Mi confondo in questo paesaggio senza linee […]
Ah! non potersi vedere! Uno specchio!
(André Gide)
Una linea, un limite, una frontiera. All’interno di questa linea tutto è noto: usi, abitudini, linguaggi, comportamenti, memorie, attese, speranze. Al di là della frontiera si estende l’ignoto, l’altro, il diverso. E da esso è necessario difendersi. Per esempio rafforzando la linea di frontiera, oppure, con audaci incursioni, tentando di estendere i propri confini dentro quel territorio, colonizzandolo, rendendolo via via familiare, nostro: nominando e chiamando coi nostri nomi gli esseri che lo abitano, le cose che vi sono – albero, casa, fonte, torre, giardino.
Forse siamo qui per dire parole,
per dire: Casa, Ponte, Fonte, Porta, Brocca,
Albero, Finestra – ma anche: Torre, Colonna …
ma per dirle, bada bene, per dirle come le cose,
in se stesse, mai pensarono di essere…
(Rilke, Elegie duinesi: 9)
Ma è necessario impedire che invece sia l’ignoto a penetrare nelle nostre terre, rendendo, nei nomi stranieri, innominabili i nostri gesti, le nostre cose, i segni, e inconoscibili i volti e il paesaggio a cui siamo da sempre abituati.
Ma dove sono i confini? Dove passano le linee di frontiera? Quale profilo tracciano sulle mappe dei nostri territori?
Per esempio un colle, che ci è caro attraverso la lunga familiarità che abbiamo avuto con esso, e una siepe, che esclude gran parte dell’orizzonte al di fuori del nostro sguardo. Ed ecco, allora, che al di là di quella, oltre la linea di confine che essa delimita, possiamo immaginare interminati spazi. Spazi dunque senza termine, senza limiti, in cui avvertiamo la presenza di sovrumani, o meglio, di inumani silenzi, e una profonda quiete abissale, che è quasi la percezione di uno sprofondamento mortale. Il cuore spaura in questo attimo di estasi e di panico, in cui l’eterno e le morte stagioni e il tempo presente si confondono, anch’essi senza più limiti e distinzioni.
È la sensazione di ciò che non ha fondo, l’oceano dell’indistinto in cui annega il nostro pensiero. Questo naufragio può essere dolce o terribile, come la vertigine, come la solitudine in mezzo a orridi macigni, nel più desolato dei chiari di luna. È l’esperienza abissale in cui tutto appare incognito, in cui nulla è più conoscibile, in cui non vi è più né senso né limite. Ci troviamo così in un paesaggio stregato, in cui ogni sussurro allude a un’esperienza muta, a una angoscia, che bisbiglia nell’anima con il remoto rumore delle foglie secche.
Pensiamo ora, invece, a un paese, così grande da sembrare, o da essere addirittura illimitato. Qui le distanze sono tali che un corriere, che parta dalla capitale per portare un messaggio dell’imperatore nelle più lontane ed estreme regioni, sa che giungerà al termine del viaggio come la luce di una stella morta. Forse l’imperatore che aveva stilato il messaggio non ricorda più l’ordine, o forse egli stesso non esiste più, e ora regna il figlio, o il nipote, che nulla sanno di esso, e del corriere, e del viaggio. E forse anche il destinatario è morto, e comunque, certamente la situazione è mutata, e il messaggio è divenuto inutile.
Questo paese non è un paese. Per diventarlo deve essere circondato da una frontiera che renda certi gli spazi, limitato l’illimitato. In esso devono essere tracciate vie, strade e percorsi, che lo dividano in regioni e province, altrimenti tutto rischia di sgretolarsi, e svanire in una confusa leggenda.
