattere provocatorio che manifestano tutta la sua vita e la sua opera. Ma l’uomo che, per avere impersonato lo scatenamento stesso era incatenato da dieci anni, e che da dieci anni attendeva il momento della liberazione, non fu liberato dallo «scatenamento» della sommossa.
Succede spesso che un sogno lasci intravedere nell’angoscia una possibilità perfetta, che esso poi sottrae all’ultimo momento: come se una risposta confusa fosse la sola abbastanza capricciosa da soddisfare il desiderio esasperato. L’esasperazione del prigioniero fece ritardare di nove mesi la sua liberazione: il governatore domandò il trasferimento di questo personaggio, il cui umore andava tanto d’accordo con gli avvenimenti. Quando la serratura cedette e la sommossa liberatrice riempì i corridoi di folla, la cella di Sade era vuota, e il disordine di allora ebbe questa conseguenza: i manoscritti del marchese, dispersi, andarono smarriti, scomparve il manoscritto delle Centoventi giornate. E questo libro domina, in un certo senso, tutti i libri, poiché contiene la verità di quello scatenamento che l’uomo è nella sua essenza, ma che è obbligato a frenare e a tacere: eppure, di questo libro che significa da solo, o almeno significò per primo, tutto l’orrore della libertà, la sommossa della Bastiglia fece smarrire il manoscritto invece di liberarne l’autore.
Il 14 luglio fu veramente un giorno liberatorio, ma alla maniera sfuggente di un sogno. Più tardi, il manoscritto fu ritrovato (ed è stato pubblicato solo ai nostri giorni) – ma il marchese ne rimase privo: lo credette definitivamente perduto, e questa certezza lo accasciò: era «la più grande disgrazia – scrive – che il cielo avesse potuto riservargli».
Morì senza poter sapere che in realtà quel libro, che egli immaginava perduto, doveva collocarsi più tardi fra i «monumenti imperituri del passato».
Si vede dunque che un autore e un libro non sono inevitabilmente il felice risultato di un’epoca tranquilla. Nel nostro caso, tutto è collegato alla violenza di una rivoluzione. E la figura del marchese di Sade appartiene in modo piuttosto distante alla storia delle lettere, anche se egli volle entrarvi come altri e si disperò per la perdita dei suoi manoscritti.
Ma a nessuno è lecito volere e sperare coscientemente ciò che Sade pretese in modo oscuro, ed ottenne.
L’essenza delle sue opere è la distruzione: non solamente la distruzione degli oggetti, delle vittime messe in scena (che vi si trovano solo per soddisfare la furia negatrice), ma anche dell’autore e della sua stessa opera: la quale porta la cattiva novella di una connessione dei viventi con ciò che li uccide, del Bene con il Male: si potrebbe dire dell’urlo più forte con il silenzio.
Non possiamo sapere a che cosa obbediva un uomo instabile come Sade, quando dava nel suo testamento le istruzioni riguardanti la propria tomba, che egli voleva in terra e in un luogo appartato. Ma queste parole senza scampo, qualunque ne fosse la ragione casuale, dominano e completano la sua vita:
Una volta ricoperta la fossa, vi saranno seminate sopra delle ghiande, affinché trovandosi in seguito il terreno della detta fossa ricoperto di vegetazione, e il bosco trovandosi folto come era prima, le tracce della mia tomba scompaiano dalla superficie della terra, come io mi lusingo che la mia memoria scompaia dalla memoria degli uomini.
In effetti tra le «lacrime di sangue» piante per le Centoventi giornate e questa esigenza di annientamento, esiste una distanza assolutamente insignificante, in quanto il senso di quest’opera infinitamente profonda sta nel desiderio che l’autore ebbe di scomparire, dissolversi senza lasciare traccia umana: perché non v’era cosa alcuna che fosse fatta a sua misura.
Intendiamoci, niente sarebbe più vano che prendere Sade alla lettera, sul serio. Da qualunque parte ci si accosti a lui, egli ci è già sfuggito. Delle diverse filosofie che attribuisce ai suoi personaggi, non possiamo prenderne in considerazione alcuna. Nei personaggi dei suoi romanzi, ora egli sviluppa una teologia dell’Essere supremo in malvagità, ora è ateo, ma non a mente fredda: il suo ateismo sfida Dio e gode del sacrilegio. […]
In verità, non vi è riposo concepibile per Sade, e pochi sono i pensieri che egli avrebbe fermamente potuto mantenere. Di sicuro è stato materialista, ma questo non poteva risolvere il suo problema: quello del Male che egli amava e del Bene che lo condannava.
