Chi volesse stabilire un confronto tra le movenze di un cittadino europeo medio e quelle di un primitivo, noterebbe continuamente l’impaccio, la fiacchezza, la goffaggine e l’ineleganza con cui il primo si muove, sia che cammini o stia seduto o in piedi, o quando parla o, comunque, prende contatto con l’ambiente. L’impressione si accentua quando si osservano le persone che compiono movimenti volutamente ritmici; infatti l’abito ritmico naturale non è volontario, bensì radicato nel profondo dell’essere. Ma perlopiù colpisce una certa spiacevole rigidezza o totale rozzezza, ed è raro il caso che venga imboccata l’unica via possibile, quell’atteggiamento che sta a metà strada tra l’affettazione e la completa rozzezza, intendo dire la scioltezza controllata.
Oggi assistiamo a tutta una serie di tentativi di correggere con esercizi fisici la situazione descritta; ma è un problema condizionato da alcuni fattori importanti.
In primo luogo, ci si dovrebbe convincere che per ricostruire una vita ritmicamente concepita, poco gioverebbe l’uso della nostra musica d’arte, perché essa non è un fenomeno naturale, bensì artificiale. Con ciò non intendo affermare che la musica debba essere bandita dall’educazione fisica. Anzi, non ho difficoltà a riconoscere che a tale scopo essa è insostituibile, essendo l’unico fenomeno capace di fornire le leggi fondamentali del movimento nella forma più sciolta. Ma appunto sotto questo aspetto la nostra musica d’arte è assai meno adeguata di quella naturale.
La seconda premessa da fare ha natura puramente spirituale. L’impegno di dare al corpo una certa euritmia non è quasi mai accompagnato dalla volontà di vincere la rigidità e la scompostezza interiori. Non è difficile indovinarne il motivo. L’attuazione di tale impegno urta evidentemente contro difficoltà ideologiche o puramente umane, per cui ci si adatta a un compromesso che perlopiù nasce da una torbida combinazione di mezze verità.
La situazione odierna non facilita di fatto la scoperta di un aggancio psico-intellettuale, perché non esiste un’idea che si sottragga all’indeterminatezza, alla vacuità o all’equivoco. Tuttavia non è lecito rinunciare alla ricerca di un comune elemento risolutore che ci aiuti a correggere il crescente irrigidimento e l’incomunicabilità dell’individuo.
Ritengo che si possa ancora aver fede in poche ma sicure realtà: il desiderio di una vita più equilibrata, e la convinzione che la crisi dell’uomo moderno e della sua cultura è fondamentalmente una crisi di fiducia. È infatti innata nell’uomo – come nella terra su cui egli vive – la necessità di ruotare fiduciosamente intorno a un punto stabile. Le nostre inclinazioni e antipatie, i nostri interessi e le nostre stesse occupazioni libere, provano l’impossibilità di vivere normalmente senza un centro e senza una fiducia.
Si tratta pertanto di sapere se possa ancora esistere un centro concretamente utilizzabile da tutti, in cui possiamo riporre la nostra fiducia. Nonostante l’apparente singolarità della mia affermazione, credo tuttavia di poter dire che tale centro esiste e che è collocato simultaneamente dentro e fuori di noi.
Cominciamo con la prima domanda: in che cosa, oggi, possiamo ancora riporre qualche fiducia? Ma questo interrogativo suscita immediatamente dispute ideologiche, che vorrei evitare. Sicché, per evitare di arenarci in partenza, propongo di partire da un punto non confutabile, vale a dire da una sicura fiducia in qualcosa che può dare la salvezza, in qualcosa che esiste ma che sfugge al nostro sguardo e può riuscire convincente soltanto nella misura in cui si crede fermamente alla sua stessa esistenza ed efficacia.
Esiste un centro di gravità intorno a cui possiamo orbitare con il pensiero, con il canto, parlando o agendo, anche se esso è per noi praticamente inafferrabile. Ora, la presenza e la forza d’attrazione di tale centro si accentuano con la periodicità e la fiducia con cui vi giriamo intorno.
