Zhuang-zi – La conoscenza che consiste nel non conoscere

Grande Purezza Celeste chiese a Infinito: «Conoscete il Tao?».
«Non lo conosco», disse Infinito.
E Grande Purezza Celeste chiese allora a Non-Fare (wu wei): «Conoscete il Tao?».
«Lo conosco», disse Non-Fare.
«Il Tao, secondo la vostra conoscenza, può essere qualificato?», chiese Grande Purezza cinese-meditazioneCeleste.
«Può esserlo», disse Non-Fare.
«Come può essere qualificato?», chiese Grande Purezza Celeste.
«A mio parere – disse Non-Fare – il Tao può essere nobile e vile, concentrato ed esteso; queste sono le qualità attraverso le quali conosco il Tao».

Grande Purezza Celeste riferì le parole di Infinito e quelle di Non-Fare a Senza-Principio, e gli chiese: «Infinito non conosce il Tao e Non-Fare lo conosce. Quale dei due ha ragione? Quale ha torto?».
Senza-Principio gli rispose: «Colui che non conosce il Tao è profondo, colui che lo conosce è superficiale. Il primo coglie l’interiorità, il secondo tocca solo l’esteriorità».

Grande Purezza Celeste lo approvò esclamando: «Non conoscere significa dunque conoscere? E conoscere, non è forse non conoscere? Chi dunque conosce la conoscenza che consiste nel non conoscere?».
Senza-Principio disse: «Il Tao non può essere udito; ciò che si ode non è lui. Il Tao non può essere visto; ciò che si vede non è lui. Il Tao non può essere enunciato; ciò che viene enunciato non è lui. Chi sa dunque che ciò che genera la forma è senza forma? Il Tao non deve essere nominato».

Senza-Principio poi aggiunse: «Colui che risponde a chi gli fa domande sul Tao non conosce il Tao; e il fare domande sul Tao dimostra che non si è affatto sentito parlare del Tao. La verità è che il Tao non sopporta domande, né risposte alle domande. Fare domande sul Tao, che non contiene domande, è considerarlo una cosa finita. Rispondere sul Tao, che non contiene risposta, è considerarlo una cosa sprovvista di interiorità. Chiunque risponde su ciò che non ha interiorità a colui che interroga su ciò che è finito, non coglie né l’universo esteriore, né la sua origine interiore. Non attraversa i monti Kun-lun, non va fino al vuoto supremo».

(Zhuang-zi, 22)

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cinese-tempesta-marina

Colui che sa, non parlaaveva detto poche pagine avanti il Sovrano Giallo. Dall’alto del trono della sua «sapienza», parlando quelle poche parole, aveva implicitamente confessato di non sapere di che cosa stesse parlando.
Colui che parla, non sa – perché la parola è sintomo d’un difetto di sapere, e la parola mai ammetterà la sua ignoranza «originaria», il suo «peccato» rappresentativo, il suo essere ostaggio delle «mediazioni». La parola, infatti, ci è nata nell’«attimo» in cui dalla Realtà Immediata siamo emersi a questa «vita breve».

Per venire a parlare del Tao, noi che nel Tao eravamo inconsapevolmente immersi, noi suoi «intimi» d’una volta, siamo usciti dall’analfabetismo del Tao, e ci siamo così alienati alla sua smemorata «interiorità», e astratti a tal punto dal gusto dei suoi sapori anonimi, da illuderci di poterlo vomitare in un sapere.
Dacché siamo arrivati a dargli un nome, lo trattiamo come un qualunque «oggetto» di domande e di risposte, e lo confiniamo in un termine – esiliando, con lui, noi stessi nella coscienza di essere «a termine».
Come se il Tao terminasse, come se avesse un principio e una fine. Come se il Tao non cinese-Confucio-piccolo-Buddha-Laotsefosse perennemente all’opera nelle «espressioni prime» di tutti i bambini che vengono al mondo.

A furia di dare tutto questo credito «adulto» alla Parola, ci siamo rassegnati alla «vita breve» dei nostri «detti». E a furia di dirli e di ridirli nell’ostinato tentativo di strapparli all’oblio, ci siamo talmente assentati all’«incantesimo espressivo» del Tao, alla magia di quella «sillaba nuziale» con la quale il Tao celebrò il nostro inizio alla Parola – da dover, a questo punto, tardivamente chiamare in causa il più astratto degli astratti, il signor Senza-Principio, per sbrogliare concretamente la faccenda.

Perché il Tao non è «finito», non può «finire» in una parola o frase, proposizione o tavola di legge. Perché il Tao non è mai «cominciato». O, meglio ancora, non ha mai cessato di «cominciare». Si potrebbe dire che è qualcosa come l’Eterno Inizio, se non fosse che, anche così, finiremmo per (de)terminarlo.

E perciò dobbiamo, se mai non fosse troppo tardi, evocare nientemeno il più irreale degli irreali dei suoi portavoce, ancora lui, il tale o talaltro Senza-Principio, perché solo da lui possiamo attenderci l’ultima parola del Tao, l’ultima sua «espressione» che si confuse con la nostra prima parola «attiva».
Solo l’eco gode infatti di questo paradossale privilegio: di mancare di quell’Astratto «precedente» di cui è solo una monca, difettiva ripetizione, e di cui a malapena raccatta in extremis una vaga, e dunque ancor più astratta, risonanza. Solo Eco dice e non dice di quale Narciso gioì e insieme si dolse in principio la sua «purezza celeste». Solo Eco che è Senza-Principio serba la coda di un «io», di quell’addio che Narciso balbettò alla Forma Vuota della sua immaginazione. Solo una rima, appena un’assonanza.

Il Tao, interrogato come se fosse lui l’Oggetto della domanda – lui e non l’Incognita linguistica del nostro remoto miraggio «narcisistico» –, come se fosse lui il «da rappresentare», e non il «dietro le quinte» della Commedia Umana; insomma: il Tao Creese-yin-yangindagato come un qualunque altro coso andato a «finire» nelle nostre parole, e nominato come un qualunque altro nome, non è che la caricatura «filosofica» del Tao.
Oh, Filosofo – filosofo dei miei stivali – se è a queste e simili domande che tu ti affanni a rispondere, è solo perché, come me, non godi più della sua intimità. Ma possibile che non ne senti nemmeno la nostalgia?

Solo tra due estranei al Tao – ci si domanda e ci si risponde a proposito del Tao. Solo dei forestieri al Tao, possono vantarsi di saperlo.
Non c’è nulla da «dire» del Tao – nient’altro che la sua «contraddizione»: è, ma non c’è. È, ma non esiste. Se lo conosci, è perché non l’hai mai conosciuto. Se lo ignori, è perché ancora non sei uscito di casa sua.
Il Tao non può essere «nominato». Il Tao può essere soltanto «cantato» e «poetato», e solo in quell’estremo lembo linguistico tra il «balbettio d’infante» e la Parola «adulta».