Baudrillard – La pena di morte è inutile

Fino al XVIII secolo, s’impiccavano, dopo una condanna formale, gli animali colpevoli d’aver causato la morte di un uomo. Si impiccavano anche i cavalli.
(Autore ignoto)

Ci deve essere una ragione ben particolare della repulsione che ci ispirano le punizioni di animali, perché dovrebbe essere più grave condannare un uomo che un animale, e più cavallo-impiccatoodioso farlo soffrire. Ora, in un modo o nell’altro, l’impiccagione di un cavallo o d’un porco ci sembra più odiosa, come quella d’un pazzo o d’un bambino, perché essi sono «irresponsabili».
Questa segreta eguaglianza delle coscienze nella giustizia, che fa sì che il condannato conservi sempre il privilegio di negare il diritto dell’altro a giudicarlo, la possibilità di questa sfida, che è cosa diversa dal diritto alla difesa, e che ristabilisce un minimo di contropartita simbolica, non esiste più assolutamente nel caso dell’animale o del pazzo. E proprio l’applicazione di un rituale simbolico a una situazione che esclude qualsiasi possibilità di risposta simbolica costituisce il carattere particolarmente odioso di questo tipo di punizione.

A differenza della liquidazione fisica, la giustizia è un atto sociale, morale e virtuale. Il carattere odioso della punizione di un bambino o di un folle proviene dall’aspetto morale della giustizia: se l’«altro» deve essere convinto di essere colpevole e condannato in quanto tale, la punizione perde ogni senso, poiché in questi «criminali» non è possibile né la coscienza della colpa, e nemmeno l’umiliazione. È quindi altrettanto stupido che crocifiggere dei leoni.
Ma nella punizione di un animale c’è un’altra cosa, che viene questa volta dal carattere rituale della giustizia. Più che la morte inflitta, è l’applicazione di un cerimoniale umano a una bestia ciò che costituisce la stravaganza atroce della scena. Tutti i tentativi di vestire in modo strambo gli animali, di travestirli e di ammaestrarli secondo la commedia umana, sono sinistri e malsani – nella morte, ciò diventa francamente insopportabile.

Ma perché questa repulsione a veder trattare l’animale come un essere umano? È che allora l’uomo è trasformato in bestia. Nella bestia che s’impicca, in virtù del segno e del Besnard-impiccatorituale è un uomo che viene impiccato, ma un uomo tramutato in bestia come per magia nera.
Una significazione riflessa – venuta dal fondo della reciprocità che opera ovunque, sempre, qualunque cosa ne pensiamo, tra l’uomo e l’animale, tra il carnefice e la sua vittima – si mescola alla rappresentazione visiva in una confusione terribile, e il disgusto nasce da questa malefica ambiguità (come ne La metamorfosi di Kafka).

Fine della cultura, fine del sociale, fine della regola del gioco. Uccidere una bestia nelle forme umane scatena una mostruosità equivalente nell’uomo, che diventa vittima del suo stesso rituale. L’istituzione della giustizia, con la quale l’uomo pretende di tracciare una linea tra se stesso e la bestialità, si ritorce contro di lui. Certamente, la bestialità è un mito – linea di cesura che implica un privilegio assoluto dell’umano e respinge l’animale nel «bestiale».
Questa discriminazione, tuttavia, si giustifica relativamente quando, contemporaneamente al privilegio, implica anche tutti i rischi e gli obblighi dell’umano, in particolare quello della giustizia e della morte sociali – nel cui ambito di competenza, invece, secondo la medesima logica, l’animale non entra assolutamente. Imporgli questa forma, significa cancellare il limite tra i due, e abolire di colpo anche l’umano. Allora l’uomo è puramente la caricatura immonda del mito dell’animalità che lui stesso ha istituita.

Nessun bisogno di psicoanalisi, di «figura del padre», di erotismo sadico e di senso di colpa per spiegare la nausea del supplizio animale. Qui tutto è sociale, tutto ha attinto alla linea di demarcazione sociale che l’uomo traccia attorno a se stesso, secondo un codice mitico di differenze – e alla ritorsione che spezza questa linea, secondo la legge che vuole che la reciprocità non cessi mai: tutte le discriminazioni sono sempre e solo immaginarie, e la reciprocità simbolica le attraversa sempre, per il meglio e per il peggio.

