Colli – L’oggetto astratto

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Perciò saranno nomi, tutte le cose che i mortali hanno posto, convinti che non fossero celate: nascere e perire, essere e non essere, mutare il luogo e variare il fulgido colore.
(Parmenide)

Il mondo come espressione coincide con il mondo come rappresentazione, o più precisamente: ogni rappresentazione è sostanzialmente un’espressione, e ogni espressione si accidentalizza in una rappresentazione.
Tuttavia nella sfera astratta, che in senso rigoroso è condizionata dal riflusso espressivo, l’accidentalizzazione rappresentativa si mette in evidenza, e una teoria dell’astrazione, cioè delle espressioni seconde, sarà tipicamente una teoria della rappresentazione, in quanto è solo in tale sfera che gli elementi rappresentativi sono suscettibili di una trattazione perspicua.

Questo perché l’oggetto come tale si rivela all’origine dell’astrazione.
Al contrario, la prospettiva dell’espressione diventa il più valido strumento interpretativo – poiché l’espressione è appunto un’ipotesi metafisica – là dov’è il campo delle rappresentazioni primitive e dove è arduo afferrarsi con fermezza a un qualsiasi Duchamp-NuDescendantLescalierelemento chiarificatore, traendolo dalla rappresentazione in se stessa.

Quando il filo che lega, mediante la memoria, una rappresentazione primaria a un’altra si confonde imbrogliandosi nel convergere e divergere delle serie espressive (e questa è la regola), allora questa rappresentazione non sarà più recuperabile nella sua primordialità. È questa l’evanescenza delle rappresentazioni primitive. Le quali però, in quanto espressioni, manifestano qualcosa, e il segnale di questa luce manifestante fa sì che possano essere riprese più tardi (ma il viluppo dei tempi offre un’inestricabile simultaneità) e oggettivate nei colori del mondo per opera delle rappresentazioni astratte, che su quell’indistinto appoggio, su quel richiamo vibrante costruiscono – «interpretando» le rappresentazioni primarie obliterate – il mondo che si chiama reale. Così il concreto prende la sua forma dall’astrazione.

Difatti un’espressione prima non si esaurisce in una sola rappresentazione, ma consiste piuttosto in una rappresentabilità, in uno schema di rappresentazioni, cosicché la data rappresentazione astratta che rievoca quell’espressione prima, appartiene alla sfera conoscitiva di un soggetto elaborato ed è collocata in un sistema della necessità, e ordinerà e inquadrerà quella rappresentabilità indistinta, plurisoggettiva, ambigua nei suoi elementi di giuoco e di violenza, trasformandola in un oggetto inserito nel meccanismo della causalità e fondendo tutto ciò in quello che appare come una certa immagine concreta.

La sfera dell’arte conferma l’ipotesi del mondo come espressione, poiché l’arte stessa è un’espressione che si pone accanto a quella naturale. L’artista crea un oggetto, un quadro, le parole di una poesia eccetera: tali oggetti in sé sono espressioni, ma nel contesto della vita sono occasioni di rappresentazioni, di rievocazioni da parte degli spettatori e fruitori. Le espressioni naturali tuttavia si esprimono ulteriormente in una catena che segue la direzione del concreto, mentre le espressioni artistiche sono elementi finali; esse hanno una continuazione solo fittizia nella sfera rappresentativa, trapassando nei fruitori per la suddetta rappresentabilità, in un cammino che non sfugge all’astrazione. […]

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Prima dell’oggetto c’è dunque il nesso, e il nesso già interpreta astrattamente l’attimo (in sé l’espressione prima è un attimo, la cui conoscenza è obliata, e che solo in seguito recuperiamo trasformandolo in sensazione); all’origine della memoria l’attimo esprime l’immediato.
Inversamente il passaggio dalle espressioni prime, in sé ipotetiche, all’apparire distinto dell’oggetto, nell’insorgere del riflusso, si manifesta anzitutto in una rappresentazione come nesso, la quale tuttavia viene tosto affiancata da altri nessi per la testimonianza della memoria lungo le altre serie espressive, cosicché l’estendersi dell’intreccio raggiunge infine una consistenza, un riconoscimento dell’unità attraverso la somiglianza.

