Jonas – La sparizione del presente

Su che cosa verte la «gnosi», questa conoscenza che non è dell’anima ma dello spirito [non della psiche ma del noûs], e grazie alla quale l’uomo spirituale trova salvezza dalla schiavitù cosmica?
Una famosa formula della scuola valentiniana riassume così il contenuto della gnosi: «Ciò che ci rende liberi è la conoscenza di chi eravamo, che cosa siamo diventati; donde Blake-allegoria-condizione-spirituale-uomoeravamo, dove siamo stati gettati; dove ci affrettiamo, da dove siamo redenti; che cosa è nascita e che cosa è rinascita».
Una vera esegesi di tale formula programmatica dovrebbe spiegare il mito gnostico per intero. Mi contenterò di alcune osservazioni formali.

Notiamo innanzitutto il raggruppamento dualistico dei termini in coppie antitetiche e la tensione escatologica tra di essi con la direzione irreversibile dal passato al futuro. Osserviamo inoltre che i termini non rappresentano concetti di essere, ma di divenire, di movimento. La conoscenza è di una storia di cui la conoscenza stessa è un avvenimento.
Tra questi termini di movimento quello di essere stati «gettati» in qualcosa colpisce la nostra attenzione, perché è un termine col quale siamo diventati familiari nella letteratura esistenzialista.

Ci ritorna alla mente la frase di Pascal «gettati nell’infinita vastità degli spazi», o quella della Geworfenheit di Heidegger «essendo stati gettati», che per lui è un carattere fondamentale del Dasein, dell’auto-esperienza dell’esistenza.
Il termine, per quanto mi è dato di giudicare, è originariamente gnostico. Nella letteratura mandea è una frase che ricorre di continuo: la vita è stata gettata nel mondo, la luce nella tenebra, l’anima nel corpo. Essa esprime la violenza originaria che mi è stata fatta nel farmi essere dove sono e quello che sono, la passività di emergere senza possibilità di scelta in un modo esistente che non è stato fatto da me e la cui legge non è la mia.

Ma l’immagine del gettare impartisce un carattere dinamico alla totalità dell’esistenza così iniziata. Nella formula su citata ciò è ribadito dall’immagine di affrettarsi verso un fine. Spinta nel mondo, la vita è una specie di traiettoria che proietta se stessa verso il futuro.
Questo ci conduce all’osservazione finale che desidero fare a proposito della formula valentiniana: nei suoi termini temporali essa non contempla in nessun modo un presente, nel cui contenuto sia compresa la conoscenza, e la cui considerazione sostenga dio-architettola spinta in avanti. C’è passato e futuro, da dove veniamo e dove corriamo, e il presente è soltanto il momento della gnosi stessa, l’avventura del passaggio dall’uno all’altro in una crisi suprema del nunc escatologico.

C’è tuttavia da notare una distinzione con i paralleli moderni: nella formula gnostica viene significato che, sebbene siamo gettati nella temporalità, abbiamo un’origine nell’eternità e perciò anche un fine nell’eternità. Questo mette il nichilismo della gnosi, inerente al cosmo, di fronte a un fondamento metafisico che è totalmente assente nel suo corrispondente moderno.

Per tornare ancora una volta al corrispondente moderno, facciamo un’osservazione che potrà colpire lo studioso dell’opera di Heidegger, Essere e Tempo, il programma più profondo ed importante della filosofia esistenzialista.
Heidegger vi svolge una «ontologia fondamentale» in riferimento ai modi in cui l’io «esiste», ossia costituisce il suo essere nell’atto di esistere, dando origine ai significati molteplici di Essere in generale, come correlativi oggettivi. Questi modi sono definiti secondo un certo numero di categorie fondamentali che Heidegger preferisce chiamare «esistenziali».

A differenza delle «categorie» oggettive di Kant, esse corrispondono in primo luogo a strutture non di realtà ma di comprensione, cioè non a strutture conoscibili di un mondo di dati oggettivi, ma a strutture funzionali del movimento attivo di tempo interiore, da cui un «mondo» è mantenuto e l’io è originato come accadimento continuo.
Gli «esistenziali» hanno perciò ciascuno separatamente e tutti assieme un significato profondamente temporale. Sono categorie di tempo interiore o mentale, la vera dimensione dell’esistenza, e articolano quella dimensione nei suoi tempi. Stando così le cose, essi devono presentare e distribuire tra loro i tre orizzonti del tempo: passato, presente e futuro.