E dunque si inizia la costruzione di un’immensa muraglia, un’impresa che dura decenni, che si prolunga per secoli, lungo l’arco teso di un numero quasi incalcolabile di generazioni. Ma via via che la costruzione procede, segno dell’orgoglioso tentativo di porre dei limiti all’illimitata molteplicità del mondo, e all’esperienza che noi ne abbiamo, essa, alle spalle, già è rovina. La rovina avanza con lo stesso ritmo con cui avanza la muraglia, come una barriera che si apre proprio mentre cerca di chiudere un territorio entro i suoi limiti, come lo sfrangiarsi di una linea tracciata su di un foglio poroso, come il disseccarsi di una traccia di lumaca sul muro. E ciò che resta non è che il segno di un impossibile.
Pensiamo allora non più a uno spazio così illimitato che appare insensato il solo pensiero di delimitarlo. Pensiamo invece a un luogo che, rispetto a quello, appare tanto piccolo da essere appena discernibile. Pensiamo per esempio a un corpo.
La sua geografia appare, a un primo sguardo, certa e indiscutibile: un volto, un sorriso, le mani, i gesti, lo spazio che esso occupa nel mondo, i desideri e i bisogni che lo attraversano. E anche qui le cose si complicano subito.

Un corpo è protetto e difeso dai vestiti, che lo schermano e lo nascondono alla vista, ma anche, paradossalmente, dall’assoluta nudità che obbliga ad abbassare lo sguardo. Vergogna e pudore, nascondimento e nudità, sono armi di offesa e di difesa, e non è mai possibile, fra queste, stabilire un limite certo.
Ma ammettiamo pure di aver attraversato questa zona difensiva, o offensiva, e di essere penetrati nel luogo in cui l’individuo consiste nella sua soggettività, il luogo in cui esso ha nome. Ma nemmeno questo luogo è sicuro e delimitato. Infatti, come ha ricordato Thomas Mann, «non si può negare che i demoni e l’irrazionale abbiano una parte sconcertante in questa zona radiosa, e che tra essa e il regno infero esista sempre un collegamento». E così il nostro essere, anche «il più puro», non solo non è difeso da queste influenze, ma è addirittura «bisognoso del fecondo contatto con esse».
Il brivido, che sempre ci attraversa di fronte alla malattia, alle mostruosità, agli ibridi e agli incroci inaspettati che popolano il mondo naturale, non è forse il brivido di orrore di fronte alla percezione della labilità, dell’evanescenza di ogni confine, di ogni linea di difesa, che crediamo di aver eretto fra noi e la molteplicità incontrollabile del mondo, fra noi e le «potenze infere» che abitano al nostro interno?
L’inconscio, con il suo statuto alogico e atemporale, può in ogni istante irrompere nella coscienza più vigile e attenta, può turbare, e anche spezzare la catena delle cause e degli effetti, dei prima e dei dopo, del bene e del male, che pensavamo potessero tenere salda la nostra esperienza del mondo, la nostra esperienza del corpo e della sua ombra.
Breton, abbandonando la catena causale, parlava orgogliosamente della catena di vetro che lega, in un nesso indissolubile, le corrispondenze più remote, consegnandole così allo spirito come una nuova linea conquistata, che ha il potere, la consistenza, la durezza della metafisica cartesiana. Ma se gli anelli della catena, le corrispondenze, si mutano in «coincidenze pietrificanti»? E se la «casa di vetro», in cui appunto Breton invitava a vivere in una nuova conquistata clarté, si muta essa stessa in vitreo sarcofago?
Interroghiamo, a questo punto, Kafka, l’agrimensore, colui che più accuratamente ha studiato la questione dei limiti. E scopriamo allora una serie di raccapriccianti descrizioni di situazioni in cui il limite si riduce ad una linea d’ombra, ben presto anch’essa illuminata dalla luce tagliente, che scopre l’illimitato che sovrasta l’infinita miseria della creatura. Situazioni in cui ogni gesto difensivo lascia sempre più inermi e senza resistenze di fronte al potere, alla legge, al tempo, al destino, all’orrore. Come se il gesto difensivo fosse legato da una segreta e incomprensibile complicità con ciò contro cui esso è stato pensato. Joseph K. si avvicina egli stesso, passo dopo passo, all’esecuzione della condanna, che alla fine lo coglie in un sentimento di vergogna e di ridicola inanità. Nulla resiste, egli pensa, a chi vuole veramente vivere. Ma i gesti, gli atti, che dovevano appunto proteggere questa vita, non sono stati che mosse di avvicinamento alla morte, un progressivo indebolimento della «tentazione di vivere».
