Mandan – La visita in cielo

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Nei tempi lontani in cui i villaggi erano raggruppati alla foce del fiume Heart, c’era un grande capo, padre di due figli nati da diverso letto. Il maggiore, saggio e prudente, si chiamava Rimedio-Nero; il minore, chiamato «Pietra che cresce sotto vento» o Rimedio-Profumato secondo le versioni, agiva impulsivamente e non aveva rispetto per nulla.

Un giorno, mentre erano a caccia, i due fratelli si accorsero che la selvaggina si faceva sempre più rara. A forza di cercare, giunsero fino a una capanna da dove uscì un individuo carico di gravi pesi, il quale finse di non vederli.
I due fratelli entrarono nella capanna, che era molto confortevole; su un bel fuoco arrostivano carni scelte. Dopo aver atteso invano il ritorno del proprietario, essi mangiarono e bevvero a sazietà, poi si addormentarono.

Il giorno dopo andarono verso sud-ovest, nella direzione che aveva preso il loro ospite; non videro però traccia di selvaggina, né scorsero lo sconosciuto. Nel momento in cui i fratelli facevano ritorno alla capanna, questi ne uscì, carico come il giorno prima, e scomparve senza rivolger loro uno sguardo o una parola.
Decisi a chiarire questo mistero, il giorno dopo i fratelli fecero in modo di raggiungere la capanna dirigendosi contro vento, affinché l’uomo non potesse avvertire la loro guerriero-Hidatsapresenza. Appena uscì, si gettarono su di lui, e il suo fardello, cadendo, fece un tale rumore che si udì a grande distanza. Ne uscirono fuori tutte le diverse specie di selvaggina, poiché era lui che le teneva prigioniere.

Dopo aver passato la notte nella capanna, i nostri eroi si rimisero in cammino. Scorsero una specie di bulicame bianco, sul quale Rimedio-Profumato tirò imprudentemente una freccia nonostante gli avvertimenti del fratello. Si trattava di un tornado, che si scatenò e li trascinò nei suoi vortici, lasciando loro appena il tempo di attaccarsi l’uno all’altro con le corde di cuoio dei loro archi.
Essi sorvolarono Grand-River, nella regione degli Arikara, e atterrarono in un’isola che faceva parte di un arcipelago. Tutt’intorno l’acqua si stendeva a perdita d’occhio.

Il giorno dopo partirono in esplorazione: un sentiero li condusse fino a una grande capanna in mezzo agli orti e ai campi di mais. Una vecchia, che era la «Vecchia che non muore mai», li accolse benevolmente e servì loro della farinata di mais in un paiolo minuscolo ma inesauribile.
I fratelli, che desideravano anche della carne, uccisero un cervide che passava davanti alla porta. La vecchia acconsentì a cucinarlo, ma non lo assaggiò neppure, e in seguito avvertì i cervi di tenersi a debita distanza. Se volevano, i fratelli potevano cacciarli, ma a patto di cuocerli e di mangiarli lontano dalla capanna, in fondo ai boschi, perché erano proprio quegli animali ad aver cura degli orti.

Un giorno la vecchia proibì ai fratelli di andare a caccia. Nascosti in un angolo, essi videro penetrare nella capanna delle giovani donne che portavano offerte di carne secca vecchia-Klamathe piatti cucinati. Erano le divinità del mais che ogni autunno venivano a rifugiarsi dalla vecchia fino al ritorno della primavera. Poco dopo, esse si mutarono in pannocchie che la vecchia ripose con cura, facendo un posto speciale a ogni varietà. Le offerte sarebbero servite da provviste per l’inverno.

I fratelli si stancarono di quella vita inattiva e vollero tornare a casa. La vecchia, bonariamente, li lasciò andare e diede loro delle polpette di «quattro-in-uno» – un misto di mais, fagioli, semi di girasole e zucca bollita –, destinate a un serpente che li avrebbe aiutati a passare il fiume.
Questo serpente cornuto, con la testa coperta di erbe, di artemisie, di salici e di pioppi, doveva essere il quarto di un gruppo di traghettatori. Gli eroi dovevano badare a non servirsi dei primi tre: un serpente con un solo corno, un secondo serpente dalle corna forcute, e un altro dalla testa cornuta e ingombra di piante giovani. La vecchia raccomandò ai fratelli di esigere che il serpente poggiasse la testa sulla riva, e di approfittare di quel momento per saltare a terra.

