Nietzsche – Noi siamo immagini e proiezioni artistiche della Natura

Ci avviciniamo adesso al vero e proprio scopo della nostra ricerca, che mira alla conoscenza del genio dionisiaco-apollineo e della sua opera d’arte, o almeno alla comprensione piena di presentimenti di quella misteriosa unificazione. E in primo luogo maschere-vaso-grecoci chiediamo dove si possa osservare per la prima volta nel mondo ellenico quel nuovo germe, che si svilupperà poi fino alla tragedia e al ditirambo drammatico.
In merito a ciò l’antichità stessa ci fornisce una spiegazione simbolica, quando in opere di scultura, gemme eccetera, pone l’uno accanto all’altro, come progenitori e portatori di fiaccola della poesia greca, Omero e Archiloco, col fermo sentimento che solo questi due siano da considerare come nature ugualmente e pienamente originali, dalle quali continua a scorrere un torrente di fuoco su tutta la posterità greca.

Omero, il vecchio sognatore immerso in sé, il tipo dell’artista apollineo, ingenuo, guarda ora con stupore la testa fremente di Archiloco, il battagliero servitore delle Muse, selvaggiamente sospinto nell’esistenza: l’estetica moderna ha saputo solo aggiungere, interpretando, che qui all’artista «oggettivo» è contrapposto il primo artista «soggettivo».
A noi questa interpretazione è poco utile, poiché conosciamo l’artista soggettivo soltanto come un cattivo artista, e in ogni forma e grado dell’arte esigiamo soprattutto e innanzitutto il superamento del soggettivo, la liberazione dall’«io» e il tacere di ogni volontà e appetito individuale; anzi senza oggettività, senza la pura e disinteressata contemplazione, non possiamo mai credere minimamente a una produzione veramente artistica.

Perciò la nostra estetica deve in primo luogo risolvere il problema di come sia possibile il «lirico» come artista: lui che, secondo l’esperienza di tutti i tempi, dice sempre «io», e che canta davanti a noi l’intera scala cromatica delle sue passioni e dei suoi desideri. Proprio questo Archiloco ci spaventa, accanto a Omero, col suo grido di odio e di scherno, con le ebbre eruzioni del suo desiderio: egli, il primo artista definito soggettivo, non è forse con questo il vero e proprio non artista? Da dove viene allora l’omaggio reso a lui, al poeta, proprio dall’oracolo delfico, dal focolare dell’arte «oggettiva», con assai memorabili responsi?

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Sul processo del suo poetare Schiller ci ha illuminati con un’osservazione psicologica per lui stesso inesplicabile, ma certamente indubbia: egli confessa infatti di aver avuto davanti a sé e in sé, come stato preparatorio all’atto del poetare, non qualcosa come una serie d’immagini con una causalità ordinata di pensieri, ma piuttosto una disposizione musicale («All’inizio il sentimento è in me senza un oggetto determinato e chiaro: questo si forma più tardi. Precede una certa disposizione musicale dell’animo, e solo dopo questa segue in me l’idea poetica»).
Se ora aggiungiamo a ciò il fenomeno più importante dell’intera lirica antica, l’unione, anzi l’identità dappertutto considerata naturale del lirico col musico – davanti a cui la nostra moderna lirica appare come l’immagine di un dio senza testa – possiamo, basandoci sulla nostra metafisica prima esposta, spiegarci il lirico nel modo seguente.

Dapprima egli è divenuto completamente, come artista dionisiaco, una cosa sola con l’uno originario, col suo dolore e la sua contraddizione, e genera la riproduzione di quest’uno originario come musica, giacché la musica ben a ragione è stata denominata una ripetizione del mondo e un suo secondo getto; ma poi, sotto l’influsso apollineo del sogno, questa musica gli diviene di nuovo visibile come in un’immagine di sogno simbolica. Quel riflesso senza immagine e senza concetto del dolore originario nella cratere-Dervenimusica, con la sua liberazione nell’apparenza, produce poi un secondo riflesso, in quanto singola immagine o esempio.
L’artista ha già rinunciato alla sua soggettività nel processo dionisiaco: l’immagine, che adesso la sua unità col cuore del mondo gli mostra, è una scena di sogno che rappresenta sensibilmente, insieme al piacere originario dell’apparenza, la contraddizione e il dolore originari.