Il ritmo periodico non è una successione lineare e progressiva di tempi gravi e leggeri, ma un giro e un’oscillazione di due differenti valori intorno a un centro fuori del tempo.
Non mi nascondo che con tale definizione propongo una ricetta che non è possibile accettare a priori senza discussione. Infatti, accettare la validità della mia affermazione dipende dalla convinzione della sua verità. In questo caso l’assenso non è il risultato di una riflessione precedente, bensì il prodotto conseguente di una pura esperienza.
Se, per esempio, facciamo oscillare simmetricamente le braccia in modo che al termine di ogni movimento le punte della dita si tocchino regolarmente, ci accorgiamo subito che tale incontro gravita su un centro collocato all’incirca sullo sterno. L’incontro sicuro e periodico delle punte delle dita ci dà anche un principio di fiducia nella forza dinamica e nella sicurezza dell’oscillazione ritmica.
Questo fatto psicofisico del tutto elementare segna per noi il principio della lotta contro il male inveterato del nostro tempo, vale a dire contro la mancanza di una fiducia guidata dall’istinto. Infatti, tale mancanza è causa di tutta l’odierna insicurezza nel giudicare ciò che non è evidente in base a concetti razionalistici o non sembra accettabile secondo il metro di concezioni alla moda, più o meno risibili, riguardanti il cosiddetto «uomo moderno».
Quando presento ai miei alunni un brano musicale segnandone il ritmo con una battuta asimmetrica loro insolita, sono pochissimi quelli che tentano di percepire istintivamente il ritmo stesso. La maggior parte di essi, prigionieri di una superstizione razionalistica, si dà a contare e a calcolare, non riuscendo a capacitarsi, o addirittura ritenendo inconcepibile che i valori di tempo non debbano necessariamente suddividersi in una successione regolare di due o di tre.
Prendiamo ad esempio il caso semplice, anche se per noi insolito, di una suddivisione del tempo affatto naturale. Ogni battuta di una danza caucasica è composta di nove ottavi distribuiti da un tamburo in quattro gruppi, così che ciascuno dei primi tre colpi comprende due ottavi e il quarto dura per il tempo di tre ottavi: quindi 1 2, 1 2, 1 2, 1 2 3.
Questo è un caso tipico di suddivisione naturale del tempo che non suddivide simmetricamente il 9 in 3 x 3, bensì asimmetricamente in 2 + 2 + 2 + 3. Siffatta musica naturale potrebbe insegnarci molto, purché anche con il corpo ci sforzassimo di muoverci secondo tale ritmo, muovendo cioè ogni volta tre passi della stessa durata e trattenendo il quarto passo alquanto più a lungo. Noteremmo immediatamente l’effetto riposante ed equilibratore di quest’ultimo passo più lento. Si sentirebbe cioè anche fisicamente la grande differenza tra la divisione artefatta e simmetrica dei 9 tempi in 3 x 3 e quella naturale in 2 + 2 + 2 + 3.
La prima divisione è schematica e meccanica, la seconda è viva perché segna una progressione e intercala pause di riposo.
Questo ritmo dal respiro naturale, che non procede ininterrotto ma continuamente introduce brevi e quasi impercettibili pause di riposo, è proprio il contrario di quanto noi comunemente definiamo «ritmo», quello che tocca il culmine dell’innaturalezza nella cosiddetta «musica razionale»; perché la rigida «marzialità» non è radicalmente altro che un abbandono della natura e una fuga dall’autenticità.
Com’è possibile, in un’epoca completamente straniata dalla natura, ritrovare la fiducia e la naturalezza? Non c’è che una via: chiedere più a se stessi che agli altri, far leva sul proprio senso dell’equilibrio, non cedere alle ciarle di moda o alle mezze verità. Se sappiamo resistere vittoriosamente all’ambiente che vorrebbe vincolarci a ogni costo e a nostro danno, ritroveremo il nostro ritmo di vita riconquistando anche la pace e la fiducia in noi stessi.