Vermeulen-Sisifo
Vermeulen – Sisifo

Ora, se cerchiamo di sistemare questi «esistenziali», le categorie di esistenza di Heidegger, secondo questi tre aspetti principali, cosa che è possibile fare, facciamo una scoperta sorprendente: una scoperta, perlomeno, che mi colpì profondamente quando, al momento in cui il libro apparve, cercai di tracciare il diagramma nella maniera classica di una «tavola di categorie».
È stata la scoperta che la colonna sotto il termine «presente» rimane quasi vuota, almeno per quanto si tratta di modi di esistenza «genuina» o «autentica».

Mi affretto ad aggiungere che questa è un’affermazione estremamente abbreviata. Di fatto, si dicono molte cose sul «presente» esistenziale, ma non precisamente come dimensione indipendente a sé stante. Perché il presente esistenzialmente «genuino» è il presente della «situazione», che è completamente definito in termini di relazione dell’io col suo «futuro» e col suo «passato».
Esso s’accende improvvisamente, per così dire, nella luce della decisione, quando il «futuro» progettato reagisce sul «passato» dato (Geworfenheit) e in questo incontro costituisce ciò che Heidegger chiama il «momento» (Augenblick): il momento, non la durata, è il modo temporale di questo «presente»; una creatura degli altri due orizzonti Valinsky-traiettoriedel tempo, una funzione della loro dinamica incessante, e non una dimensione indipendente in cui poter stazionare.

Tuttavia, distaccato dal suo contesto di movimento interno, il semplice «presente», per se stesso, denota appunto il rifiuto della relazione genuina tra futuro e passato nell’«abbandono» o «remissione» al discorso e all’interesse, e all’anonimia di «ognuno» (Verfallenheit): un fallimento della tensione della vera esistenza, una specie di deficienza dell’essere.
In realtà, Verfallenheit, termine negativo che include anche il significato di degenerazione e deterioramento, è l’«esistenziale» proprio del «presente» come tale, che denota un modo derivato o «deficiente» di esistenza.

Ecco perché abbiamo affermato che tutte le categorie rilevanti di esistenza, quelle che riguardano la possibile autenticità della personalità, si ordinano in coppie correlative sotto i capitoli di passato o di futuro: «fatticità», necessità, essere divenuti, essere stati gettati, colpa, sono modi esistenziali del passato; «esistenza», anticipazione del presente, anticipazione della morte, preoccupazione e risoluzione, sono modi esistenziali del futuro. Non c’è presente per l’esistenza autentica in cui riposare.

Balzando fuori, per così dire, dal passato, l’esistenza si proietta sul futuro; si trova di fronte al suo termine ultimo, la morte; ritorna da questo sguardo escatologico verso il nulla alla pura realtà, al dato immutabile dell’essere, divenuto ciò che c’è hic et nunc; e lo porta avanti con la risolutezza che la morte infonde, nella quale è stato compreso il passato.
Ripeto che non c’è presente in cui riposare, soltanto c’è la crisi tra passato e futuro, solo il momento critico intermedio, in equilibrio sul filo del rasoio della decisione che si getta avanti.

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Questo dinamismo affannoso presentò un’attrattiva terribile per la mente contemporanea, e la mia generazione in Germania negli anni tra i venti e i trenta ne è stata completamente presa. Ma c’è un problema in questa sparizione del presente come ricettacolo di un contenuto genuino, nella sua riduzione ad un punto zero inospitale di risoluzione puramente formale.
Che tipo di situazione metafisica vi si cela?

È opportuno fare qui un’ulteriore osservazione. C’è in fin dei conti, oltre il «presente» esistenziale del momento, la presenza delle cose. Non è possibile che la compresenza con esse offra un «presente» di un genere diverso?
Ma Heidegger ci dice che le cose sono innanzitutto zubanden, ossia utensili (di cui perfino l’«inutilità» è un modo), e perciò in relazione col «progetto» di esistenza e la sua «sollecitudine» (Sorge), e quindi sono incluse nel dinamismo futuro-passato.
Tuttavia esse possono essere ridotte a essere semplicemente vorhanden («poste di fronte a me»), ossia oggetti indifferenti, e il modo della Vorhandenheit è il corrispondente Hasenpflug-macerieoggettivo di ciò che da parte esistenziale è la Verfallenheit, il falso presente.

Vorhanden è ciò che è semplicemente e indifferentemente «ec-stante», il «qui» della nuda natura, per esservi considerato fuori della connessione con la situazione esistenziale e con l’«interesse» pratico. Significa essere ridotti e alienati al modo della muta «cosalità».
Questo è il modo lasciato alla «natura» per quanto riguarda il suo rapporto con la teoria – un modo deficiente di essere –, e la relazione in cui viene oggettivata è un modo deficiente di esistenza, la sua defezione dal futuro della «sollecitudine» nel presente spurio di un interesse di osservatore curioso.