L’«io» del lirico risuona quindi dal fondo dell’essere; la sua «soggettività» nel senso inteso dall’estetica moderna, è un abbaglio. Quando Archiloco, il primo lirico greco, rivela alle figlie di Licambe il suo delirante amore e insieme il suo disprezzo, allora non è la sua passione che in orgiastica ebbrezza danza davanti a noi: noi vediamo Dioniso e le Menadi, e vediamo l’invasato ed ebbro Archiloco sprofondato nel sogno – il sogno descrittoci da Euripide nelle Baccanti, il sonno sugli alti pascoli alpestri, nel sole di mezzogiorno – ed ecco che Apollo gli si avvicina e lo tocca con l’alloro. L’incantesimo dionisiaco-musicale del dormiente ora sprizza intorno a sé quali faville d’immagini, poesie liriche, che nel loro più alto svolgimento si chiamano tragedie e ditirambi drammatici.

Lo scultore, e con lui il poeta a lui affine, l’epico, sono sprofondati nella pura contemplazione delle immagini. Invece il musico dionisiaco non vede alcuna immagine; egli è completamente e unicamente lo stesso dolore primordiale e la sua eco originaria. Il genio lirico sente scaturire dallo stato mistico di alienazione di sé e di unità, un mondo d’immagini e di simboli, che ha una colorazione, una causalità e una velocità completamente diverse rispetto al mondo dello scultore e del poeta epico.

Laddove quest’ultimo vive in queste immagini e solo in esse si sente piacevolmente a proprio agio e non si stanca di contemplarle amorevolmente fin nei minimi particolari; laddove perfino l’immagine dell’irato Achille è per lui solo un’immagine, la cui espressione irata egli gode con quella gioia del sogno per l’apparenza – così che da Fraccaroli-Achille-ferito-tallonequesto specchio dell’apparenza è difeso dall’immedesimarsi e fondersi con le sue figure –; all’opposto le immagini del lirico non sono nient’altro che lui stesso e, per così dire, soltanto diverse oggettivazioni di sé, tanto che egli può dire «io» in quanto centro motore di quel mondo; solo però che questa egoità non è la stessa di quella dell’uomo desto, empirico-reale, bensì l’unica egoità veramente sussistente ed eterna, riposante sul fondo delle cose, e attraverso le cui immagini il genio lirico penetra con lo sguardo appunto fino a quel fondo delle cose.

Immaginiamo ora come egli scorga fra queste immagini riflesse anche se stesso come non genio, veda cioè il suo «soggetto», l’intera folla delle passioni e dei moti di volontà soggettivi tesi a una cosa determinata, che a lui sembra reale; se ora sembra che il genio lirico sia uno col non genio a lui legato, e che il primo parli di sé quando dice la parolina «io», ormai questa apparenza non potrà più sviarci, come certamente ha sviato quelli che hanno definito il lirico come poeta soggettivo.

In verità Archiloco, l’uomo infiammato dalle passioni, colui che ama e che odia, è solo una visione del genio, che non è più Archiloco, bensì il genio del mondo che esprime simbolicamente nell’immagine dell’uomo Archiloco il suo dolore originario; mentre l’uomo Archiloco, con la sua soggettività che vuole e desidera, non è e non potrà mai essere un poeta.
Ma non è affatto necessario che il lirico veda davanti a sé come riflesso dell’essere eterno proprio soltanto il fenomeno dell’uomo Archiloco; e la tragedia dimostra come il mondo visivo del lirico si possa allontanare da quel fenomeno, per quanto si presenti in primo luogo.