Questo ritorno in noi stessi ci farà anche capire che la formazione del nostro ritmo individuale di vita è indissolubilmente legata al ritmo dell’ambiente; perché si forma un vero carattere soltanto chi si confronta con gli altri, mai chi si chiude in se stesso. Soltanto i confusionari vedono in se stessi un ritmo autonomo.
Queste osservazioni mi inducono a riprendere il discorso sulla rigida e meccanicistica organizzazione della simmetria che noi europei colti così intensamente amiamo.
Non so quale spirito maligno abbia suggerito l’idea che il giusto ritmo debba necessariamente procedere per gruppi di tempo uniformi: nulla lo giustifica. È certamente comodo ma di una comodità malsana e innaturale che un movimento si svolga in gruppi uniformemente simmetrici.
La suddivisione asimmetrica è infinitamente più viva di quella simmetrica. È anche più salutare sotto tutti gli aspetti, perché ci scuote, mentre la suddivisione uniforme ci lascia completamente aridi.
Pur convinti della maggiore naturalezza e vitalità dell’asimmetria rispetto alla simmetria, vogliamo tuttavia conservare ad entrambe il loro rispettivo valore. Contestiamo però alla suddivisione simmetrica la preminenza su quella asimmetrica. Per quale motivo?
Per mantenere alla natura i suoi diritti. In tutta la natura vivente non esiste un solo composto attivo rigorosamente simmetrico, perché la rigida simmetria provoca inevitabilmente la paralisi. Lo stesso organismo interno dell’uomo – che non è né destro né mancino –, anzi la stessa sua faccia, sono soggetti all’asimmetria. Lo stesso ritmo dell’espirazione e dell’inspirazione è asimmetrico. In effetti, la simmetria teoricamente perfetta è più un prodotto della mente che della natura, e una bella simmetria non è matematicamente esatta. Ora, per la musica naturale questa disuguaglianza è così ovvia che, per esempio, la suddivisione del 7 in 3 + 4 vale come una unità di due tempi in cui il secondo è semplicemente un po’ più lungo del primo.
Le cosmogonie antiche consideravano come unità di tale genere anche ogni sana relazione umana; e non è certamente per una scelta gratuita che soprattutto nel simbolismo antico i numeri dispari rappresentassero le unità sacrali a cui si attribuivano poteri salvifici e fecondi.
Se suddividiamo in 3 + 4 l’antico numero sacrificale 7, in rapporto alle relazioni fra due individui, chi nella sua vita è abituato soltanto a contare aritmeticamente troverà che il gruppo ternario è in svantaggio rispetto a quello quaternario. Ma in effetti il 3 non è minore del 4, perché rappresenta una qualità profondamente diversa dal 4. Non costituisce neppure una qualità inferiore, bensì una qualità diversa, assolutamente non comparabile col 4.
In altre parole: nel 7 stanno di fronte due qualità differenti che si integrano a vicenda, di cui nessuna è in svantaggio sull’altra, presupponendo ovviamente che ciascuna parte possegga interamente e realmente la propria qualità.
Nel simbolismo antico il 3 e il 4 hanno la medesima relazione che intercorre tra uomo e donna, relazione che nella musica viene espressa con le danze a ritmo 7/4 o 7/8.
Ora siamo anche in grado di afferrare meglio il significato proprio del ritmo. Il ritmo è un’articolazione qualitativa, non quantitativa, del tempo e dello spazio. Oscillando nella ripetizione continua, esso gira intorno a un centro inafferrabile, che però è il punto focale della relazione che si stabilisce fra due qualità o due individui, premesso che ciascuna qualità è chiaramente caratterizzata e, di conseguenza, permette all’altra di esprimersi.