In effetti, Sade amò il Male; ma Sade, la cui opera tutta intera si propone di rendere desiderabile il Male, pur non potendo condannarlo, non poteva neanche giustificarlo: i filosofi depravati che descrive lo tentano, ciascuno a modo suo, ma non trovano e non possono trovare nessun principio che liberi dalla loro natura maledetta le azioni di cui decantano i vantaggi. In realtà essi cercano in queste azioni l’elemento maledetto. Ma Sade non seppe dare al proprio pensiero un indirizzo che non fosse incertezza e turbamento. […]
Paulhan definisce bene l’atteggiamento fondamentale di Sade. Le possibilità e il pericolo del linguaggio non l’hanno toccato: non poteva pensare all’opera separata dall’oggetto che descriveva, poiché tale oggetto lo possedeva, nel senso in cui si è posseduti dal demonio. Egli scrisse ebbro del desiderio di questo oggetto e vi si dedicò tutto come un devoto.
Klossowski osserva molto giustamente: «Sade non si limita a sognare, egli rivolge e riconduce il suo sogno verso l’oggetto che è all’origine del suo fantasticare, col metodo perfetto di un religioso contemplativo che dispone la sua anima in preghiera davanti al mistero divino. L’anima cristiana prende coscienza di sé davanti a Dio. Ma se l’anima romantica, che è semplicemente uno stato nostalgico della fede, prende coscienza di sé ponendo la sua passione come un assoluto, in modo che lo stato patetico diviene in essa funzione del vivere, l’anima sadica invece prende coscienza di sé unicamente attraverso l’oggetto che esaspera la sua virilità, e anzi la fissa nella forma di una virilità esasperata, che diviene ugualmente una funzione paradossale del vivere. L’anima sadica si sente vivere soltanto nell’esasperazione».
Sade (e in questo differisce dal semplice sadico che non rifletta) ebbe come scopo raggiungere la chiara coscienza di ciò che soltanto lo «scatenamento» può raggiungere (ma lo «scatenamento» porta alla perdita della coscienza), cioè l’eliminazione di ogni differenza tra soggetto e oggetto.
Così, il suo fine differiva da quello della filosofia soltanto per la via prescelta (Sade è partito da «scatenamenti» di fatto, che ha voluto rendere intelligibili, mentre la filosofia parte dalla calma coscienza – dalla intelligibilità distinta – per condurla a un certo punto di fusione).
È evidente la monotonia che caratterizza i libri di Sade, proveniente dal proposito di subordinare il gioco letterario all’espressione di un avvenimento indicibile. È vero che i suoi libri differiscono da ciò che abitualmente è considerato letteratura come una distesa di rocce deserte, priva di sorprese, incolore, differisce dagli ameni paesaggi, dai ruscelli, dai laghi e dai campi di cui ci dilettiamo.
Ma quando potremo dire di essere riusciti a misurare tutta la grandezza di quella distesa rocciosa?
Ponendosi fuori dell’umanità, Sade ebbe nella sua lunga vita una sola occupazione, che decisamente lo avvinse: quella di enumerare fino alla stanchezza le possibilità di distruggere degli esseri umani, di distruggerli e di godere al pensiero della loro morte e della loro sofferenza.
Una descrizione esemplare, fosse stata anche la più bella, non avrebbe avuto grande significato per lui. Soltanto l’enumerazione ininterrotta, monotona, aveva il potere di aprire davanti a lui il vuoto, il deserto al quale la sua furia tendeva (e che i suoi libri propongono ancora ai lettori).
La mostruosità dell’opera di Sade annoia, ma questa noia stessa ne è il senso.
Mentre nelle lettere è instabile, faceto, affascinante o collerico, appassionato e divertito, capace di tenerezza e forse anche di rimorsi, nei suoi libri si limita invece a un esercizio immutabile in cui una tensione acuta, infinitamente uguale a se stessa, nasce fin dal principio dalle preoccupazioni che sogliono limitare il nostro agire. Noi siamo fin dal principio sbandati su vette inaccessibili. Niente rimane di ciò che è incerto e moderato. In una bufera senza pace e senza fine, vi è un moto che porta invariabilmente gli oggetti del desiderio verso il supplizio e la morte.
Il solo termine che si possa immaginare è il desiderio, che il carnefice potrebbe egli stesso avere, di essere vittima di un supplizio. Nel testamento già citato questo impulso esige, al culmine, che la tomba stessa scompaia, e porta a volere che perfino il nome «scompaia dalla memoria degli uomini».
Se noi consideriamo questa violenza come il simbolo di una difficile verità, che ossessiona colui che ne ha inteso il significato tanto profondamente che egli ne parla come di un mistero, dobbiamo riferirla senz’altro all’immagine che Sade stesso ne ha data all’inizio delle Centoventi giornate:
Amico lettore, ora bisogna che tu disponga il tuo cuore e il tuo spirito al racconto più impuro che sia stato fatto da che esiste il mondo, un libro simile non potendosi trovare né presso gli antichi, né presso i moderni. Sappi che tutti i godimenti onesti, o comandati da quella bestia di cui tu parli sempre senza conoscerla e che chiami natura, sappi che questi godimenti, dico, saranno volontariamente esclusi da queste pagine, e quando per caso li incontrerai, saranno sempre accompagnati da qualche crimine o ottenebrati da qualche infamia.