Le cose si svolsero nel modo previsto; il serpente, rimesso in forze dalle polpette, riuscì a raggiungere l’altra riva, ma non poté posare la testa sulla terraferma. Rimedio-Nero, nel saltare, rischiò di essere divorato. Il fratello invece volle a tutti i costi avvicinarsi alla riva servendosi del serpente come imbarcadero ma, quando giunse all’altezza del naso, il mostro lo afferrò.
Comodamente installato nelle enormi fauci del serpente, Rimedio-Profumato invitò il fratello maggiore a raggiungerlo. Costui, più saggio, rifiutò piangendo.

Continuarono così per tre giorni. La notte seguente, Rimedio-Nero scorse nell’acqua il riflesso di un personaggio sconosciuto, che portava un mantello di pelliccia col pelo fuori e che lo guardava dall’alto, sospeso in aria, curioso di sapere la causa di tutti quei lamenti. Se il serpente saliva periodicamente in superficie, spiegò lo sconosciuto, era per avere delle polpette. Poiché la provvista di Rimedio-Nero era esaurita, il suo protettore gli diede una polpetta fatta di semi di girasole impastati con molto sterco di coniglio e pochissimo mais.

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Il quarto giorno, l’eroe la offrì al serpente, pregandolo di spalancare la bocca per permettergli di vedere un’ultima volta il fratello. Il serpente acconsentì, ma rifiutò di posare la testa sulla terraferma. Si preoccupava di sapere se in cielo c’erano nuvole nere. Rimedio-Nero sostenne di no, afferrò il fratello per il polso e lo tirò a terra. Nello stesso momento un fulmine cadde sul serpente, che morì sul colpo.

Il protettore sconosciuto, che era un Uccello-Tuono, fece riprendere i sensi ai due fratelli svenuti e li portò con sé. Egli aveva una moglie e due figlie, che si misero subito a tagliare a pezzi il serpente. Quanto alla moglie, essa restava a letto tutto il giorno.
Notando come i suoi ospiti fossero attivi e dotati di poteri eccezionali, l’Uccello-Tuono offrì loro le figlie in matrimonio: la più anziana al maggiore, la più giovane al minore. Nonostante gli avvertimenti del suocero, i due eroi si gettarono in una serie di avventure pericolose, da cui uscirono vittoriosi dopo aver distrutto dei mostri che terrorizzavano gli uccelli. Guarirono anche la suocera, la quale era stata ferita a un piede da un aculeo di porcospino ed era ormai inferma, impedendo così agli uccelli di compiere la loro migrazione primaverile [variante: la donna, che è un’aquila, si è ferita piombando dall’alto del cielo su un porcospino per rapirlo].uccello-tuono-Haida

Un giorno l’Uccello-Tuono pregò i due fratelli di nascondersi in un angolo della capanna, perché aspettava dei parenti. Arrivarono via via cornacchie, corvi, poiane e aquile, e ciascuno prese posto secondo la sua specie o la sua varietà.
Dopo un banchetto di carne di anfisbena, l’ultimo in ordine di tempo fra i mostri uccisi dagli eroi, l’Uccello-Tuono attribuì loro pubblicamente il merito di quella preda e li presentò ai suoi, i quali furono poi congedati perché ormai era autunno: si sarebbero ritrovati a primavera per fare la strada insieme.

Gli uccelli andarono a svernare nei loro vecchi nidi. Quando tornò la primavera, epoca della migrazione verso monte, essi si riunirono e decisero di rendere gli eroi simili a loro perché potessero volare tutti assieme. Li trasformarono in uova, e da queste i due fratelli rinacquero sotto forma di aquile calve che impararono subito a volare.
Si misero in viaggio tutti quanti, risalendo la valle del Missouri. Saggiamente consigliati dalle mogli, i due fratelli scelsero le più vecchie e le più sciupate fra tutte le armi che gli uccelli offrirono loro, perché erano proprio quelle che avevano il magico potere di produrre i fulmini e di uccidere i serpenti. Quando lo stormo sorvolò il villaggio dei Mandan, il padre degli eroi celebrava i riti in onore degli uccelli come faceva ogni anno nella stessa epoca.

I due uomini vollero tornare a casa, e invitarono le spose a seguirli. Ma esse rifiutarono, perché temevano di sentirsi a disaggio accanto a degli esseri umani; diedero però ai mariti delle piume magiche destinate a sostituirle nei riti che, da allora in poi, gli Indiani avrebbero dovuto celebrare anche in autunno, quando gli uccelli ripartono verso sud.