Schopenhauer

Schopenhauer, che non si è nascosto la difficoltà suscitata dal lirico nella considerazione filosofica dell’arte, crede di aver trovato una via d’uscita, nella quale non posso seguirlo, mentre egli soltanto possedeva con la sua profonda metafisica della musica il mezzo mediante cui quella difficoltà poteva essere decisamente rimossa: come io credo di aver fatto qui, nel suo spirito e ad onor suo.

Per contro, egli definisce la peculiare essenza del canto nel modo seguente (Il mondo come volontà e rappresentazione, I, 295): «È il soggetto della volontà, vale a dire il proprio volere, ciò che riempie la coscienza di chi canta; spesso come un volere libero e soddisfatto (gioia), ancora più spesso come un volere contrastato (tristezza), ma sempre come affetto, passione, stato d’animo commosso. Accanto a questo e insieme a questo, tuttavia colui che canta alla vista della natura circostante diviene cosciente di sé come soggetto di conoscenza puro e libero da volontà, la cui imperturbabile e beata quiete entra ormai in contrasto con l’insistenza del volere sempre limitato e sempre insufficiente: il sentimento di questo contrasto, di questo alterno gioco, è appunto ciò che in genere anima lo stato lirico e si esprime nel complesso del canto. In esso la pura conoscenza si avvicina, per così dire, a noi per liberarci dal volere e dal suo impulso: e noi la seguiamo; ma solo per alcuni momenti; sempre di nuovo la volontà, il ricordo dei nostri interessi personali, ci strappano alla tranquilla contemplazione; ma, d’altra parte, sempre di nuovo ci sottrae al volere la bellezza della natura circostante, in cui ci si offre la conoscenza pura e libera. Perciò nel canto e nella disposizione lirica il volere (l’interesse personale dello scopo) e la pura contemplazione della natura circostante che Borda-violinosi offre, si mescolano mirabilmente tra loro: si cercano e s’immaginano relazioni fra i due stati; la disposizione soggettiva, l’affezione della volontà comunicano e riverberano sulla natura contemplata i loro colori, e questa a sua volta su quelle: di tutto questo stato d’animo così mescolato e diviso il canto autentico è l’impronta».

Chi potrebbe negare che in questa descrizione la lirica viene caratterizzata come un’arte imperfettamente raggiunta, che saltuariamente e raramente perviene alla meta, anzi come una mezza arte, la cui essenza consisterebbe nel fatto che il volere e la pura intuizione, cioè lo stato non estetico e lo stato estetico, sono mirabilmente fusi l’uno nell’altro?
Noi invece affermiamo che tutto il contrasto secondo cui, come in base a un criterio di valore, lo stesso Schopenhauer suddivide ancora le arti, quello tra il soggettivo e l’oggettivo, non è proprio dell’estetica, poiché il soggetto, l’individuo che vuole e persegue i suoi fini egoistici, può essere pensato solo come avversario e non come origine dell’arte. In quanto artista invece, il soggetto è già liberato dalla sua volontà individuale, ed è diventato, per così dire, un medium, per mezzo del quale l’unico che veramente è celebra la sua liberazione nell’apparenza.

Giacché soprattutto questo deve esserci chiaro, a nostra umiliazione ed esaltazione, che tutta la commedia dell’arte non viene affatto rappresentata per noi, per una nostra edificazione ed educazione, anzi che noi non siamo minimamente i veri creatori di quel mondo dell’arte; al contrario possiamo supporre di essere per il suo vero creatore immagini e proiezioni artistiche, e di acquisire la nostra massima dignità nel significato di opere d’arte – poiché solo come fenomeni estetici l’esistenza e il mondo sono eternamente giustificati: – comunque la nostra coscienza di quel nostro significato è appena diversa da quella che i guerrieri dipinti sulla tela hanno della battaglia su di essa raffigurata.