L’aberrazione di Sade giunge fino a fare dei suoi eroi non solo degli scellerati, ma dei vigliacchi. Ma Sade si trovava in questa situazione morale: molto diverso dai suoi eroi, nel senso che spesso dimostrò sentimenti umani, conobbe degli stati di sfrenatezza e di estasi che gli sembravano prova di alta sensibilità, se paragonati alle possibilità comuni. Egli ritenne di non potere o dovere eliminare dalla sua vita questi stati d’animo pericolosi, ai quali lo costringevano i suoi desideri invincibili. Invece di dimenticarli, come avviene di solito nei momenti di normalità, egli osò guardarli bene in faccia e si pose la domanda abissale che in realtà essi pongono a tutti gli uomini.
Prima di lui, altri avevano avuto gli stessi smarrimenti, ma tra lo scatenarsi delle passioni e la coscienza restava una opposizione fondamentale. Lo spirito umano non ha mai cessato di obbedire all’esigenza che porta al sadismo: ma ciò avveniva furtivamente, nella tenebra che nasce dall’incompatibilità fra la violenza, che è cieca, e la lucidità della coscienza. La frenesia allontanava la coscienza. Da parte sua la coscienza, nella condanna angosciosa, negava e ignorava il senso della frenesia.
Sade per primo, nella solitudine della sua prigione, diede un’espressione ragionata a questi impulsi incontrollabili, sulla cui negazione la coscienza ha fondato l’edificio sociale – ed ha fondato anche l’immagine dell’uomo. Sade, a tale scopo, ha dovuto rovesciare e contestare tutto ciò che gli altri consideravano come incrollabile. I suoi libri danno la sensazione che egli volesse, con una rivoluzione esasperata, l’impossibile e il rovescio della vita. […]
Ciò che distrugge un essere, nello stesso tempo lo scatena; lo scatenamento, del resto, è sempre la rovina di un essere che si era posto certi limiti di convenienza. Il semplice denudamento è già una rottura di questi limiti (è il segnale del disordine chiamato in causa dall’oggetto che gli si abbandona). Il disordine sessuale decompone le figure coerenti che ci costituiscono, per noi stessi e per gli altri, in quanto esseri definiti (le spinge cioè di già in quell’infinito che è la morte).
Nella sensualità vi è un turbamento, un sentimento di essere perduti analogo al senso di malessere provocato dai cadaveri. D’altra parte, nel turbamento della morte qualcosa si perde e ci sfugge, comincia in noi un disordine, una impressione di vuoto, e lo stato in cui entriamo è prossimo a quello che precede un desiderio sensuale.
Un giovane provava una eccitazione fisica ogni qualvolta vedeva un funerale, tanto da doversi allontanare dal funerale del proprio padre.
Il suo comportamento era in opposizione ai comportamenti abituali, è vero; ma, in ogni modo, non possiamo ridurre l’impulso sessuale a ciò che è gradevole e benefico. Vi si ritrova un elemento di disordine, di eccesso, che giunge fino a mettere in gioco la vita di coloro che lo seguono.
L’immaginazione di Sade ha portato alle estreme conseguenze questo disordine e questo eccesso. A meno di non essere completamente insensibile, ogni lettore giunge al termine della lettura delle Centoventi giornate in uno stato di malessere: ed è più soggetto al malessere colui che questa lettura riesce a eccitare sensualmente.
Quelle dita mozze, quegli occhi, quelle unghie strappate, quei supplizi in cui l’orrore morale acuisce il dolore, quella madre che l’astuzia e il terrore inducono all’assassinio del figlio, quelle grida, quel sangue versato nel lezzo, tutto infine concorre a generare nausea. Sono cose che opprimono, ci soffocano e ci procurano quasi un dolore acuto, un’emozione che disintegra, che uccide.
Come ha osato? E soprattutto come ha dovuto osare? Lo scrittore di queste pagine aberranti sapeva di andare oltre ogni immaginazione. Nulla di rispettabile che egli non dileggi, nulla di puro che egli non insozzi, nulla di sorridente che egli non renda spaventevole.
Ciascuno di noi è preso di mira personalmente: per poco che si abbia ancora di umano, questo libro colpisce come una bestemmia, come un morbo sfigurante, ciò che vi è di più caro e di più santo.
Ma se andiamo più oltre?
In effetti questo libro è il solo in cui lo spirito dell’uomo sia alla misura di ciò che è. Il linguaggio delle Centoventi giornate è quello dell’universo che lentamente degrada, supplizia e distrugge la totalità degli esseri cui ha dato vita.
(Bataille, La letteratura e il male)