Quando invece una parte interferisce nell’altra, la relazione scompare. La parte invadente e smodata perde la propria qualità e comunicabilità perché tenta di invadere uno spazio su cui non ha alcun diritto, e che non è capace di riempire.
Nella sua ultima astrazione il ritmo è il modo più profondo della vita spirituale. Di conseguenza non è mai fondamentalmente un fenomeno cosciente. Come ogni vera esperienza, in principio è vissuto del tutto inconsapevolmente. Avere il senso del ritmo significa vivere entro un moto e un processo senza la minima consapevolezza. Il ritmo diventa cosciente soltanto in un secondo tempo, quando cioè, dopo esserci affrancati dall’esperienza semplicemente vissuta, ci rappresentiamo retrospettivamente le cose derivandone sgomento o gioia.
Appunto perché l’uomo è fondamentalmente inconsapevole del suo ritmo più intimo, la sua natura si rivela dal ritmo inconscio del suo linguaggio molto meglio che dalle parole e dalle idee che egli occasionalmente esprime. Non percepiamo la verità o la falsità delle sue parole, bensì l’autenticità o l’artificiosità del suo ritmo.
Radicato nelle profondità dell’inconscio, e non nella consapevolezza dello spirito, il ritmo è autenticità e schietta comunicabilità. Chi, con la parola o col comportamento, vuole nascondere il proprio essere, si lascia pur sempre tradire dal suo ritmo. La natura di tale ritmo dipende certamente dalla costituzione dell’individuo.
Ma la musica e le danze dei popoli primitivi testimoniano quale grandiosità raggiunga l’uomo, e quanto possano valere le sue possibilità ritmiche, finché egli si affida alle doti di cui la natura l’ha fornito. Anche in questo caso è singolare la presenza continua e predominante delle grandi unità di tempo, proprio del simbolismo antico. Un canto boscimano, per esempio, suddivide il 12 alternativamente in 3 x 4 e in 5 + 7.
Non incontriamo mai la squallida e puramente quantitativa piattezza della simmetria, perché sono sfruttate e valorizzate tutte le possibili divisioni.
L’esercizio di tale continuo mutamento sarebbe una medicina spirituale per tutti quei caratteri che ritengono di non poter mai rinunciare ai princìpi o di avere sempre e necessariamente ragione. Si tratta di un modello di elasticità e di equilibrio, e chiunque si sforzi di assimilare spiritualmente tale mutamento sarà presto capace di guardare con occhi diversi gli stessi alti e bassi della mutevole fortuna.
L’attuazione delle doti ritmiche naturali dell’uomo presuppone però due qualità spirituali: la fiducia nella docilità e nella sicurezza del ritmo naturale, e la capacità di concentrarsi nel suo ascolto.
Quest’ultima premessa consiste nel sentire il ritmo ascoltato o veduto al punto di identificarsi totalmente in esso. Ciò che si sente deve trasformarsi in noi in una realtà psicofisica tale da diventare parte integrante del nostro stesso pensiero e dei nostri movimenti corporali.
Tocca però all’ascolto fornire l’iniziazione più profonda nella vita ritmica. Ascoltare significa prestare attenzione, e l’uomo stesso è l’oggetto del suo ascolto. In effetti, nulla può favorire meglio il suo ritmo vitale quanto l’ascolto umile e obbediente della natura. L’obbedienza acustica è la forza più grande dell’uomo perché nessun organo sensorio riesce, come l’udito, a penetrare l’inconscio. Per l’antica filosofia indiana la Šruti, ciò che è udito, era la fonte di ogni conoscenza. […]
L’uomo stesso è l’oggetto del proprio ascolto. Ma ciò che conta è il modo in cui ascolta: se cioè si lascia prendere, oppure se si lascia soltanto sfiorare da ciò che ascolta. L’ostacolo più grave all’influenza del ritmo è frapposto dalla nostra mente troppo analitica, a cui va imputata la definizione, inadeguata e addirittura falsa, secondo cui il ritmo è la «divisione aritmetica del tempo»: definizione che non corrisponde alla realtà naturale e che è frutto di una mentalità puramente teorica.