Agglutinati assieme, i ricordi degli attimi si saldano in un oggetto, che è già compiutamente un’espressione seconda (anche i ricordi lo erano, in quanto nessi, sebbene ancora attaccati agli attimi che riflettevano).
L’oggetto aggregato è una conquista nuova dell’apparenza, si presenta come una integrazione, anzi addirittura come semplicità, con un risultato espressivo che non soltanto oblitera la mancanza di plasticità nel processo formativo, ma si estende Halpert-vaso-paesaggioretrospettivamente interpretando gli indistinti suoi componenti come preesistenza dell’oggetto.

Per il fenomeno agglutinante dei ricordi, inoltre, l’oggetto integrato sovviene alla perdita di concretezza, nell’offuscarsi degli attimi attraverso la memoria: con questo congiungimento l’apparenza guadagna in estensione, si arricchisce di una nuova forma, dove molto è dimenticato, ma altro viene interpolato.
Tale oggetto è già un universale, qualcosa di astratto – eppure è quello che si chiama comunemente una singola cosa del mondo, qualcosa di concreto, per esempio «questo pezzo di legno» oppure «Socrate». Difatti è qui, in tale acquietamento, che interviene per la prima volta il linguaggio [simbolico], con la denominazione della singolarità [di questo o quell’oggetto].

Di contro all’acquietamento non va però dimenticato l’aspetto della tensione: il condizionamento dell’oggetto sta nell’affiorare di rappresentazioni come nessi, le quali si rivelano collegate tra loro, cosicché si ha una congiunzione di nessi, dove la relazione modale, sceverandosi dell’ambiguità dell’intreccio tra espressioni prime, si delinea nel prevalere della necessità.
L’unità dell’oggetto è condizionata dal predominio del necessario. È questa la forma embrionale del giudizio, le cui radici stanno nella suddetta congiunzione. È qui infatti che il termine sorge dal nesso, ed è qui che compare per la prima volta, non soltanto il linguaggio [simbolico], ma altresì l’essere… come si vedrà.

(Colli, Filosofia dell’espressione)

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Nel fluire della Realtà Immediata, in assenza di un ego, e in mancanza di una memoria individuale, a «esprimersi», a sottrarsi all’oblio e a deviare dalla «retta via» inconscia, non può essere che l’onda stessa, e quali che siano, le sue «espressioni» non possono schiumare che là dove il suo scorrere s’arresta per scontare, più o meno fulmineamente, la sua «inadeguatezza» alla forza della corrente. Là dove – nel corso del suo fluire – si sorprende a scoprirsi «insufficiente», non all’altezza del Reale, impotente a sostenere la vista del Sole «reale» senza fare una smorfia.

E questa smorfia è la sua prima espressione: con essa a esprimersi non è l’onda, ma il mondo che viene al mondo a ogni deviazione del suo flusso dal «sentiero del Sole». Con essa è il mondo come volontà e (insieme) come rappresentazione che sorge, per difetto, per il venir meno dell’incoscienza dell’onda.
Sorge là dove il «fluente» abbandona la vecchia pista della Via Lattea, per decadere dal Polo inconscio dell’Essere, su una costellazione dello zodiaco – e da qui, a bordo della lingua di una Tribù, imbarcarsi in un «folle volo» alla volta della Realtà Astratta e delle sue «rappresentazioni».
Saranno nomi tutte le cose che i mortali hanno posto…

Dalla smorfia – dall’espressione – alla rappresentazione, il passo è breve. È un attimo di «trecento anni», è una «sintesi temporale» che irrompe – una vera e propria folgorazione Hiroshige-ondesulla via di Damasco. Un lampo simultaneo al tuono.
Grazie a questa «sintesi» sottratta allo scorrere «immediato», la volontà della smorfia vuole, da subito, anche la sua rappresentazione. E non può volerla se non là dove accidentalmente (per puro caso) incontra un’ulteriore prova della sua «insufficienza». E perciò vuole rimettersi a un’altra possibilità d’essere. Non s’arrende. Insiste. Vuole andare oltre, ancora. E nell’andare a oltranza non può potere che ciò che vuole, al di là degli «oggetti» apparenti a cui mira.