Le descrizioni di Kafka assomigliano davvero alle relazioni di un agrimensore, di un misuratore dei territori dell’assurdo, in cui una creatura finita combatte una lotta interminata con l’infinito. In una di queste sue relazioni egli ci parla di un complicatissimo sistema difensivo congegnato da un essere strano, forse un animale, che vive in una tana nascosta nelle profondità della terra, come lo stesso Kafka, quando sognava di vivere in una cantina protetta da altre cantine.
Un complicato sistema di cunicoli, di gallerie, di falsi ingressi e di uscite illusorie, dovrebbe garantire alla tana una sicurezza assoluta. Infatti è difficile che qualcuno possa individuarla, mimetizzata com’è e indistinguibile dalle irregolarità del terreno. Ed è difficilissimo che qualcuno possa entrarci, dato il complicato sistema dei falsi ingressi che non conducono a nulla. Ma è impossibile che uno, una volta entrato, ammettendo che ciò sia possibile, possa orientarsi nel labirinto delle sue gallerie. Eppure, un giorno un piccolo e strano rumore, una specie di sibilo, sconvolge tutto l’intricato sistema di difesa, tutto quell’ordine faticosamente costruito. Ed è la stessa perfezione del sistema difensivo, che impedisce che si possa scoprire la falla, il punto in cui esso ha ceduto, permettendo che il vago rumore, certamente un segnale di un pericolo incombente o almeno possibile, pervada tutto lo spazio della tana.
L’animale, l’essere, colui che comunque abita qui, ripercorre prima metodicamente, poi freneticamente e disperatamente ogni andito, rafforza qualche punto debole, distrugge vie che non gli sembrano più sicure, cerca di ricostruire, o di tracciare altri tragitti possibili.
E via via che l’attività entra nella follia, il sistema difensivo si rovescia nel suo opposto, e diventa esso stesso uno strumento di offesa e di attacco e di morte. L’essere della tana finisce sempre più avviluppato nelle maglie del sistema che egli stesso ha creato, che si trasforma in una macchina di tortura, nello strumento che lo farà perire in mezzo ai più terribili tormenti.
Ancora una volta, nel testo di Kafka, si allude alla mostruosa complicità fra la vittima e il carnefice. Forse è questo il segreto delle lettere misteriose che la macchina della Colonia penale iscrive sul corpo della vittima.
La tana con i suoi labirinti è un simbolo, oppure è la descrizione di un luogo reale? Pensiamo per esempio a una città, ai suoi avvicendamenti, alle sue intermittenze, alle nebbie e ai vapori che stagnano incongrui in certi suoi angoli, al brusio continuo, al silenzio che talvolta l’attraversa come una sensazione di vuoto incolmabile. Una metropoli che nulla distingue, aveva detto già Baudelaire, da una foresta inestricabile e pericolosa. Come difendersi all’interno di una città? Quali sono le sue frontiere e le sue linee di difesa? Quali sono i suoi limiti? Qual è il punto in cui essa comincia e il punto in cui essa finisce? Qual è il suo fuori e il suo dentro? Chi in essa non è straniero?
Un giorno, racconta Edgar Allan Poe, un tale osserva l’infinito fluire della folla dalla finestra di un caffè, ed è colpito, all’improvviso, dalla fisionomia strana, al punto da essere sconvolgente, di un personaggio che si aggira furtivo, con uno scopo certo ma inidentificabile, come spinto da forze sconosciute ma irresistibili. Egli è così colpito da questo atteggiamento, che inizia un inseguimento, per scoprire il senso e le ragioni di un fare così circospetto e incomprensibile. E inizia così un incoerente andirivieni, attraverso tutte le strade e tutti i luoghi della città.