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aquila-nativi-americaniC’è molto da dire su questo mito, e cominceremo col presentare alla rinfusa un certo numero di osservazioni più o meno importanti, ma che possono contribuire, ciascuna a suo modo, alla comprensione del racconto.
Prima di tutto, l’episodio della donna ferita al piede lo ricollega ai miti sulla disputa degli astri, appartenenti a quella che abbiamo chiamato, secondo Thompson, la «redazione porcospino». Infatti, questo episodio centrale è un puro e semplice capovolgimento dell’episodio iniziale dell’altra redazione.
Là, un porcospino fa muovere una ragazza da maritare che desidera l’animale per ragioni culturali: si tratta di permettere alla madre di finire dei lavori di ricamo; la ragazza si ritrova così trascinata dalla terra al cielo, cioè dal basso verso l’alto, dove essa sposerà un marito celeste. Qui, invece, una madre che ha delle figlie da maritare viene immobilizzata da un porcospino desiderato per ragioni naturali, giacché si tratta di mangiarlo (essa è infatti un’aquila).

Inoltre, il porcospino l’aveva attirata dal cielo fino alla terra, cioè dall’alto verso il basso, cosicché le sue figlie celesti avranno mariti terrestri. Il legame risulterà ancora più evidente se si tiene presente che, in un altro mito Mandan, una versione della disputa degli astri sostituisce la visita agli uccelli e fa seguito al soggiorno di due fratelli presso la «Vecchia che non muore mai» e alle loro avventure con il serpente.
In questo mito, l’episodio del serpente ne precede un altro che si riferisce alla trasformazione del fratello folle in serpente acquatico, trasformazione dovuta al fatto che egli ha consumato la carne di un secondo rettile a cui gli eroi hanno perforato il corpo. […]

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Sebbene fondi dei riti di guerra, il nostro mito rimanda anche ai riti della caccia usuale, poiché all’inizio accenna alla liberazione della selvaggina tenuta prigioniera da un personaggio che qui è lasciato nell’ombra, ma che il mito fondatore dell’okipa indica col nome di Hoita, l’aquila chiazzata.
Questa triplice associazione della guerra, della caccia profana e della caccia sacra si spiega col fatto che gli Indiani delle Pianure concepiscono la guerra come una forma limite della caccia in genere, di cui quella alle aquile assomma tutti i simboli ed esalta le diverse caratteristiche.
Noteremo anche che il fratello folle assume un comportamento simile a quello di Oxinhede, il «folle» delle danze dell’okipa. Il primo invita il fratello a raggiungerlo nelle fauci del mostro ctonio, il secondo invita il Sole cannibale, suo padre, ad avvicinarsi agli esseri umani. Di conseguenza, in entrambi i casi, la follia consiste nell’illudersi di poter fare a meno di una mediazione.

Ma torniamo al nostro mito. Uno dei fratelli si chiama Rimedio-Nero, che è il nome di una pianta dai poteri emostatici, usata per curare le ferite provocate dalle aquile e le morsicature dei serpenti […]. In maniera diretta [Rimedio-Profumato] o con una perifrasi [Pietra che cresce sotto vento], anche i nomi dell’altro fratello indicano un’erba medicinale… «che fa bene al sangue», come dicono i Cheyenne, i quali chiamano col suo nome uno dei loro eroi culturali.
Delle due piante, una è nera e l’altra è marrone, come sono rispettivamente neri e marrone i mitici carcajou che una volta si dividevano i territori per la caccia alle aquile, sulle due rive del Missouri.

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Il fiume scorre secondo un asse che va da nord-ovest a sud-est e che divide l’universo in due parti: quella occidentale (comprendente il sud) e quella orientale (comprendente il nord). Differenti demiurghi si occuparono della creazione degli esseri animati e inanimati nelle due regioni. Rispettivamente associate all’occidente e all’oriente, le metà tribali perpetuavano per i Mandan il ricordo di questo dualismo fondamentale.
I nostri due eroi – i cui rapporti di opposizione e di correlazione sono contrassegnati ancor più nettamente quando essi compaiono in altri miti sotto le spoglie del «gemello accettato nella capanna» e del «gemello gettato nel torrente» – viaggiano all’inizio verso sud-est, dove risiede la «Vecchia che non muore mai» e dove arrivano gli uccelli, condotti dalle migrazioni autunnali. A primavera, essi accompagnano gli uccelli stessi in direzione nord-ovest.