Questa svalutazione esistenzialista del concetto di natura mostra in modo evidente la sua spogliazione spirituale per opera della scienza, ed ha qualcosa in comune col disprezzo gnostico della natura.
Nessuna filosofia si è occupata meno della natura di quanto abbia fatto l’esistenzialismo, il quale non concede ad essa alcuna dignità; questo disinteresse non va però confuso con l’atteggiamento di Socrate, il quale si asteneva dalla ricerca fisica perché pensava che fosse al di sopra della comprensione umana.

La considerazione di ciò che è, della natura come è in se stessa, dell’Essere, era chiamata dagli antichi col nome di «contemplazione», theoria. Ma la differenza ora sta nel fatto che, se la contemplazione ha come oggetto solo l’ec-stante, di nessun rilievo, allora perde la nobile condizione che aveva una volta – come pure il riposo nel presente, al quale trattiene l’osservatore, mediante la presenza dei suoi oggetti.
La theoria aveva quella dignità per le sue implicanze platoniche – perché possedeva gli oggetti eterni sotto forma di cose, una trascendenza dell’essere immutabile che riluceva nella trasparenza del divenire. L’essere immutabile è eterno presente, nel quale può spaventapasseri-nichilistaesserci contemplazione durante i brevi periodi del presente temporale.

Perciò è l’eternità, non il tempo, che garantisce un presente e gli conferisce uno stato proprio nel fluire del tempo; ed è la mancanza di eternità che spiega la mancanza di un autentico presente.
Tale perdita dell’eternità è la sparizione del mondo delle idee e degli ideali, nella quale Heidegger vedeva il vero significato della frase di Nietzsche: «Dio è morto»: in altre parole, la vittoria assoluta del nominalismo sul realismo.

Perciò, la stessa causa che è alla radice del nichilismo è anche alla radice della radicale temporalità dello schema di esistenza di Heidegger, nel quale il presente non è altro che il momento di crisi tra passato e futuro.
Se i valori non sono considerati nella visione dell’essere (come il Bene e il Bello di Platone), ma sono posti dalla volontà come progetti, allora l’esistenza è consegnata a un continuo futuro, che ha la morte come termine ultimo; ed una risoluzione di (voler) essere puramente formale, senza un nomos per quella risoluzione, diventa un progetto dal nulla al nulla.
Secondo le parole di Nietzsche: «Chi ha perso ciò che tu hai perso, non sta fermo in alcun luogo».

(Jonas, Lo gnosticismo)

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La «decisione», non solo quella «esistenziale» che spinge l’Essere a strapparsi alla sua «immediatezza» per saltare a un nuovo modo d’essere, ma qualunque «decisione» che si prende, anche la più banale, implica comunque una «crisi», una discontinuità – κρίσις (da κρίνω) è distinzione, disgiunzione, separazione tra… e la traversata di ogni punto «critico», il passaggio per qualsiasi «momento» di rottura, comporta quella che Deleuze Rouault-tre-giudicinon a caso chiama «l’incrinatura del soggetto [passante]» (tra i due corni del dilemma).

Chi «decide», chi «critica» e «giudica», chi divide et impera «sancendo» ciò che è questo e ciò che è quello, non può fare a meno di fare di se stesso, del suo proprio essere, la barra di frazione tra i due «distinti». È lui che fa ed è legge della sua risoluzione della «crisi». Essere o non essere? – ripete in sordina il «vendicativo» Amleto.
Ma che fa? – come la risolve? sceglie o è costretto? – gioca o è la Necessità dell’Essere che lo obbliga a decidersi per il suo «celibato» eterno?
Oh, povera Ofelia – sapessi…

Lo gnostico dice: è l’Eterno che «si decide», è il Sempre che «si recide», e la vita non è che una traghettata (andata e ritorno) da una sua sponda all’altra. Lo gnostico s’immagina di «vivere» tra i due labbri d’una ferita aperta in principio nell’Eterno Continuo. Lo gnostico ha perciò questo solo problema: come anticipare «momenti» di ritorno all’Eterno, mentre il suo presente è tuttora imprigionato nella cripta cosmica. Il suo, egli lo sa, è il presente di un soggetto fallito in principio, di un soggetto morto alla sua «realtà immediata», che però passa il tempo e a volte perfino si diverte a ricucire alla bell’e meglio gli orli del suo (postumo) travestimento «mitologico».