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Beninteso, questa nausea, legata alla perdita del privilegio dell’umano, è propria quindi anche di un ordine sociale in cui il taglio netto tra l’uomo e l’animale, e quindi l’astrazione dell’umano, è definitiva. Questa repulsione ci distingue: segna che la Ragione umana ha fatto dei progressi, il che ci permette di relegare nella «barbarie» tutto questo «medioevo» di supplizi, umani o animali.
«Ancora nel 1906, in Svizzera, un cane è giudicato e giustiziato per aver partecipato a un furto e omicidio». Nel leggere questa notizia, siamo ben rassicurati: non siamo più a quei tempi. Sottinteso: al giorno d’oggi siamo «umani» con gli animali, li rispettiamo.

Ora, è esattamente l’inverso: il disgusto che ci ispira l’esecuzione di un animale è esattamente proporzionale al disprezzo in cui lo teniamo. È in proporzione alla sua relegazione, propria della nostra cultura, nella irresponsabilità, nell’inumano, che l’animale diventa indegno del rituale umano: è allora sufficiente che quest’ultimo sia applicato per darci la nausea, non secondo un progresso morale, ma a causa dell’approfondimento del razzismo dell’umano.

Coloro che un tempo sacrificavano ritualmente gli animali non li consideravano delle bestie. E anche la società medioevale che li condannava e li puniva secondo le regole, ne era più vicina di noialtri a cui questa pratica fa orrore. Li ritenevano colpevoli: era far sacrificio-cavallo-surrealloro un onore. L’innocenza in cui noi li releghiamo (di conserva con i pazzi, i ritardati, e i bambini) è significativa della distanza radicale che ci separa da essi, dell’esclusione razziale in cui li mantiene la definizione rigorosa dell’Umano. In un contesto in cui tutti gli esseri viventi sono partecipi dello scambio, gli animali hanno «diritto» al sacrificio e all’espiazione rituale. Il sacrificio primitivo dell’animale è legato al suo statuto sacro ed eccezionale di divinità, di totem.
Noi non li sacrifichiamo più, non li puniamo nemmeno più, e ne siamo fieri, ma il fatto è semplicemente che li abbiamo addomesticati, che ne abbiamo fatto un mondo razionalmente inferiore, non più degno nemmeno della nostra giustizia: e, così, sono sterminabili come animali da macello.

In altre parole, il pensiero razionale liberale si prende carico di coloro che scomunica: gli animali, i pazzi, i bambini, che «non sanno quello che fanno» – quindi nemmeno degni del castigo e della morte, appena appena della carità sociale: protezionismo di ogni genere, società per la protezione degli animali, psichiatria «aperta», pedagogia moderna – tutte le forme di interiorizzazione definitiva, ma con delicatezza, in cui si trincera la Ragione liberale. Commiserazione razziale grazie alla quale l’umanesimo raddoppia il suo privilegio sugli «esseri inferiori».

Alla luce di tutto questo si pone la questione della pena di morte, che è anche quella dell’ingenuità e dell’ipocrisia di qualsiasi umanesimo liberale della questione.
Presso i primitivi, il «criminale» non è un essere inferiore, anormale, irresponsabile. È su di lui, come sul «pazzo» e sul «malato», che si articolano numerosi meccanismi simbolici – di ciò rimane qualcosa nella formula di Marx sul criminale come funzione essenziale dell’ordine borghese. Il re è colui al quale è riservato il crimine per eccellenza di infrangere il tabù dell’incesto – per questo è re, e per questo sarà messo a morte. La sua espiazione gli conferisce lo statuto supremo, perché è essa che rilancia il ciclo degli scambi.

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Esiste tutta una filosofia della crudeltà (nel senso di Artaud) che noi non conosciamo più, e che esclude tanto l’infamia sociale quanto la pena: la morte del criminale-re non è una sanzione, non separa né elimina qualcosa di putrido dal corpo sociale; al contrario, è festa e apice, è su di essa che si rinnovano le solidarietà, che si sciolgono le separazioni.
Il folle, il buffone, il bandito, l’eroe e tanti altri personaggi delle società tradizionali hanno svolto, fatte le debite proporzioni, il medesimo ruolo di fenomeni simbolici. La società si articolava sulla loro differenza.
I morti per primi hanno svolto questo ruolo. Non toccate ancora dal principio della Ragione sociale, le società tradizionali si adattavano benissimo al criminale, sia pure mediante la sua morte rituale e collettiva, esattamente come la società paesana ai suoi idioti del villaggio, sia pure come oggetti rituali di derisione.