Solo al mattino, dopo questo interminabile e continuo girovagare senza soste, il senso di tutto ciò appare chiaro e manifesto. Quell’uomo per tutto il tempo ha cercato affannosamente di nascondersi e di difendersi nella folla. Egli ha seguito, in ogni istante delle lunghe ore del suo disperato vagabondaggio, la folla, all’uscita dagli uffici, all’uscita dai teatri e dai ristoranti, nelle bettole e nei luoghi notturni della città. Egli è dunque stato come immobile dentro la folla: l’unico luogo, nella città, che abbia ancora la parvenza di una frontiera, di un limite, di un sistema difensivo.
La massa ha infatti un grado di impermeabilità che nessuna muraglia cinese può eguagliare. La massa resiste istintivamente e spietatamente a ciò che si presenta come altro, il diverso, l’anomalo rispetto alle leggi mutevoli che la governano. Per questo il potere, come ha dimostrato Canetti, si è sempre fondato sulla sua capacità di usare, per i suoi fini, questa natura compatta ed esclusiva della massa. La complicità che si istaura fra massa e potere diventa quasi invincibile, quando il potere sa suscitare fantasmi di alterità, che potrebbero disgregare quella fluttuante unità, e quando sa proporre le parole in cui la massa possa esprimere la sua incerta identità, in quanto essa, in sé, è informe e senza parole.
Le parole che il potere offre alla massa sono quasi sempre le parole del «sacro» e del «sacrificio»: l’uccisione o l’annullamento sacrificale del fantasma che accoglie su di sé le stigmate della diversità, la maledizione dell’errante, di colui che è senza patria, dell’ebreo. L’identità, costruita sul sacrificio comune, è sempre quella della memoria mitica, che attraversa la storia come una scena vuota e affonda in un tempo informe, che assume per ciò stesso il senso di un sigillo dell’origine.
La massa, infatti, rifiuta la discontinuità e cerca costantemente la continuità – nel mito della terra, nello «spirito» del popolo e della razza, fino al presente in cui tutto ciò si ripete. Il potere seduce la massa anche con le parole della rivoluzione, quando queste sono rivolte verso ciò che ostacola l’eterno ritorno. La rottura rivoluzionaria con il presente deve porre nella condizione di accedere al passato per ripeterlo. Continuità nel tempo e omogeneità attraversano la massa e legano tutti i suoi membri in un unico corpo. Là dove il passato mitico non sembra essere entrato in gioco, è perché è stato anch’esso sacrificato, in una sorta di olocausto della memoria, al futuro inteso come meta originaria, come il luogo a cui da sempre tendiamo.
Ma proprio quando la massa sembra più compatta, e dunque più protetta verso l’esterno, là dove, dunque, sembra risiedere la sua forza, lì sta anche la sua debolezza. L’uomo della folla di Poe ne è un esempio. Egli si occulta via via in mezzo agli impiegati, ai borghesi, ai nottambuli, ma egli non è uno di loro.
La massa, che appariva così impermeabile, è di fatto porosa: lo accoglie ed egli, in essa, si può mimetizzare come un animale in mezzo al fogliame della foresta, pur rimanendo un corpo estraneo, che dunque la massa non sa riconoscere come tale. E Baudelaire, per esempio, odiando la folla poteva occultarsi in essa, come un nemico che si nasconde dietro le file avversarie. La folla lo accoglieva inconsapevole nel suo moto ondoso e avvolgente, con il suo caldo e cieco respiro.
La massa, allora, questo aggregato di individui e di gruppi, si scinde nuovamente in mute e gruppi distinti. Si tracciano nuovi limiti e nuove frontiere. Con queste finisce l’epoca dell’uomo della folla e inizia una nuova storia.