Ma, per andare da oriente verso occidente, devono prima attraversare l’acqua. È l’acqua, infatti, che separa e al tempo stesso unisce; essa segna il confine fra i due mondi, ma è proprio seguendo il suo tracciato che gli uccelli, quando risalgono o discendono la valle del Missouri durante le loro migrazioni stagionali, passano senza difficoltà da un mondo all’altro.

Il racconto mitico non si situa però soltanto entro un determinato spazio, ma si svolge anche nel tempo. Un primo ciclo stagionale si inizia con un tornado o un ciclone, tornado-artfenomeni meteorologici che i Mandan e gli Hidatsa associano al nord-est. «Una volta, dice un informatore, i cicloni erano solo a oriente».
Questo ciclone determina la traslazione orizzontale dei due fratelli, legati l’uno all’altro, verso l’isola della «Vecchia che non muore mai», dove essi trascorrono l’estate, l’autunno e l’inverno. A primavera si rimettono in cammino e, non appena si dividono, un temporale personificato [l’Uccello-Tuono] provoca la loro ascesa verticale al cielo, dove soggiorneranno ancora per un anno, fino alla primavera seguente.

Questo calendario mitico è in accordo con i fatti. Le cerimonie più importanti venivano celebrate a primavera, quando i «grandi uccelli» – aquile, poiane, corvi e cornacchie – risalivano verso nord-ovest, in direzione delle «terre cattive» e delle Montagne Rocciose. Si trattava allora di fare onore agli uccelli, affinché si avvicinassero ai villaggi e vi portassero la pioggia, indispensabile per i campi e per gli orti. Queste cerimonie coincidevano con i primi temporali primaverili e seguivano i riti per la «Vecchia che non muore mai». Infatti, gli uccelli acquatici dei quali la Vecchia è signora, e che la religione indigena associava in uno stesso culto agli Spiriti femminili del mais descritti nel nostro mito, risalivano verso nord prima del completo scioglimento delle nevi; i rapaci giungevano più tardi.
Invece, d’autunno si celebravano per primi i riti dedicati ai rapaci, poiché si pensava che, cacciando, essi avrebbero indugiato lungo il Missouri durante il loro viaggio verso sud, mentre gli uccelli acquatici – oche, cigni e anatre – si mettevano in cammino solo al sopraggiungere del freddo intenso.

Per i grandi uccelli esistevano dunque due serie di riti. La prima ne celebrava l’arrivo a primavera, la seconda salutava la loro partenza in autunno.
Si sarà notato che, per spiegare l’origine assoluta di questi riti, il nostro mito vuole render ragione del loro duplicarsi autunnale. I riti primaverili dovevano essere già in rapaci-paintvigore al tempo del mito, dal momento che il padre degli eroi [il grande capo] li celebra quando gli uccelli sorvolano il suo villaggio. Ma, prima di dire addio ai mariti, le figlie degli Uccelli-Tuoni ordinano loro di celebrare da quel momento in poi i medesimi riti, anche d’autunno.

Questo punto è importante, poiché le versioni Hidatsa divergono dal nostro racconto Mandan sotto vari aspetti. O l’episodio della visita agli uccelli permane, ma allora l’infermità affligge non già una sposa, ma un figlio degli uccelli, ferito dal corno di un cervide anziché da un aculeo di porcospino; oppure la visita in cielo scompare ed è sostituita da una visita, verso occidente, al gran serpente signore dei bisonti, che gli eroi riescono ad ingannare. In entrambi i casi, il fratello folle commette l’errore di consumare la carne del serpente, e si muta in un grande rettile in fondo al Missouri.
Ora, almeno una delle versioni Hidatsa si riferisce in maniera esplicita all’istituzione dei riti primaverili: «Egli (cioè l’eroe) annuncia che celebrerà la cerimonia per i grandi uccelli e avverte la popolazione che, all’inizio della primavera, per quattro giorni il tempo sarà coperto e piovoso; subito dopo, dal sud arriveranno gli uccelli».
Sembra dunque che, passando dai Mandan agli Hidatsa, la funzione eziologica del mito si inverta riguardo al calendario cerimoniale e al tempo stesso determini le trasformazioni in racconti che, sotto ogni altro aspetto, sono paralleli.