Finita questa cultura della crudeltà in cui la differenza si esalta e si espia nel medesimo atto sacrificale. Nei confronti dei devianti noi non conosciamo più che lo sterminio o la terapeutica. Non sappiamo più che tagliare, epurare e respingere nelle tenebre sociali. E questo a misura stessa della nostra «tolleranza», della nostra concezione sovrana della libertà.
«Se le società contemporanee sono progredite al livello dei costumi, non è escluso che esse siano regredite al livello della mentalità» (Encyclopaedia Universalis). Normalizzandosi, cioè estendendo a tutti la logica delle equivalenze – ciascuno uguale e libero davanti alla norma – la società finalmente socializzata esclude tutti gli anticorpi.

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È allora che crea, nel medesimo movimento, le istituzioni specifiche per accoglierli – è così che fioriscono nel corso dei secoli le prigioni, i manicomi, gli ospedali, le scuole, senza dimenticare le fabbriche, che hanno anch’esse cominciato a fiorire con i Diritti dell’Uomo – è così che bisogna intendere il lavoro.
La socializzazione non è nient’altro che questo immenso passaggio dallo scambio simbolico delle differenze alla logica sociale delle equivalenze. Qualsiasi «idea sociale» o socialista non fa che raddoppiare questo processo di socializzazione, e il pensiero liberale che vuole abolire la pena di morte non fa che prolungarlo anch’esso.

Pensiero di destra o di sinistra sulla pena di morte – isteria reazionaria o umanesimo razionale: nessuna differenza – l’una e l’altro sono altrettanto lontani dalla configurazione simbolica nella quale il crimine, la follia, la morte sono una modalità dello scambio, la «parte maledetta» attorno alla quale gravitano tutti gli scambi.
Reintegrare il criminale nella società – farne un uomo equivalente, normale?
Ma è esattamente l’inverso. Come dice Gentis: «Non si tratta di restituire il pazzo alla verità della società, ma di restituire la società alla verità della follia» (Les Murs de l’asile). Tutto il pensiero umanistico vien meno di fronte a questa esigenza – manifestamente realizzata nelle società precedenti, sempre presente, ma occulta e violentemente Roach-folliarimossa, nelle nostre (perché il crimine e la morte provocano sempre il medesimo giubilo segreto, ma degradato e osceno).

Se in un primo tempo l’ordine borghese si sbarazza del crimine e della follia con la liquidazione o la reclusione, in un secondo tempo esso neutralizza tutto questo sulla base della terapeutica.
È la fase della progressiva assoluzione del criminale e del suo riciclaggio come essere sociale, con tutti gli espedienti della medicina e della psicologia. Ma bisogna comprendere che questa svolta liberale si compie sulla base d’uno spazio sociale interamente repressivo, in cui i meccanismi normali hanno assorbito la funzione repressiva un tempo riservata a delle istituzioni speciali.

Il pensiero liberale non crede di dire tanto pretendendo che «il diritto penale è chiamato a svilupparsi nel senso d’una medicina sociale preventiva e d’una assistenza sociale curativa» (Encyclopaedia Universalis). Esso sottintende con questo che il diritto penale è chiamato a scomparire in quanto penale.
Ma nient’affatto: è la penalità stessa che è chiamata a realizzarsi nella sua forma più pura nel grande riciclaggio terapeutico, psicagogico e psichiatrico. È la violenza penale che trova il suo equivalente più sottile nella risocializzazione e la rieducazione (altrove nell’autocritica o il pentimento, secondo il sistema sociale dominante) – e a partire da questo momento siamo tutti assegnati alla vita normale medesima: siamo tutti dei pazzi e dei criminali.