Fallimento, deficienza, inadeguatezza: siamo alle solite. La «crisi» non è una libera scelta. La «crisi» è lo strappo necessario a che il nostro «esser già falliti» (come Dioniso, o come l’Uomo dei lupi: già nella culla) si separi dal suo grido di dolore, e lo ricacci nel Passato inconscio, per «saltare» a una prima forma aurorale di mitologia: dalla passività di soggetto a sua insaputa emerso a un «altro» mondo, dalla necessità di scoprirsi a essere affiorato, suo malgrado, a una realtà «altra» da quella «voluta»… saltare a un movimento attivo del suo «tempo interiore», a una pazziella, a un dispetto, a una rivendicazione, a un riflusso su se stesso del tempo delle sue «contemplazioni» inconsce, in modo da poter usare il «mondo», perfino il suo essere «inutile», come un giocattolo.

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Sì, siamo alle solite – come il copione «dionisiaco» suggerisce, ogni decisione (e non solo quella «ontologica» di Heidegger) attinge la sua risolutezza dalle energie che la stessa necessità della morte inconscia ha scatenato: in principio fu infatti la Necessità dell’«essere stati gettati» sulla scena del mondo, e tutti i pezzi del dio «squartato» già nella culla da miriadi di Orchi e di Titani, tutti quanti in principio furono «gettati» come dadi sul tavolo dell’esistenza, e al dio, a colui che era stato, altro non rimase che un «soggetto incrinato», nient’altro che un essere «sdoppiato», tante volte quante lo «star di fronte» a ogni frammento del suo corpo, a uno a uno, avesse richiesto. Rimase niente più e niente meno che un essere «rintanato» nella barra oscura di ciascuna frazione. Di un essere «sparito» assieme al suo Presente Eterno.

Però… se il Passato è il Significante e il Futuro il Significato dell’esistenza del piccolo Dioniso, è solo perché nella traversata dall’una all’altra sponda della sua «decisione esistenziale»… nel nodo di quel «momento critico», egli per non affogare negli «innumerevoli», dalla Necessità della sua morte, e solo da quella, estrasse la sua astuzia ludica.
Dioniso, infatti, la Necessità del suo caso, la «fronteggia» mettendola in scena. Dioniso, della Necessità fa la materia prima della sua pazziella. E perciò ai suoi «devoti» manda a Adam-traghettatoredire che, nella traversata dall’una all’altra sponda della propria «crisi», tutto sta a saper fare bene i conti col «traghettatore».

Perché questi sì che sono problemi, una volta che ci si ritrova, già nella culla, sulle rive di Acheronte.
Cosa conviene fare col Barcaiolo? Ringraziarlo per i suoi servigi? Contrattare con lui e nella trattativa, se possibile, ingannarlo? O, come fa Dante, bisogna «domarlo» e da lui pretendere obbedienza al Volere dell’Eterno?
Il Traghettatore, si chiami Uršanabi o Caronte, che sia un drago famelico o un vorace serpente, fa lo stesso: in tutt’e tre i casi, pretende una frazione – un sapersi frazionare del Traghettato, sicché tutto, a quel punto (critico), diventa una questione di intime differenze, un problema di piccoli e di grandi intervalli temporali. Una questione di sfumature o di colori ben distinti.

In tutt’e tre i casi, dice il Filosofo, sono essere e tempo che, nel nodo di una stessa Diade, si nominano e si numerano reciprocamente – il tempo è il [triplice] «senso» che il Passato che non passa, l’Essere inconscio, pretende da se stesso per passare tra le Rocce Cozzanti delle due sponde: è la [triplice] possibilità che il Volere «divino» si dà nel «momento critico», quando la Necessità lo obbliga a decidersi, a recidersi dalla sua incoscienza, e lui, il Volere Passato, che fa? – si mette, nientemeno, a pazziare col «mondo». A prenderlo per un gioco. E a illudersi di scegliere tra le tre pazzie possibili al cospetto del Traghettatore.

Tre pazzie, dice un proverbio sudanese, furono rese degne d’onore: il pari e il dispari, il vicino e il lontano, ma soprattutto il bello e il brutto.
In tutt’e tre è all’opera una passione antica, non dismessa – una passione ereditata dai tempi dell’incoscienza: la passione di saltare, se è il caso, perfino di palo in frasca – pur di non cadere nel Vuoto Irrappresentabile o, come avrebbe detto forse un pitagorico, nel Presente Irrazionale dell’infinitamente piccolo che «separa» il traghetto dalla riva.
Tre pazzie, tre «esistenziali», tre modi umani di adeguarsi, pazziando, alla Necessità dell’«essere stati gettati» sulla scena del mondo, tre reazioni alla sorpresa di trovarsi di botto lontano o, come amavano dire gli Indiani delle Pianure, «a otto polpette» di distanza, dalle radici del proprio essere.