Quindi tutto il nostro sapere sull’arte è in fondo completamente illusorio, perché come esperti non siamo un’unica e identica cosa con l’essere che, come unico creatore e spettatore di quella commedia dell’arte, si procura un eterno godimento.
Dunque solo nell’atto della creazione artistica il genio si fonde con quell’artista originario del mondo, cogliendo qualcosa dell’essenza eterna dell’arte; giacché solo in quell’istante egli somiglia in modo meraviglioso alla perturbante immagine della fiaba, che può girare gli occhi e guardare se stessa; allora egli è contemporaneamente soggetto e oggetto, contemporaneamente poeta, attore e spettatore.

(Nietzsche, La nascita della tragedia: 5)

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La Natura è arte, la Natura è desiderio, la Natura è industria – la Natura è Volontà di potenza. È così che la pensa Nietzsche: gli «impulsi artistici» sono della Natura – e noi, in quanto sue «immagini e proiezioni», siamo naturalmente indotti a significarci ad arte, indotti a scriverci o dipingerci, a musicarci o scolpirci, per «acquisire la nostra massima dignità nel significato di opere d’arte».
La Natura è produzione, e noi naturalmente siamo portati a riprodurla. Non siamo «creativi» che quando umiliamo la nostra presunzione di «creatori» e ci esaltiamo a «ricreare» le volontà artistiche che la Natura persegue facendo di noi i suoi fenomeni estetici.

Perciò l’artista, qualunque artista, è stato già «umiliato» una volta, è stato già «mortificato», passando in principio «per il processo dionisiaco»: Orfeo è già stato fatto a pezzi, prima di pizzicare il femore di un’arpa, e lo stesso Omero, e come lui ogni poeta «ingenuo», ha già dovuto a suo tempo combattere una titanomachia, prima di stendere la sua «semplicità» come un velo su quel terribile passato.
Ogni apollineo, perfino il più ingenuo e restio ai richiami di Dioniso, in tanto è artista, in quanto è risorto gioiosamente dal dolore patito nel suo originario smembramento – e se pure ha confidato il suo ingenuo «erotismo» nelle mani del sogno e dell’apparenza, non per questo è passato per un’altra trafila.

Se è artista, non può essere «soggettivo». L’artista (apollineo e/o dionisiaco) è diventato artista – in entrambi i casi passando per l’esperienza della morte della propria uomo-malinconiasoggettività. L’apollineo, questa morte, se la nasconde dietro il miraggio della Bellezza. Il dionisiaco invece non riesce a tacerne lo strazio. L’apollineo si aggrappa al «riflesso immaginario»: a ciò che «ha visto» Narciso, sordo agli appelli e alle profferte amorose di Eco; il dionisiaco invece attinge la sua ispirazione al «riflesso senza immagine e senza concetto», al grido di dolore, alla straziante «musica» del dolore originario della Natura.

Tra l’apollineo e il dionisiaco, non c’è in fondo che questa minima differenza – tanto più minima, in quanto non esiste (non più, secondo la «storia dell’arte greca» qui delineata da Nietzsche) né l’apollineo né il dionisiaco «puro», ma l’uno convive con l’altro nello stesso artista. E poiché ogni artista è tale, solo se è «morto» alla sua soggettività, a convivere in lui sono Apollo e Dioniso – sono le eterne potenze della Volontà Artistica della Natura, così come se le «deificarono» nella loro lingua i Greci.