Tale suddivisione matematicamente precisa e rigida del tempo, escogitata dalla mente umana, è definita «spigolosa» da Ludwig Klages, che invece paragona il ritmo autentico all’oscillazione libera di un legno che galleggi dondolandosi al leggero moto di uno specchio d’acqua, senza angoli e spigoli, cioè senza rigidi limiti nel movimento ma con uno sciolto susseguirsi di movimenti laterali. Pertanto ogni tipo di musica è veramente ritmica soltanto quando le cosiddette battute non danno l’impressione di durezza, ma gravitano elasticamente verso il loro centro di gravità.
Chi canta con rigida simmetria si stanca. Chi invece respira liberamente, seguendo una certa asimmetria o elasticità, cantando si sente sollevato; e questo perché la ripetizione periodica di tale ritmo non affatica il respiro, ma lo fa riposare nell’asimmetria naturale, e anche perché, non costringendolo in un sistema innaturale, lo facilita progressivamente.
Mentre la successione periodica di due tempi uguali ci costringe in uno schema, la successione di due tempi disuguali ci procura equilibrio e leggerezza. L’asimmetria non forza né l’impulso motorio corporale né l’elemento specificamente spirituale, perché si basa su un fatto psicologico che oscilla regolarmente e periodicamente su un centro, come un gavitello galleggiante. Da tale centro dipendono appunto la possibilità stessa e l’ordine di tutto l’accadere, anche se il centro stesso è per noi inafferrabile.
Ci rimane da dire ciò che è più bello ed esaltante: conquisteremo progressivamente il nostro centro personale soltanto se, come un gavitello, oscilleremo e gireremo intorno a quel punto medio inafferrabile e non individuabile. La fortuna e la vocazione dell’uomo non consistono nell’essere egli stesso il centro ultimo, bensì nel poter ruotare fiduciosamente intorno a un altro centro portando con sé il proprio.
Chi invece pretende di essere il centro assoluto della realtà, smarrisce il proprio ritmo e conseguentemente anche il senso dell’esistenza. È ciò che intendevo dire quando, al principio, affermavo che il vero punto medio si trova simultaneamente dentro e fuori di noi. Conquistiamo il nostro centro gravitando intorno a un centro ideale che è contemporaneamente il fulcro di tutte le nostre relazioni con l’ambiente.
Girare significa ritornare su se stessi, ripetersi. Anche questa è una caratteristica tipica della nostra vita. Ed ecco che scopriamo un altro aspetto caratteristico del ritmo, eccellentemente definito da Klages: il ritmo è la ripetizione dell’analogo, in quanto ogni giorno non si ripete con precisione la stessa cosa, ma ritorna ciò che è fondamentale con forme sempre nuove.
Vorrei tuttavia aggiungere un secondo aspetto: la giustapposizione dei periodi simili, dalla cui somma deriva una progressione costante, non si svolge in cerchi della medesima ampiezza, perché i cerchi stessi si saldano assieme formando una spirale.
È la spirale della crescita, la cui formazione è dovuta al progressivo avvolgimento della corda del gavitello intorno al centro invisibile, così da introdurci nel centro stesso della nostra vita.
Un’ultima osservazione: ruotare ritmicamente intorno a un centro non significa stabilire un primato motorio, ma attuare un conveniente ed equilibrato modo d’essere. Una montagna non deve essere conquistata di prepotenza, ma ammirata, scalata pazientemente e amata; perché tutte le altezze della cultura umana non sono il prodotto dell’efficienza, bensì di un modo d’essere.
Vivere ritmicamente significa onorare la verità e confidare umilmente in un centro ideale: perché senza questo centro ideale nessuno riesce a stabilire una relazione autentica con se stesso o col mondo che lo circonda.
(Schneider, Il significato della musica)