(Lévi-Strauss, Le origini delle buone maniere a tavola)

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Da un mito all’altro, dice Lévi-Strauss, il pensiero mitico si riserva il diritto di capovolgerne il senso. Detto in altri termini: il pensiero mitico si costituisce, esso da sé, come una sorta di Equinozio Perenne, indifferentemente oscillante dal Giorno alla Notte come dalla Notte al Giorno – equinozio, perciò, d’autunno e non solo di primavera: Equinozio di quella Primavera Eterna che è l’astuzia creativa del Mito stesso, sempre capace di strappi e di cuciture, di disgiunzioni e opposizioni, ma insieme di ricongiunzioni e di correlazioni – capace, dunque, di ogni sorta di simmetria, a cominciare da quella che al Mito è forse la più cara: la simmetria inversa, la sola che ha Deschambeault-erosla potenza di risuscitare Eros da Thanatos. La potenza di rinascere dalle proprie ceneri.

I «racconti paralleli» che si rinviano e si rovesciano dai Mandan agli Hidatsa, non sono che il dritto e il rovescio di un «si dice» del Racconto delle Pianure: si dice, per es., che una volta i cicloni erano solo a oriente, ma si dice anche che un giorno (o, forse, una notte) da oriente essi presero a scaricare la loro «furia» a occidente.
Da allora, la Primavera del Pensiero Mitico è chiamata a raddoppiare i suoi «riti», e a capovolgerne il senso primaverile al cadere d’ogni foglia d’autunno. Chiamata cioè a disorientarsi, per ritrovare Se Stessa. Chiamata a ritrovarsi in una «ubiquità». A essere sia qua sia là. A sussistere in entrambi i luoghi, e in tutt’e due le «dicerie» possibili, della sua feconda Ambiguità.

Risuscitare, perciò, Eros da Thanatos, risorgere [dopo tre giorni/notti] dal proprio sepolcro, stando alla «filosofia» praticata sulle due opposte sponde del Missouri, è possibile solo a un Pensiero che è «morto» all’unità dell’«Uno originario», per dirla con Nietzsche – ma che da questa «morte» ha saputo estrarre la forza di rivivere, sia pure sdoppiato in «due fratelli», uno saggio e l’altro idiota, uno assennato e l’altro folle (all’incirca come i «nostri» Prometeo e Epimeteo).

Non è forse così che comincia il nostro racconto? Non dice forse che c’era una volta un padre, un grande capo, che aveva due figli, due «rimedi», a portata di mano? E la «madre», viene da chiedersi, che fine ha fatto? Non è, la sua «assenza», proprio essa, la x, l’«incognita» di tutto il racconto, che può «apparire» solo là dove «manca» ai figli suoi?
E ancora: che ne sarà di questi «due», una volta finita la stagione «unitaria» del Pensiero [inconscio]? Una volta che il Pensiero sarà stato «morto» alla sua [inconscia] immediatezza, avrà da fare i conti con i miti e con i riti del Padre – sarà cioè chiamato a «misurarsi» con la sintassi del Nome del Padre, con le istituzioni del Discorso così come le declina la lingua paterna. Chiamato a disgiungersi dalle sue «serie espressive», dalle sue naturali «connessioni» (… e … e … e …) libidiche, per traslocare in un «altro mondo», nel mondo del Logos e della Rappresentazione, in cerca di nuove «congiunzioni» culturali.

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Dalle «connessioni immaginali» alle «congiunzioni simboliche», passando per le «disgiunzioni paterne [edipiche]»: questo è il cammino della Primavera del Pensiero, secondo il Racconto delle Pianure. Il cammino di una Primavera concepita come il Solstizio Eterno del Pensiero, ma che nel Racconto rispunta solo nelle «equazioni» della Notte e del Giorno, solo agli «equinozi» di Thanatos ed Eros. Essa, perenne solstizio dell’Uno, «morta» a ogni futura rappresentazione dei «figli» suoi, si riserva, per così dire, il privilegio di scostare il velo e di manifestare, capovolta in un «sorriso», la sua tragica «assenza».