Il mondo come espressione è, dunque, già in nuce aperto a farsi mondo come rappresentazione… deve solo «tradursi» a un altro livello e regime linguistico. Deve solo apprendere un’altra sintassi. Deve solo misurarsi con un’altra Necessità – quella della Macchina Simbolica, la Langue della Tribù.
Dalla smorfia d’un sorriso – da questa prima scommessa metafisica propria del cucciolo della nostra Specie, – al logos di una Gente, al Libro delle sue credenze, alle rappresentazioni dei suoi miti, ora in auge, ora invece al tramonto. Accidentalmente, per puro caso, l’espressione s’avventura nella sua propria interpretazione, giungendo a rappresentarsela – a oggettivarla, a farne un «oggetto» fuori di sé (alla Narciso, per intenderci). Addirittura: ad attribuire a questo «oggetto» una illusoria preesistenza al suo sguardo.

Da qui, il cammino è dal Concreto all’Astratto. Dalla «differenza» sottratta al fluire «immediato» della Realtà inconscia, dall’«insufficienza» a fluire nelle onde dell’incoscienza, dalla smorfia, dal sorriso, dalla prima espressione, se non metafisica, perlomeno «estatica», del cucciolo della nostra Specie – alla loro rappresentazione simbolica. Ovvero: dalla «differenza di primo grado» a quella «di secondo grado». Dalle serie espressive, frammentarie e disordinate, dei primi tempi – dagli «innumerevoli mondi» in cui di botto la Volontà si scopre concretamente frantumata a volere questo e questo e quest’altro ancora (… e … e … e …) – all’incrocio di «differenze» di serie tra loro disparate, e dunque: all’emergere di nuove «differenze», capaci di «articolazioni», di nessi (metaforici e metonimici) impossibili al primitivo linguaggio immaginale, e perfino di «richiami» (in vita) dell’Estinto, di espressioni «artistiche» più complesse, di «artifici» magici, di promesse, amuleti e giuramenti.

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L’Astratto non compare che al livello (simbolico) delle differenze di secondo grado, delle rappresentazioni ed espressioni seconde. Entra cioè in gioco solo varcando la soglia del «dire», solo passando per la porta di un «dialetto» o di uno «slang».
Ma non c’è «simbolico», dice Colli, se non nel riflusso dell’espressione. Non c’è «astrazione», se non nel ritornello d’una memoria, nella ripetizione di una smorfia già espressa e dimenticata.

Solo nella gioiosa risurrezione d’una tristezza antica, e solo nella felicità più profonda di quella tristezza (dice, più o meno, Dino Campana), solo nella vibrazione d’una strana risonanza «simultanea» del Passato nel Presente, e viceversa – solo nel ritorno d’eco d’una espressione del Precursore (dice Deleuze), e solo al prezzo di una voluta «falsificazione» (la celebrazione di un trionfo sul luogo stesso del proprio «fallimento»), il cucciolo della nostra Specie devia la rotta e si congeda dal Concreto da cui ha patito una «bocciatura», per provare a «sbocciare» a un’altra Realtà. Alla realtà degli «oggetti», e alla pazziella della loro «astrazione» simbolica.

Ora, ciò che chiamiamo e rappresentiamo come «oggetto» è proprio la x, non è altro che l’Incognita astratta dal miraggio d’un «attimo» in cui convergono e si fondono, l’una complice dell’altrui implicazione, due distinte «differenze» di due diverse serie surreal-abstractespressive. Questa Incognita – questa problematica x – non compare che sulla soglia dell’astrazione. In concreto – non esiste nessun «oggetto», se non nel linguaggio della rappresentazione.
La rappresentazione è concretamente Astratta – estratta e sottratta al fluire della Realtà Immediata. E l’«oggetto» non è che miraggio e fumo negli occhi, che così provvidenzialmente si tengono al riparo dall’insostenibile abbaglio del Sole «reale».