Le frontiere invisibili delle città. La grande metropoli odierna è attraversata da una miriade di linee di confine, riconoscibili appena, per segni incerti e mutevoli, solo dall’occhio esercitato del nuovo viaggiatore metropolitano. Questi confini invisibili tracciano una geografia strana e talvolta pericolosa, tagliano in modo apparentemente insensato strade, quartieri, crocicchi. Dividono anche gli abitatori del giorno dagli abitatori della notte. Delimitano territori di caccia e di rapina e luoghi di tregua e di quiete, in cui cacciatori e prede alla fine si posano inquieti, nell’attesa di una nuova fuga e di un nuovo inseguimento.
L’uomo della folla di Poe non potrebbe più oggi occultarsi di notte nella massa urbana. Ancora compatta in certe ore del giorno, essa di notte appunto si divide in gruppi e in terribili viandanti solitari. Lo straniero, che varca una delle loro frontiere, è immediatamente individuato e colpito. I guerrieri della notte non ammettono incursioni all’interno dei loro territori. Infatti, ciò che delimita le frontiere invisibili della città è proprio la violenza, la battaglia e la lotta, che le difendono. E quando non esiste più una preda straniera da braccare, i guerrieri della notte combattono fra di loro, gruppo contro gruppo, muta contro muta. La feroce battaglia ha, ancora una volta, come le battaglie del passato, lo scopo di mantenere vivo nella mente di ognuno il profilo delle frontiere. Il sangue e il furore sono proprio ciò che le garantisce: le legittima in quanto tali. Ma nessuno può ritenersi a lungo garantito da esse. Nessuno le conosce una volta per tutte.
La loro caratteristica, ciò che le rende appunto invisibili, è il loro continuo mutare, la metamorfosi del disegno che esse via via tracciano, continuamente diverso, quasi ogni notte modificato. Quartieri prima tranquilli diventano all’improvviso luoghi di scontri feroci. E, viceversa, incroci e strade fino al giorno prima intransitabili, si distendono ora in una quiete assoluta, in cui si può girare senza pericolo, ma come nell’ansia di un deserto o di una città morta, lambita da ogni lato dai rumori delle battaglie lontane, dalle luci e dai movimenti e dagli stridori che sembrano ormai provenire da un altro pianeta.
In questo luogo di quiete muta, si scorgono le ombre di chi si muove solitario, chiuso in un cupo sogno di distruzione, di autodistruzione e di morte. Di chi è andato ormai così lontano da tutto che non può più trovare né complici né avversari. Il passo incerto dei drogati, le insicure movenze dei reietti, di quelli che, non appartenendo più ad alcun gruppo, scivolano, come in una buia vertigine, nel cuore più oscuro della città. […]
E se la difesa fosse un giorno cercata non più in ciò che esclude, nel sacrificio violento del «fuori», ma nell’apertura?
Se si cercasse, anziché respingere le istanze del corpo e della memoria come forze infere, di connettere queste forze, di articolarle in una ragione più grande? E se la frontiera non fosse più una linea di difesa e di offesa, ma una linea di transito? Se si cercasse, anziché difendersi dal mutamento, di dirigerlo, mutando noi stessi con le cose e gli eventi che così veniamo a determinare?
Il mutamento, al di fuori di una metafisica progressiva ed evolutiva, si presenta sempre come una rottura, come la catastrofe dei limiti, degli ordini, degli statuti. Montale ha parlato di questo «minuto violento», del panico di fronte all’incognito, che fa preferire ore morte, bigie, vacillanti. Che fa preferire, forse, un viaggio senza meta, in un luogo in cui «sensi non ho; né senso. Non ho limite».
Ciò che inizia è terribile. Anche la bellezza, come ha detto Rilke, all’inizio lo è, perché l’inizio è sempre il dispiegamento del possibile, il gioco aperto delle possibilità, che spezzano le abitudini, almeno quelle che non sappiamo tramandare nel nuovo, in un transito tra ciò che è stato e ciò che ancora deve venire, in cui solo possiamo pensare a delle frontiere che non si trasformino in terribili macchine penali. Frontiere che non siano momenti di esclusione e di distinzione soltanto, ma anche momenti di mescolanza: vie aperte alla scoperta e all’avventura.
(Rella, Metamorfosi)