Ma proprio qui è il punto… di domanda: come mai, pur essendo il «solstizio» delle «espressioni prime» dell’immaginazione e del desiderio, il Racconto ne fa la Primavera di tutt’e due gli «equinozi simbolici», sia di primavera che d’autunno?
Questione, dice Lévi-Strauss, di «calendari sacri», le cui «calende» cadono solo nei momenti di giuntura, solo nei giorni in cui si celebrano le «nozze» di uomini terreni con donne celesti, o viceversa.

E «terreni» sono i nostri due fratelli che fanno «visita» a due Signore Celesti: dapprima alla «Vecchia che non muore mai» [detta anche la «Vecchia di lassù»], e poi alla Sposa di Dalì-divisione-per-treUccello-Tuono. È così che la Madre «assente», l’Immaginatrice «defunta» assieme all’immediatezza del Pensiero, riappare «sdoppiata» nel Calendario Sacro, mascherata nelle sembianze di due «controfigure»: ora di una Madre «adottiva», ora invece di una Suocera disposta a «far adottare» le sue due figlie a chi la guarirà dalla ferita.

La Madre del Racconto è morta nel partorire i suoi due figli. È morta al Solstizio della sua «immediatezza» la Volontà dell’Uno. E i «disgiunti» che ha messo al mondo, i «voluti» che le sopravvivono, le «serie espressive» (l’una saggia, l’altra folle; l’una maggiore, l’altra minore) del linguaggio a lei «postumo», hanno solo da attendere il «ciclone» o il «tuono», l’«aquila» o il «fulmine» che li innalzi al cielo delle «nozze simboliche». Al cielo dove ogni svolta del Racconto coincide con l’incrocio «equinoziale» di due «serie immaginali».
Solo in virtù di questo incrocio è possibile il linguaggio del Racconto, il Logos della rappresentazione – nel cielo dove non esistono che le controfigure della Madre «morta e sepolta».

Perché si compia il «miracolo» della sua risurrezione, ci vogliono due «serie parallele», due «serie espressive» talmente disgiunte e separate che l’una sia l’opposto dall’altra – due «serie fraterne» che si rinviino e si rovescino tra le due opposte sponde, non solo del Missouri, ma di un solo Pensiero «morto» alla sua Volontà di potenza. Due serie, l’una simmetrica inversa all’altra. E bisogna, dice il Racconto delle Pianure, che una delle due accolga i «grandi intervalli» e le discontinuità cromatiche (cfr. il fratello maggiore che «salta» dal serpente che lo «traghetta» con un balzo sulla terraferma), mentre l’altra (quella del fratello «folle») continua a illudersi di poter fare a meno di una mediazione, e così permanere, insistere nell’«immediato», e perciò si perde nei «minimi dettagli», nelle unghie e nei peli dei «piccoli intervalli», senza cavarne altro che la sua prigionia nella Jenkins-due-fratellipancia di un continuum.

Quando cade il fulmine, dice il Racconto, il serpente muore sul colpo, mentre i due fratelli sopravvivono. Sta al fratello maggiore tirare fuori dai guai il suo sciocco fratellino. Sta al sapiente saper piangere l’idiota, per evitargli di finire in manicomio.
Perché è dalla vista del Sapiente annebbiata dal pianto, è dall’immaginazione del Maggiore che è ancora memore del pianto dell’Uno originario, e ancora sente l’eco del grido di dolore con cui è venuto al mondo – è dal suo «sogno» capace di produrre «un’immagine simbolica», che compare il Protettore.
Compare, bada bene, l’Uccello-Tuono, il Fulmine in persona, proprio quello che ha fulminato il serpente. Compare dunque il Distruttore, ma [sognato capovolto] in funzione di Costruttore. Come il fulmine di Zeus: distrugge Semele, e in sua vece salva il «doppio» Dioniso. O anche: «uccide» la Volontà di potenza, per mettere al mondo due dei suoi «voluti».

Se questi suoi «voluti» sono, come pare anche nel nostro caso, un Prometeo e un Epimeteo – il dritto e il rovescio di un’unica Volontà [scomparsa dalla scena] – se davvero sono i due «equinozi», la primavera e l’autunno, l’oriente e l’occidente, in cui fa capolino la sola Volontà di potenza del Pensiero, la inesauribile fecondità della Primavera del Racconto, «morta» e tuttavia sempre capace di «erotismo»: se davvero è solo il «ritorno del rimosso» a ridarci la gioia e la forza di vivere – allora le due «serie fraterne» hanno solo da attendere per tre giorni/notti di lamentazioni l’avvento del loro Protettore Sconosciuto.