Ma l’astrazione, e con essa la rappresentazione, non può venire che dal fondo stesso delle «espressioni prime». Non può sorgere che da un’articolazione «di secondo grado» dello stesso linguaggio espressivo.
Là dove si fondono, l’una nelle pieghe dell’altra, due «differenze» espressive di due distinte e separate «serie» primitive, solo una «terza» espressione può infatti essere richiamata a saldare il miraggio della loro coalescenza, e insieme a interpretarlo, fungendo da sua «unità di misura», da «segno» e da «sigillo» di ciò che vi si vuole esprimere – e cioè: quest’altra, questa nuova insufficienza (di secondo grado).

Dalle espressioni prime alle espressioni seconde – dal mondo che esprime la sua prima inadeguatezza – alle rappresentazioni in cui la Volontà vuole ancora ingannarsi a proposito di un suo nuovo fallimento. Questo è il cammino del «fluente»: è sulla soglia tra l’Immaginale e il Simbolico che il suo fluire si arresta: a dargli l’«altolà» è il miraggio in cui s’imbatte, di un «oggetto» dilemmatico, di un primo feticcio astratto, a un tempo totem e tabù, insieme Incognita e Legge del suo volere.
Volere ancora ingannarsi, per legiferare «ciò che si vuole», per appagare un desiderio di vita proprio là dove il «fluente» è stato «morto» una volta.

Ma ingannarsi, come? se questo Volere inizialmente dispone solamente di «espressioni prime»?
Grazie al «riflusso di memoria», dice Colli, dal Passato ritorna un’espressione «morta», dall’oblio risorge una sillaba dal caotico sillabario del «defunto» Precursore, dal Lete Bruni-monumentoqualcosa viene a sottrarsi: i Greci la chiamavano alêthé. Non è un «oggetto», ma dell’«oggetto» immaginale del miraggio (le nozze di due «espressioni prime») è quello che Colli chiama «l’indistinto appoggio». Non è un «oggetto», non è un’immagine, non è una forma, ma il vuoto pretesto di un nesso, di una relazione che grazie alla sua «intercessione» vibra e «parla» quest’altra lingua, la lingua del «dire» simbolico.

L’«oggetto» è solo fumo negli occhi, con cui la rappresentazione si guarda dal guardare in faccia il Sole. L’«oggetto» è pura astrazione, e di concreto non c’è che il nome che i mortali danno ai propri miraggi per astrarne i feticci delle loro volontà.
Il mondo popolato di queste «astrazioni», è quello che noi abitualmente diciamo «reale». È il mondo che il nostro Volere, castrato nell’«immediato», si finge per fare della Necessità un gioco. Per aggirarla – salvo poi incontrarla di nuovo, e di nuovo a patirne la prepotenza, nel cuore stesso del linguaggio dei nessi simbolici.

È necessità, infatti, a chi parla questo linguaggio – sacrificare l’«immediato» alla passione per i «medi», grazie ai quali sposare le «differenze», ma come se non bastasse, è necessità della Rappresentazione sacrificare anche questi sposalizi, i «nessi» e le «relazioni», al feticcio dei feticci – l’Oggetto. Il singolo Oggetto. L’Oggetto-«unità». L’Oggetto «discreto».
È necessità del «dire» far emergere dalla relazione delle «differenze» il Nome che la «sintetizza», ma insieme fingere di non sapere che il Nome grazie a cui il «dire» dà sostanza all’Oggetto, è per sua costituzione sempre il nome di una relazione. Il Nome non è che l’ultima «creazione artistica» del Precursore – di un’espressione, cioè, risuscitata a celebrare le nozze di due «differenze»… nascere e morire, essere e non essere.