Così Nietzsche sgombra (o perlomeno crede di sgombrare) l’estetica moderna dall’aut-aut che assilla, non solo i vaniloqui della Vulgata, ma perfino gli scritti d’un filosofo del calibro di Schopenhauer: «oggettivo», «epico» (come Omero), o «soggettivo», «lirico» (come Archiloco) – per Nietzsche è una falsa, oltre che stantia, questione.
L’artista, dice, non è mai «soggettivo», neanche quando dice «io» (e Archiloco ce l’ha questo vizio!), neanche allora è lui a volere, lui a creare, lui a potere una qualunque «opera d’arte». Se è artista, è perché in lui vive un «riflesso» della sua antica morte per smembramento: un riflesso «immaginario», «visivo», «plastico» farà di lui tendenzialmente un apollineo; viceversa, un riflesso «sonoro» (custodito nel Tempio dell’udito), un’eco rimasta allo stato «musicale» selvaggio, dispersa nell’insensatezza del «senza immagine e senza concetto», farà di lui testardamente un dionisiaco.

E poiché nessun artista è tale, se ha il vizietto «autobiografico» di pensarsi «soggetto creatore» della «sua» arte – poiché ogni artista non è che una larva dell’auto-riproduzione estetica della Natura – la distinzione tra «oggettivo» e «soggettivo» per Nietzsche non è più che un fasullo criterio di valore, di cui è bene sbarazzarsi se si vuole comprendere l’Arte.
Ben altra è la distinzione che egli qui ci suggerisce: tutti gli artisti, dice, hanno «patito» il travaglio dell’Uno originario, e si sono «identificati» con quel suo grido di dolore. Tutti, Psachos-gridoindistintamente, apollinei e dionisiaci, passando per la «mortificazione» del proprio essere, sono stati precocemente invasati da quella «musica» partoriente, e ne sono stati orficamente lacerati. Nessuno di loro è nato «ingenuo»: se mai, lo è diventato. Nessuno di loro è stato «incantato» se non da quel «ritmo», da quella «frequenza d’onda» che, come dice Schiller, a ciascuno detta la sua originaria «disposizione musicale».

Tutti gli artisti, dunque, sono in prima istanza dei «musici» in ascolto delle vibrazioni (dionisiache) che la Natura produce e riproduce toccando le loro corde «patetiche e sentimentali».
La sola distinzione ammissibile, allora, riguarda la riproduzione, il riflesso, a cui l’artista affida la «liberazione nell’apparenza» di ciò che in privato ha «sentito» dettargli dalla sua Musa. Riguarda solo il «ritmo», la velocità o la lentezza delle onde a cui ciascuno di loro affida la «ricreazione» della magia naturale che l’ha «assoggettato» alla Volontà Estetica della Natura.

Da un lato, Narciso si affida, tutto quanto, allo stupore che lo paralizza, al riflesso immaginario che l’immobilizza, e che ne fissa lo sguardo fin nella contemplazione dei «minimi particolari» del suo doppio. Narciso ha già «udito» Eco, ma a quanto pare Eco non fa al caso suo: Narciso ha una vocazione «apollinea», e perciò può «liberare» il suo desiderio solo guardando e riguardando l’immagine, e cioè il «secondo riflesso», il riflesso tardivo del «sentito» in una «visione».

Dall’altro, invece, c’è il marinaio che solca un mare in tempesta, e le onde si succedono in un tale crescendo, che alla sua «arte della navigazione» non è dato ancorarsi a nessuno «spettacolo», a nessuna «bellezza» o «meraviglia». Travolto com’è dall’eruzione dei suoi stessi desideri, dei molteplici pezzi in cui si è frantumata in lui la Volontà Estetica della Natura, egli non vede il mare, ma un incalzante susseguirsi, un breve effimero spuntare di immagini tra i flutti: troppo breve, perché una di esse giunga in tempo a «fissarsi» o a «stazionare» nel suo sguardo. Niente stupisce il «dionisiaco». Niente in lui si «concettualizza». Per «liberare» il suo desiderio, egli può solo sentire e risentire Eco che, addolorata e innamorata, riproduce il dolore d’un parto. Di uno strano «parto all’incontrario»: a levare, anziché a mettere al mondo, un corpo, una forma, un’identità qualsiasi.