La pena di morte e la violenza penale non solo possono sparire in questa società, ma anzi devono farlo, e gli abolizionisti non fanno che andare nel senso del sistema, ma in piena contraddizione con se stessi. Vogliono abolire la pena di morte, ma senza abolire la responsabilità (perché, senza responsabilità, niente coscienza né dignità dell’uomo, quindi niente pensiero liberale!). Illogico. Ma soprattutto inutile: perché è da molto tempo che la responsabilità è morta. Vestigio individuale dell’età dei Lumi, essa è stata liquidata dallo stesso sistema man mano che questo diventava più razionale.

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A un capitalismo che si fondava sul merito, l’iniziativa, l’impresa individuale e la concorrenza, occorreva un ideale di responsabilità, e quindi l’equivalente repressivo: nel bene o nel male, ciascuno, imprenditore o criminale, riceveva la sanzione secondo il proprio merito.
A un sistema che si fonda sull’organizzazione burocratica e l’esecuzione di un piano, occorrono degli esecutori irresponsabili, quindi tutto il sistema della responsabilità crolla da se stesso: non è più operativo. Che si lotti o no per abolirla, è indifferente: la pena di morte è inutile. La giustizia crolla anch’essa: irresponsabilizzato dappertutto, l’individuo, qualunque cosa accada, si fa un pretesto delle strutture burocratiche e non accetta più di essere giudicato da nessuno, nemmeno dall’intera società. Anche il problema della responsabilità collettiva è un falso problema: la responsabilità è semplicemente scomparsa.

Il beneficio secondario della liquidazione dei valori umanistici è la decomposizione dell’apparato repressivo, fondato sulla possibilità di distinguere «in coscienza» il bene dal male, e di giudicare e condannare secondo questo criterio. Ma l’ordine ha buon gioco rinunciando alla pena di morte: ci guadagna ancora, e le prigioni possono aprirsi. Perché la morte e la prigione erano la verità della giurisdizione sociale di una società ancora eterogenea e divisa. La terapeutica e il riciclaggio sono la verità della giurisdizione responsabile-fumettosociale d’una società omogenea e normalizzata. Il pensiero di destra si riferisce piuttosto alla prima, il pensiero di sinistra alla seconda – ma entrambi obbediscono a un medesimo sistema di valori.

Entrambi parlano d’altronde il medesimo linguaggio medico: asportazione d’un membro imputridito, dice la destra – guarigione d’un organo malato, dice la sinistra. Da una parte e dall’altra la morte si gioca al livello delle equivalenze.
La procedura primitiva non conosce che reciprocità: clan contro clan – morte contro morte (dono contro dono). Noi non conosciamo che un sistema di equivalenze (morte per morte) tra due termini altrettanto astratti che nello scambio economico: la società e l’individuo, sotto la giurisdizione d’un sistema morale «universale» e del diritto.

Morte per morte, dice la destra, niente per niente, hai ucciso e devi morire, è la legge del contratto. Intollerabile, dice la sinistra, il criminale dev’essere risparmiato: non è veramente responsabile.
Il principio dell’equivalenza è salvo: semplicemente, tendendo a zero uno dei termini (la responsabilità), tende a zero anche l’altro (la sanzione). L’ambiente, l’infanzia, l’inconscio, la condizione sociale delineano una nuova equazione della responsabilità, ma sempre in termini di causalità e di contratto. Al termine di questo nuovo contratto, il criminale non merita più che la pietà (cristiana) o la sicurezza sociale.

Anche qui il pensiero di sinistra non fa quindi che inventare delle forme neocapitalistiche più sottili, in cui la repressione diventa diffusa, come altrove il plusvalore. Ma è proprio degli equivalenti della morte che si tratta nella cura psichiatrica, la cura ergonomica. L’individuo vi è trattato come superstite funzionale, come oggetto di riciclaggio – le cure e la sollecitudine di cui lo si circonda, di cui lo si investe, sono altrettanti segni della sua anomalia. La tolleranza di cui gode è dello stesso ordine di quella che abbiamo visto esercitarsi sulle bestie: è un’operazione grazie alla quale l’ordine sociale esorcizza e controlla le proprie ossessioni.

Il sistema ci rende tutti irresponsabili? Ciò è sopportabile solo a patto di circoscrivere una categoria di irresponsabili notori, che si prendono in cura in quanto tali – questo ci restituirà, per effetto di contrasto, l’illusione di responsabilità. I delinquenti, i criminali, i bambini, i pazzi sopporteranno le spese di questa operazione clinica.

(Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte)